Sognai una luce lacrimarmi in cielo, un cuore, un sangue, un corpo di dolore oltrepassare costole di nubi e nel soldato del mio essere, l'occhio nel palmo d'una palpebra impugnare la lancia d'uno sguardo per trafiggerlo invano. Vidi la serenità, la giovinezza eterna senza rughe, nubi di spume estranee che tendevano al bagnasciuga del loro aldilà, ossa esprimenti gioia disperata perché si rivelava irraggiungibile la cenere per tutte. Vidi un campo bearsi d'esser isola di luce, d'avere spighe discendenti a noi, affondare nelle sue agitazioni, sentirsi unica terra, unica carne. Il cielo continuava i suoi percorsi, il cielo era un apostolo fedele, come il riscatto di un giuda riammesso alla sua gloria sublime, redento.
Ora dispiega la sua immensità corre come su praterie lo sguardo e trova la ragione delle ali, cavalca i dorsi di cavalli bianchi, spume dirette a una fine irraggiunta, come onde che ritendono alla morte sulla riva di un'assente aldilà. E nella sua pupilla bicolore che cambia il tempo, appare la visione in basso del suo essere formica, la testa è tutto il dorso del suo corpo e trascina una briciola di vita alla tana di una morte comune. Mi sono alzato e deve ricadere quella luce di orgoglio sul mio sguardo come zampillo di fontana torna alla sua bassa origine, finendo. E indietro e dentro torna alle sue tenebre, il nero è bara di un defunto sogno, le palpebre si chinano a ricevere il re, di cui soltanto la corona è una parte visibile del corpo. È cuore e volto, è sangue che fiotta, che ha infranto le barriere della pelle prima del primo istante che ricordi, è corona di spine sul suo capo, è l'urlo materiale del silenzio, è lo spezzare il pane da cui esce la notte, il tondo scheletro dell'ostia, è l'arrivare su un sepolcro d'acqua deposto dalle sue stesse ferite...
Posso vedere il biondo della pelle, la spiga sacra d'un corpo innalzato ad aguzzarsi e divenire punta che tenta di trafiggere la cupola che come l'acqua innalza per proteggersi, inconscia che lassù non le riguarda l'onda serena tranne quando spuma in una nube dannata in eterno a farsi trascinare anche da scheletro verso l'assenza che tange di riva, verso persino quella tomba nuda che vuole almeno sia sabbia di luce, sembra amore votato a consacrarsi alle divinità celesti e verdi, agli sfondi lontani dalla carne, sembra affermare la sua castità, amando sé ed amando l'invisibile. Ma l'amore è iniziare ad oscurarsi attratti dalle labbra come cuori e cuspidi che portano a vedere la morte nella sua nera visione, è perdersi nell'altro ed affondarvi, dimenticarsi e approfondire l'altro, affinché l'altro sé stesso dimentichi, è la morte che prende padronanza, è il suo trionfo e noi i suoi prigionieri.
Come una litania su santa Ombra, la più sacra e profana nel contempo!
Ombra fedele come una custodia, cane segugio di quella mia musica che sono i passi scritti sui leggii dei marciapiedi. Ombra, formica china trascini la mollica del mio corpo al nulla della meta più distante. Ombra, neonata, la mia carne un latte e le piante dei piedi, infimi seni cui succhi quel guadagno ch'è la vita. Ombra, carezza lieve del riflesso biondo, solare, ombra, più crudele masso attaccato a sprofondanti colli, giù verso il fondo – ché s'annega insieme – del mare caldo della passeggiata, eco di suola senza eco di scarpa e suo privilegiato farne a meno! Cadavere che porto inseppellito, onnipresente bara che la strada porta sulle sue spalle nel funebre corteo ch'è solitudine! Ombra vigliacca notte che ha implorato china fin sotto i piedi ad ogni passo, aspettando che alzassi le mie scarpe per rifugiarsi dalle paranoie del freddo, della pioggia, del suo essere, sentirsi nuda, tranne sotto il tetto provvisorio che io potevo offrirle! Chè sembri allontanarmi dalla luce anche se non sprofondo nel solo vero inferno del sottosuolo! Chè, più di mia madre, mi ami, ed è un amore possessivo, ma mi ami, m'ami, non mi uccideresti lo faresti a te stessa e non vorresti! Ombra, che ti riscopro cane fedele a sera, quando scelgo di cadere sul letto del mio sonno, entrato il corpo delle mie pupille sotto quelle lenzuola delle palpebre! Ombra, ché sembri non dormire mai! Ombra, me senza sensi! Ombra la senza voce, senza sguardo, la senza mano e piedi, senza naso, Morte che in vita vive solo inerzia! O forse Ombra caduta in me, che chiedi l'approfondimento e ti spalanchi in più buio colore, emergi, usi il corpo come bara per vivere sepolta, parassita! Ombra, custodia di un non mai suonato strumento della luce, unica nota, fama che si bisbiglia immeritata del me compositore che non sono, un non talento che infine è pur dono, composizione stanca trascinata fin dagli inizi, già verso la fine, e non coraggio dell'incompiutezza, ché ci pensa la Morte per finirla. Ombra, bara da cui fuoriuscirà vivendo solo un giorno quella data. Notte, ti penso, folle, quel totale di tutte le ombre divenute eterne di quelli morti che sono vissuti!
