Scritta da: Andrea De Candia
in Poesie (Poesie d'Autore)
La mia morte più breve
fu la sua gravidanza.
Sepolto sotto il grembo
d'una terra materna,
soltanto nove mesi.
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La mia morte più breve
fu la sua gravidanza.
Sepolto sotto il grembo
d'una terra materna,
soltanto nove mesi.
"Solo le luci nere sono anima,
un'interiorità che è dentro un corpo!"
Disse una voce che era il mio silenzio.
E sempre col silenzio le risposi
che c'è la Notte: "è anch'essa luce nera,
però, ecco, è esterna." E con lo sguardo
poco rassicurante come a dirmi
che dovevo tacere, così feci,
ché non avevo capito un bel nulla:
"anche la Notte è stare dentro un corpo,
che è sconosciuto, ma è come un amante
che dorme e sa che l'altro veglia altrove,
dove?" Laddove c'è la luce bionda.
I
Nuotare sotto la sua superficie
con l’onde delle nuvole che vanno,
- da sempre spuma - verso chissà dove,
verso nessuna riva, verso Assenza,
un non voler oltrepassare ciò
che si dice vietato, un non volere
dar adito a curiosità. Chi osa
- un’eccezione in una moltitudine -
trova la morte presso il Pescatore
ch’ha gettato le sue canne di luce
in ogni lago d’aria sottostante.
II
Il balzo un po’ più alto. Solamente
questo distingue tutti noi da voi,
pesci resi degli uomini al visibile
manifestarsi, umani resi pesci
dal nuotare al disotto di un oceano.
Il divieto è lo stesso: non andare
al di sopra di me: lo dice il Cielo,
dicono, è come se dicesse Dio.
III
La morte è il solo rogo a cui si tende,
la morte, dico morte, ma dovrei
dire suicidio, uscire dalle acque
d’un cielo sotterraneo, un incontrare
a viso aperto, l’Inferno di luce
che dia il Paradiso della grazia
al pesce eletto che va via dal mondo.
IV
Questo è l’Inferno azzurro in cui ho vissuto,
la luce v’arrivava come un occhio,
lo sguardo che sapeva penetrare
era debole, presto si spegneva,
i raggi erano ciglia limitate,
l’azzurro in una corsa verticale
non accennava a smettere di essere
sempre più un buio, andando negli abissi,
come una bocca che ci divorava
trascinandoci giù. Ma venne il giorno
in cui capii di essere un eletto
dalla morte che feci e che mi scelse
il Dio che mi limito a chiamare
Destino. Fu un Satana di Luce
il pescatore che mi provocò
con le sue esche, mi spinse ad uscire,
catturato da una delle sue canne,
fu un Inferno celeste che io volli
raggiungere, tenere finalmente
nel mio presente, vivo per un po’.
Ma fu la Morte, questa morte fu
un’eccezione che mi rese eletto.
V
Nel giorno era il Nostro Paradiso
il buio ch’ormai aveva abbandonato
l’azzurro della superficie bionda.
Bionda come la luce che emanava
nei suoi riflessi, un Satana dell’alto,
la rendeva un calore soffocante:
un contrappasso che era un’asfissia.
VI
Vidi un compagno andare,
voler osare i limiti, sfidare
i divieti concreti
ch’erano superficie
dove finiva l’azzurra sostanza
che ci rendeva vivi. Inconsapevoli
di essere degli angeli, fu quello
l’unico pesce conscio e stufo d’esserlo
e che scelse l’Inferno dell’esterno,
come l’Ulisse le colonne d’Ercole,
senza più ritornare. Vide luce
riflettersi, ingannarlo. Non sapeva,
non poteva saperlo in quel momento,
mentre il divino Pescatore in alto
era felice d’aver catturato
la sua ultima preda: fu una morte
l’ennesima a essere eccezione!
