Notte, sciacquio di remi nuvolosi, notte, galleggiamento delle stelle, un cane il suo lunghissimo silenzio guaì, si sguinzagliò dal primo raggio che lo trattenne nell'ultimo giorno morse e strappò la carne della luce, sulla strada di sguardi sguainanti spade di insonnie, spighe sulle palpebre, carezzate dal sole, il sole nero - l'osso lasciato sanguinare in bianco, silenzio dei colori e di scrittura, muso e coda che sono, insanguinati, l'alba e il tramonto, il suo pelo del tempo, il ventre di città, in cui ogni casa è una mammella a cui s'aggrappa l'uomo che succhia tutto il latte del suo sonno in sé, mentre è succhiato via il suo sogno, nutriente invisibilmente oppresso.
Addio irrigidimenti perdenti fosse anche adesso solo nella testa, io prenderò gli istanti come rupi, gli spazi rose ipercolme di spine, c’è la ferita che chiama a sé l’arma perché vuole gridare il suo risveglio, anche di più, lo slancio che contempla persino quel contrario che sarà ben presto amalgamato, fosse al costo d’una virale contaminazione.
La veglia strappa il velo di Maya mai come allora palpebre ferite il sangue oscuro ci si para avanti come se fosse selva inestricabile è un accatastamento di liane, scimmie che imploran d'essere supine, malati di ignoto puntano il dito sulla pillola della Luna, la vorrebbero trascorsa lungo i fiumi squarciati di rivelata esistenza e piattezza aderente al loro letto, al suolo su cui striscia, serpe, l'ombra, al fardello che lievemente pesa, al bozzolo che libera la Morte, all'istante farfalla che regala voli esalati d'ultimi respiri, all'amante gemello che sa infrangere il già non specchio dell'aria, affacciandovisi col suo unico occhio e le sue ciglia, un accenno di un volto, tutt'un bacio.
Non meritavo nemmeno la cenere – sembrava dirmi la Notte – il carbone del mio castigo, l’insonnia infrangente muri di inconsistenza d’aria – dai luce col tuo passaggio a quest’asfalto – se griderai si innalzerà la fiamma di una richiesta disperata al nulla – ché il cielo, tetto buio ti richiude, smascherato l’inganno del suo azzurro.
Ricordati del bacio che mi infranse solo su un altro corpo, deludendomi, fu quella la mia fine meritevole – meglio restare vigili da statue ritti di fronte all'incombente morte – falchi sulla vetta della montagna – tuffarvisi in eroico sacrificio. Quando ci chiama il cielo, è perché ha sete l'abisso, il suo bicchiere che si innalza, che fu a lungo posato, immemorabile.
Trafugano, domandano, rimangono indietro, cadono lenzuola, vesti troppo sottili di vento, promesse di ritrovare dentro il freddo il caldo, eppure so che nella notte c'è la vastità di un'unica pupilla, sono smarrito in una passeggiata lontano dall'orizzontalità, volterò faccia a questi occhi, dove spira l'incendio nero in cui arderanno i rosei legni delle inermi palpebre.
Danze di smaterializzazioni distinguere nei venti più presenze trapassate solo per chi è nel sonno, si risvegliano senza avere carne, smuovono lenzuola interiori, cercano tra chi si offre in sacrificio, ostia senza una bocca di destinazione, nella navata della strada il loro più caro che non hanno ancora scelto, eppur si muove tra soli carboni quell'incendio indomabile del corpo, la legna del suo letto a cui esso aspira.
Tutto è ferita, anche il mio passaggio: la luce accende nostalgie lontane le finestre, fantasmi imbalsamati, la porta cede alla penetrazione ci si masturba dentro ad un segreto, il cielo azzurro finge la salvezza, il cielo nero svela il lutto assente, le stelle, pianto di una moltitudine attenta a non cadere sulla salma di un sogno prima che si decomponga, il biondo affiora e respirando soffoca sepolto nella pelle di un'altra alba e prima di lasciare un uniforme capisce quale che sia la sua sorte.
Sento che chiama a che io testimoni. Ma il tribunale è vuoto indietreggiantemi davanti, come un dito che lo accusa. Forse si illude di vedere un sogno. Dal carbone di una ombra che si è arresa sorge la fiamma della mia persona che si consuma andando alla ricerca di un qualcuno nel vento che spalanca senza bussare ogni volta la porta e la casa è una casa che non c'è.
Questa tristezza che soffonde tutto, il Sole, cuore a sé stante, era vita caduta, persa, morta, seppellita, il cielo pianto si trasforma in lutto, il dire non sei solo, delle stelle, il loro dire c'è ancora la luce, quando hai chiuso le palpebre ritorni all'abisso di te, amaca oscura, a cullare neonata la pupilla, e veggente le sveli il suo futuro, la sostanza di cui sarà il suo letto, nel suo essere distesa ciò che la circonderà ineluttabile, mentre ora da Madre ti sorveglia e si ferma alle soglie dove sa che comincia il mistero che ti chiude il viaggio, il viaggio fermo del tuo sonno.