Uomo, mi hanno condotta dall'estremo dove vivevo intera la "mia" vita al Tuo opposto tremendo di giustizia: che cosa dedurranno dal confronto dei nostri due insondabili princìpi? Qualcuno certo, conscio del Tuo inizio, tratteneva i Tuoi volti successivi in un travaglio cieco di rapporti ma io, ancor prima che gli anelli tutti della mia vita fossero congiunti, mi distaccai precipite dal nulla e proclamai la carne concepita. Uomo Perfetto, cosa dannerai di questo seme che, nel modularsi, s'è rinforzato solo di se stesso senza estasiarsi in giochi di virtù? Certo conoscerai che equilibrando ogni comandamento che mi esorta a saturarmi tutta di peccato, che riportando a questo intendimento la perfezione delle mie lacune, confluirei con adeguato passo verso una vita lineare e assente. Ma per ora, il peccato del mio tutto, resta la tappa ultima e possente ed un ritmo incessante di condanna mi rigetta dal muovermi comune. Quando, fanciulla appena, mi concessi, quando mi sciolsi per la prima volta da quel bruciore acuto di purezza che sublimava ambiguità tremende, sentii l'impegno che covavo dentro crescere, quasi a forza di missione. Non ho altra virtù che di condurmi a prodigiose altezze di consenso e una stanchezza illimite mi prende se non mi adagio sopra un'altra forma... Allineando tutte le mie ombre volte perdutamente verso terra, posso durare un tempo indefinito accentrata in un'unica figura. Ma che dolore sale le mie braccia reggenti il grave fascio di me stessa: l'essere dura giova solamente a questa dubbia resistenza mia... Sotto il piede che immagino sicuro cerco il terreno viscido di sempre: la tentazione è come un tempo lungo ch'io devo bere, abbrividendo, in fretta... Guarda, perché previeni il Tuo guardarmi con errata coscienza di pudore? Guarda, senza sapere l'astinenza, queste carni purgate dal piacere, questi occhi sinceri nell'orgoglio, questi capelli dal profumo intenso di vita e di memorie... Peccato questo vivere me stessa? So che la santità germoglierebbe esercitando in me falsi connubi, ma asségnami una giusta tolleranza se l'indulgenza nega questo passo, fa che il ritorno al vivere di sempre non sprofondi nel buio di un abisso e che non mi si dia maggiore colpa se come gli altri, e con eguale indugio, gioco il distacco dalla mia matrice.
Oh, dove prima al limite del giorno s'appiattava una forza ordinatrice, quale scoscendimento pauroso che mi rimonta sulla stessa ruota, sulla ruota del giorno e del tormento? E dove il digiuno di un incontro rovesciare codeste verità? Ah, fantasmi di te, mille fantasmi arsi di sete, tutti, alla mia fonte! Una forza stranissima si insinua nelle mie labbra docili e le incurva; io ruoto, sento, sul mio desiderio schiava di un magnetismo che mi ha vinta. La corsa dopo invaderà il mio corpo che la esercita in sé, nel suo tormento, per superare ciecamente il solco dove tu, assente, non puoi più fiorire. Ardo di mille musiche diverse, ma dove è tempo di un incontro nuovo, resiste il "poter essere" di te.
Leva morte da noi quell'intatto minuto come pane che l'amante non morse né la donna al colmo dell'offerta. Dove vita, di sé fatta più piena ci divide dal corpo e ci annovera al gregge di un Pastore costruito di luce, nasce morte per te. D'ogni dolore parto ultimo e solo che mai possa procedere dal seno... Eppure a noi lontano desiderio di quell'attimo pieno viene a fatica dentro giorni oscuri ma se calasse nella perfezione di sua vera natura presto cadremmo affranti dalla luce. L'albero non è albero né il fiore può decidersi bello quando sia forte l'anima di male; ma nel giorno di morte quando l'amante, tenebroso duce abbandona le redini del sangue, sì, più pura vicenda si spiegherà entro un ordine di regno. Ed il senso verrà ricostruito, e ogni cosa nel letto in cui cadde nel tempo avrà respiro, un respiro perfetto. Ora solo un impuro desiderio può rimuovere tutto, ma domani quando morte s'innalzi...