Soltanto echi di pietra dei miei occhi, palpebre condannate a cecità, ventre tattile mima affusolandosi le doglie di quel parto misterioso,
O piangere le lettere di lacrime, usando il rigo come fazzoletto, andare a capo è aversele asciugate – illuso solamente, questo sono! – e ancora piango, utero, la mano, grida il suo movimento cuccioli di parole, madre prolificissima si mostra tutto l'aborto spontaneo del sangue che diviene infine nero, ché troppo a lungo mi è rimasto dentro!
Avrai imparato che la gravidanza era già vita e il ventre era il suo mondo, dato alla luce solo della madre, e il parto un lutto e un mettere ad un altro mondo, fuori dal proprio, il proprio figlio. Così ogni creatura, a sua insaputa, nascerà sempre orfana. E la distanza, pur ravvicinata, tra madre e figlio, mentre lo carezza la prima volta, è già il suo pentimento per averlo spedito all'aldilà. E segno ineluttabile del Fato lo stacco del cordone ombelicale, come il filo che spezza con le forbici, delle tre Parche, Atropo.
Se penso ai fogli come bare bianche, cosa son io che ho scritto l'impossibile? Fogli strappati senza ripotere farli tornare al prima, alla chiusura d'un libro o d'un quaderno. Oh, gli scritti degli altri quando aprivo e sfogliavo nella lettura, l'una dopo l'altra sembrava ritornassero alla vita. Quale consolazione posso darmi? Sol essere il lettore di me stesso? Parole scritte per non esser dette, rimaste a lungo chiuse nella gabbia alata della mente, sopravvissute come quell'uccello che non si lascia andare, liberandolo, a cieli d'aria, d'aria senza fine, che non trovano pagina nell'altro, nella risposta, nel suo ascoltarle, nel ricordarle, nel farne tesoro. Sembra un avervi uccise, ma era come fosse già morte prima. Dal grembo del mio tutto – ora son madre! – vedo le dita diventarmi occhi e palpebre abbassate dalla nascita, piangervi come lacrime di sangue delle vostre pupille! Chè nessuno è più solo nel lutto di chi scrive: ho pianto con le dita dei miei occhi il vostro corpo, allora, l'ho sepolto, ero la folla della solitudine, il disumano che lasciava voi giacere con la schiena sulla neve, nuda terra d'inverni ripetuti! Nel rimanere c'era il vostro grazie: "morte, c'hai piante, c'hai dato la vita!" E parlavo, parlavo con la voce, sperando di rispondervi, di dirvi: "Di nulla, io sono madre." Ma per voi ero come fossi muto!
Eppure, penna alata, questo corpo pecca, cadendo a terra, e nel silenzio il tonfo s'ode clamorosamente. Sul foglio d'una strada della terra la mano ch'è discesa nel mio piede col moto di scrittura ch'è il mio passo lascia s'imprima l'inchiostro dell'ombra. L'occhio inveduto, attento, in quell'istante avrà letto furtivo il contenuto. Eppur ti illuderà con quella gomma del successivo andare avanti ancora d'avere cancellatolo per sempre.
Prono dalla vergogna della colpa corro coi lunghi abiti di onde, col viso che riversa dai suoi occhi ciechi di tante lacrime al suo suolo tutt'un dolore vitreo, musicale, all'alba, anche in estate si spalancano alla riva le assenze dei tuoi piedi da bagnare di tutto il mio me stesso, un carillon in forma d'una rosa suona la sua visione più concreta nel pentagramma ch'ancora risente del suo essersi fatto denudare dall'iniziali note delle nubi e il Sole, il Sole pur nel rimanere fermo in più generosa lontananza m'ha già fatto espiare e ora m'assolve: mi cinge dell'aureola d'un riflesso.
Voli solo con l'ali dei tuoi raggi, che sfiorano i terreni delle palpebre e l'acque degli sguardi ancora aperti, eppure Tu, col tuo viso d'uccello, Luce, stai ferma, immobile.