Come Cristo agli inizi
d'una Resurrezione inconsapevole
quel finalmente tendere
all'abbandono dello star supino
sul letto oscuro della propria bara
ch'al giorno ingiovanito si fa bianco
grazie alla luce che si compromette
- Lei, scesa da un possente trono, bionda! -
è la lacrima uscita a sollevarsi
sul viso del mio mondo sconosciuto.
Sarò ancora neonato nella notte,
ma le mie labbra saranno più in alto,
la vera sete solo nello sguardo,
quando berrò il latte della luce
la luna sarà fatta ultimo seno.
I
Io falegname d’acqua, le mie lacrime
sono le croci che vorrei piantare
al Golgota dei sogni, ché finisca
questo Calvario, inutile vagare
col passo dello sguardo che non poggia
a nessun suolo terreo - e vi permanga! -,
ma tocca appena solo l’altra palpebra,
come la terra quando cadde Cristo
sentì la trafittura delle spine
di ciglia penetranti farsi estranee…
Io vinco ché rimane un’utopia!
II
No, non avere ciglia, avere spine,
sentirle solo quando nel contatto
s’incontrano le palpebre, i Romani
che poggiano sull’altro capo (Cristo!)
la corona, e vi sgocciola del sangue,
ma rimane martirio, anche se l’anima
vuole apparire pura con le lacrime
che porta nel suo tempo a suoli d’aria!
Questo sorriso atroce senza labbra,
queste affilate fauci, denti a sciabola
dei quali non s'avverte distinzione,
questo sorriso con un solo dente
ch'ha poco del sorriso, anzi nulla.
È un invito a colpire casualmente,
la palpebra abbassata della notte
e tutte le sue ciglia a ogni passo,
perché si svegli e gridi nel silenzio
l'occhio solare resosi ormai nudo.
L'ultimo fianco d'osso sopravvisse
al buio della carne che era cenere,
a questa sparizione che volgeva
inesorabilmente alla sua fine.
E aveva l'aspetto d'una lama
e mi invitava a prenderla con mano
tremante nello sguardo, perché fosse
fatta vendetta. Ma il respiro buio,
il bianco della notte era tutt'anima,
e questo nero che era dominante
era solo ingannevole parvenza:
dovunque avessi scelto di colpire,
o perlomeno di iniziare a farlo,
sapevo già che il sangue non sarebbe
mai fuoriuscito in tutti quegli istanti.
Il raggio fu una spina
inviata da Dio
sul corpo d'un celeste
santo ch'al centro altissimo del capo
aveva già un'aureola da vivo.
E le ferite fatte sanguinare,
le garze delle nubi allontanate,
un riversar l'amore al proprio esterno
nel modo più concreto. Il declinante
sole notturno fu il suo risalire
alla causa del suo dolore fisico
e strapparlo dal suo corpo di luce.
E la notte fu viverlo in segreto
con l'urlo della nuca reclinato
fin quasi a esser prono sul suo mare,
un baciare la crosta della notte
in ogni punto dove era ferita.
Non v'era luce ch'io più tollerassi
nella carne del buio che era cenere,
un cuore d'osso al centro era già spento,
e un'ostia offerta ai cani della chiesa
che costruivo passo dopo passo
in camminate insonni per la strada.
Era una nuca, un volto, forse un cranio
che era ormai reso calvo, i suoi capelli,
il ricordo del sogno da afferrare
quando nel mare oscuro d'ogni sonno
il corpo era la superficie mossa,
era il tuorlo bevuto dalle labbra
d'un bicchiere marino fino in fondo,
quell'illusione di recuperarlo,
vedere un guscio che non ha più luce,
un albume indurito nel suo bianco
come una pietra che non sa più sciogliersi
in un pianto commosso nell'andare...
Erano i turbamenti al mio vedere
la Luna come orfana del Sole,
come vedova e priva del fratello,
ma anche al veder che voleva afferrarlo
senza l'approvazione del mio (d)io
dall'Inferno ove era precipitato,
come a dire che un altro Orfeo non può
esistere prima del suo secondo
ed esistere dopo quel suo primo.