Il tuo sangue riposa, pur fluendo, ma dì, dove è la via, con persistenza domandi al vento, in sonno di silenzio, l'universo è come fosse bicchiere in balia di una mano che non esita finanche a capovolgerlo e poi a farlo tornare a quella che è la dirittura - e lacrimano fiammeggianti stelle, e fiammeggiano lacrime di sogni, la sorgente di inchiostro è sottoterra, foglio di un sacrificio seppellito è l'altare remoto del tuo scheletro su cui si imprime tutto ciò che è scritto nell'opera soltanto del destino.
Il nostro è un sacrificio di piacere. Gettiamo a un vento solidificato i nostri versi, ancora animaleschi, preghiamo entrino dentro una parete d'ascolto vigilante, muri e muri senza finestre in cui sia accesa luce ché dica al nostro soffio "benvenuto"! Esiliati all'origine patiamo del nostro non potere esser compresi, ma sappiamo di una celerità, acqua che irrotta spegne il labor flammae, frustrati nella tensione captante resti celesti, un altrove dannato.
Inginocchiàti all'ascolto del tempo noi stessi resi orecchie abbiamo atteso che le dita diventassero labbra, che senza essere ferita il sangue fosse soltanto inchiostro, ineluttabile ebbrezza sulla sobrietà di un fondo d'osso a specchio di un cuore - l'estraniato! - abbiamo fatto un sacrificio al dio della parola sul mai consumato altare della impubblicazione.
Torno lupo alla vetta delle ore a ululare un'insonnia senza fine, spolpo ancora la carogna lunare, briciole o becchi di avvoltoi, le stelle, le lascio sparse a un campo sterminato, universo di ceneri e carboni: sono nel bosco ovunque anche là dove è strada di cemento continuata, sono fremito di paura e angoscia, protezione di un manto di altro sonno: è corruzione adeguarmi alla luce, al vino compiaciuto nel colore, dalla rocciosità porosa scorre emorragia di raggi intamponabile.
Seguo il dirottamento delle ossa, la cui essenza di abito di sposa si fa poi gesso arreso alla lavagna compattissima dell'oscurità. Mi innalzo sulla vetta dei miei sogni, sul teschio abbandonato dal pirata di una veglia andata a razziare altrove gli opposti dal silenzio. Il mare è vento, aborto e addio al liquido amniotico, tutto recede e tende all'astrattezza. Torno alla veste di frutto maturo, non voluto provare da nessuno.
Spezza, fratturazione della luce dell'uovo solo albume della Luna in bocca a un buio atrocemente folle, corre chilometri, lo sanno i passi anche se mancano misurazioni - i tuorli ritrovati nei lampioni - le palpebre solleticate prudono - dentro è il sonno, rituffati nel letto, lungo il russare armonico del sangue e sotto le lenzuola delle ossa il sogno di un cuore ch'oblia il suo battito abiura la sua atavica stancante funzione di orologio - l'invedibile! - fuori è tempesta della solitudine! Grattugiamento, eternità penosa, perimetri che sentono prigioni da cui evadono, riflessi in silenzio, borbottii indistinguibili che scendono fino a un'altra cattura: Il mare... il mare.
L'effimero, perversione d'eterno, gli istanti, bellamente trafitture, il sole fatto a pezzi versa lacrime di immobile memorabilità, il mento ed il ginocchio d'orizzonte fino al piede del fondale - caduti i riflessi, linguaggi imperdonabili! - la madre cielo con occhio di cranio vive da trapassata del dolore intensamente il lutto del suo figlio unico, smembramento di miliardi resi all'ingresso di un vicolo cieco, all'altare del sonno, ed in questo aldilà, immolato quell'agnello del sogno, mentre legati ad un tempo dei divisivi insonni si ribellano a una catasta di troppa stanchezza.
Nubi brandelli, prede in fuga azzurra, l'insegue fermo il sole con le fauci dei suoi raggi tramutati in sbadiglio di gloriosa disfatta sulla cima di un sempre centro, ovunque il risparmiato umano guardi, tranne sulle palpebre dove sente tensione delle frecce, un arciere del sonno a sua insaputa e indietreggiante in abissi e fondali, stretto cerchio la subnavigazione, ch'è premiata dal relitto di un sogno.
Rinizia adesso il tempo della vita. Son pronto a fare della testa un sole, a lasciare che l'ombra strisci, serpe, zerbino sulla soglia della casa stesa del sonno. Sono stato vortice che ha triturato foglie, che ha strappato peli dal manto d'aria, ogni eccedenza. Ho spento sugli sguardi sconosciuti le sigarette delle mie paure. Mi sono denudato per quel mondo che voleva la mia lapidazione. Ho preso un pezzo d'ostia dalla luna, ben felice di essere sacrilego. Nelle stelle ridevano le lacrime. E non ho respirato dall'ebbrezza di bere il lungo sorso della notte: ho ruttato ed ho singhiozzato insonnie.
L'insonnia profumante di cadavere, l'innaffiamento di un sogno alle ossa, la scrittura caduta con l'inchiostro, il tavolo è un altrove che non sente e ignora la dannata vocazione, la finestra è violenza alla mia stanza, il vento è un aiutante inascoltato, la luna è l'occhio fatto cecità, complice che si Ponzio Pilatizza, mi lascia andare in uno spazio d'ore al nulla della mia crocefissione, le palpebre mi inchiodano nel vuoto, le labbra, masso di pietra che sbarra l'uscita al grido che libererebbe.