Solo il tramonto rivelò il suo lato carnale, cielo che morì e fu nero come una crosta dopo una ferita. Eppure quel comando d'obbedienza al mare, figlio sempre sottomesso, non accennò neppure a terminare quando fu spalancata la ferita che dal colore parve spirituale, pallore che donò l'abbronzatura, essa fu trasfusione, diede nuova linfa alla vita, al sonno. Come un cuore ch'innalzato dovunque era al suo centro la stessa pelle erano l'arterie, le stesse dita a tendere agli sguardi, volle arrivare a chi lo rifiutava.
Non ho dormito prima ch'era notte, ho atteso te, mio sole, cuore e luce, ché nell'acqua riversa del tuo cielo riesci a far risorgere ogni incendio, fiamma che esprime altro desiderio, altra tensione da quella degli esseri. Con i tuoi raggi, lingue scese al fondo d'un mare d'aria fino a questi occhi, vedi che ora il sonno è il mio volerti qui, nel carbone nero in cui è sepolta la mia pelle che sembra ormai il passato. Poiché credo a quest'unico miracolo: la notte che io penso di lasciare nel suo sepolcro, nell'inesistenza, si ripresenta, quotidiana morte, cenere tutta. Un'unica scintilla puoi scatenare, ch'io riveda ancora quell'ultima mia stella ch'è il mio sogno.
Se tu mi chiami apostolo di luce, spezza il tuo pane, offrimi un suo raggio, che io l'accolga senza che la bocca di uno dei miei occhi unisca ancora le labbra delle palpebre: rendimi sazio della cecità!
Un egoismo d'incondivisione, ché non vuoi che nessuno goda con te al tuo fianco del tuo essere vittoria anche soltanto all'apparenza. Il mio sguardo, il suo inchiostro non arriva a toccare il tuo foglio, ed al suo scriversi cade in sé stesso nel suo più profondo, ricade ancora quando si rialza. E non porti una goccia del tuo corpo evanescente a illuminare l'antro d'un timido riflesso che sia un sogno, né bevo un sorso del tuo vino sobrio. Luce, che hai solo il buio per nemico, che sei pronta a combattere a distanza, vergine sposa ch'hai scelto te stessa: vedi avversario l'uomo che ti implora? Sono la pelle che ti rassomiglia nel colore ed è un caso se dispersa fu in me dal primo giorno ch'io ricordi l'anima buia che mi porto dietro.
Ti nutri presso ciò che ha scritto l'uomo, a un bianco paradiso che nei suoi migliori esempi reca con l'inchiostro impronta nera, emblema di quell'ombra oscura e più profonda del suo male. E Dio fin lì è arrivato, lì è disceso! Quanta fatica a conquistare tutto quello che m'è possibile sapere, quanta disparità tra uomo e uomo! E quale cambio potrà avere un giorno luogo nel cielo quando tutto ciò che c'era qui lì avrà la sua scomparsa: la Tua mano benigna terrà aperta sul tavolo celeste che non spegne il suo colore nell'eternità: per me e chiunque se saremo salvi avrai aperto una pagina che a caso ci può sembrare adesso, ma che allora sarà soltanto quella la mia, nostra o vostra solo. E la si leggerà: si farà una cultura della luce!
Quando l'ombra distende le sue ciglia due palpebre invisibili s'incontrano, il sole è chiuso in sonni senza sogni, l'aria ha lo sguardo cieco dell'assenza.
E la notte soffriva nel mio corpo ché chiusa era la bocca del suo petto: era l'avere un sonno senza sogni non era la bugia smascherata da lampioni, fanali, uccelli, grida, era la notte inilluminabile, quella in cui il sangue correva a pestare come se fosse un labbro la parola del sorriso lunare dello scheletro. Era la notte estrema radicale il compimento della metanotte.
Prendi il tuo cuore e posalo al tuo palmo, strazio del non avergli dato un corpo permanente nell'immortale vita, rendilo dolce dono sacrificio, il sangue necessario della luce d'un biondo che va ormai oltre il candore raggiunga, nutra, abbeveri ogni essere che nello sguardo in cui la vita è anima rimanga e si rafforzi alle sue labbra.
Sono stanco di stare in questo buio. Ma fa che con le dita delle palpebre, e col tocco gentile dello sguardo (al suo risveglio, riprovando il tatto), io spezzi ancora il pane della luce e lo divida con i miei fratelli.
Il cielo spalancava la ferita, il suo cuore restava definito, ma i rivoli dei raggi zampillavano soffusamente ovunque. Mi macchiava l'anima dello sguardo liberatasi dal corpo delle palpebre, al momento di quella morte ch'era il mio risveglio, dopo la lunga vita del suo sonno. Mi sembrava chiamare con il grido della materia ch'era senza voce a che li richiudessi e la zittissi e ritrovasse in me la buia crosta che invocava – credette di morire.