Il cadavere del lutto può risvegliarsi altro da sé stesso dove la morte è illuminata vita di altri sopravvissuti al dolore sul corpo in ogni punto fu un piegarsi di Madre precedente disperduta negli echi delle figlie, mai brillò così tanto il colore della luce, il defunto si fece fazzoletto a cui affidare lacrime di stelle.
Nella casa celeste sono ferma, pallida come il cranio che già ho, e ho perduto la pelle della luce, e abito e vesto il lutto nello spazio, le pareti non hanno più confini, il dolore s'è fatto eternità. Mi illumino la strada con preghiere, lacrime che a frammenti ti rievocano, ceri che innalzano la loro fiamma, occhi vivi di luce che si mostrano nella lunghezza del momento buio. E il riflesso è il pensiero che mi anima, il poterti raggiungere alla tomba del mare in cui sei stato seppellito, e gettare quel fiore ch'è il mio corpo.
Fotografie dell'aldilà del Tempo: il volto ch'è già cranio della Luna, unico foglio ad essere lasciato in bianco dall'inchiostro di quel lutto, ostia d'eucarestia che resta al culmine, sollevata da una mano invisibile di sacerdote. Sipario calato sulla vista del pubblico vivente, che torna nella casa del suo animo a visitare in sonno le memorie dei sogni. Pugno al termine del mondo che si distende in palmo ed è ormai pronto a lasciare danzare discendendo nella caduta finale del suolo il corpo delle ceneri stellari, nell'ultima coreografia di luce.
Lutto di luce in lacrime di stelle, sulla pupilla spalancata, Notte, abisso che al contrario è un'ascensione, radiografia dell'anima distrutta, staticità che si è moltiplicata in echi di materia sullo spazio, risuona la sua nostalgia sull'acqua, ed essa che diventa fazzoletto, che non le asciuga, che le fa restare solo prima del tempo dell'addio, della resurrezione dell'infanzia, all'alba fenicotteri migranti sono già all'altra metà della Terra.
Da qual peccato di pelle di luce provieni, volto di suora notturna, Luna d'ossa, che all'aldilà del Tempo sul cimitero della terra getti gli echi dei tuoi riflessi, il tuo futuro di lacrime, di casti pentimenti, e sempre nel cappuccio del convento t'affacci alla finestra del mio sguardo che sorveglia nel chiostro delle palpebre?
La colpa dell'insonne è quel suo aggiungere con l'ombra ancora notte alla già notte. E la sua tracotanza imperdonabile consiste nell'issarla esonerandola dalla "supinità" di ogni cadavere, renderla a tratti un idolo innalzato, per il culto del vento in processione, l'affollamento della solitudine cui concorrono gli attimi ed i passi, partendo e ritornando nella chiesa della sua casa ormai non profanabile perché da tempo stata profanata!
Il cielo, come fosse la sua morte, s'allontana la palpebra di luce dal sonno oscuro sul suo letto azzurro, guardando giù, sognando l'aldilà, vede soltanto quel campo di grano come un sepolcro, cui adagiare esanime la salma di uno dei molti riflessi.
La pietra della luce andata in pezzi fin dallo schianto che produsse il buio sul pavimento marino dormì quell'ultimo ricordo della vita ch'era in veglia ed immobile danzò il corpo delle ceneri stellari, i riflessi erano punte che sfioravano gli abissi che chiamavano le piante, e sul volto del lutto, vestì il sonno, e un arido deserto della morte divenne guancia ad accogliere lacrime.
Folla di solitudini le stelle! Mentre lo sguardo di quest'universo è buio come il sonno che mi faccio per guardarmi cadavere nell'animo rivelano pupille che risvegliano un colore, che lacrima, di luce!
S'aprì lo sguardo ampio della Luna, posò le ciglia bianche dei riflessi dove vide nel sogno prima ancora che fosse nata, apparsa sul mio sguardo, la sepoltura suicida del Sole, nella tomba del lago, in una terra che sussurrò, cullandolo, preghiere d'onde, neonato a un aldilà d'abisso.