C'era, Alina, intorno a te un presepe di cose pure, appena toccate, un fiore d'arpa, angelico silenzio di labbra maledette. E non ti sembri oscuro questo canto: qualche volta la nascita è solenne e ridestare questi antichi ricordi mi fa male. Però ti dono questo canto mio come un pargolo infine benedetto ed è la poesia.
Tu che sei il fratello del marito irsuto sempre dentro nella persona e buona come forse fu il paziente Giosuè tu che incanti la parola dentro il disegno a me facesti segno di grandissimo e placido ritratto onde rimasi come poetessa che tu tanto vedevi il cuore mio come l'amor di Pierri universale che tu sia benedetto per la donna che ti sei tolta al fianco come diva uomo di spalle luminose assorte dentro l'aperta musica del bene.
Uomo che ingigantisci la tua ombra sicuro tuono di quella medusa che trionfa nell'algebra dei nomi Portatore di luce e nascimento di nuova legge tu al cospetto umano rendi moneta a Cesare sicura e ti vanti del ruolo di dominio onde percorso sei nelle tue vene Come ghianda si sfascia sulla terra ogni tanto il tuo resto viene meno alla fascinazione dell'Iddio ma ti immergi in Tomaso e vi ricavi quell'acqua nuova della scienza pura.
Ero al balcone della tua fortuna e guardavo un cavallo, o monumento, pari a un discorso fisso senza data. Se tu domandi ciò che vedo intorno alla giustizia, ti dirò che il volto della paura ha un senso maledetto, ti dirò che cercare il rosmarino o le felci nel buio di un teatro è come ricordare il paradiso e i colli della prima giovinezza, ti dirò di cercar la voce nuova di cui io forse sono sentimento e che profonda come la tua voce mi tolse dall'inferno del sapere. Quella cultura che forse mi devasta non è altro che un suono dell'amore e la chiusura della sua speranza: egli morì di folle sentimento come attaccato a un germe di vergogna e si rinnova in estasi profonda e si rinnova a ogni rinverdire di fronde, come fosse là nel solco di quel cortile cieco e maledetto dove questo poema si conclude dentro una forza fredda di natura.
O idolo tremendo che in galera passi il tuo tempo a diventare pazzo, o fustello di rabbia e di paura come ti debbo domandare venia? Anche se sei un ragazzo e mi cavalchi come un puledro, a volte sei gentile, pieno di morta grazia come sei, le tue carezze dividono il mio viso in due pareti piene di armonia: lo spaccano in due mondi universali.
Angolatura dolce del fragrante destino, brivido dentro l'ossa di un presagio leggero, e mano di dominio, forse persecuzione, ma perché i manicomi guardano verso l'alto con le cuspidi accese e il Gran Capo richiama a sé le folte schiere dei malati d'amore? O accensioni protese, guardatevi dal cuore, Egli è dominio oscuro, incantato signore, guardatevi dai gigli dalle espansioni di luce e dai vorticosi canti di chi geme la pace, noi siamo sulla terra come i grandi iniziati, aspettiamo un richiamo, ma il paradiso è in noi coi suoi fermi segreti.
Le dune del canto si sono chiuse, o dannata magia dell'universo, che tutto può sopra una molle sfera. Non venire tu quindi al mio passato, non aprirai dei delta vorticosi, delle piaghe latenti, degli accessi alle scale che mobili si dànno sopra la balaustra del declino; resta, potresti anche essere Orfeo che mi viene a ritogliere dal nulla, resta o mio ardito e sommo cavaliere, io patisco la luce, nelle ombre sono regina ma fuori nel mondo potrei essere morta e tu lo sai lo smarrimento che mi prende pieno quando io vedo un albero sicuro.