No, posati! Lo dice la tua culla. Non volare nel cielo della notte, non vedere sorelle nella luce, non piangerti con stelle, che lì restano che aspettano e rifiutano il venirti incontro, discendendo da un non volto. Lievita il tempo col pane del sonno, getta il tuo inchiostro, seppia della palpebra, sulla riva interiore del tuo animo là dove il mare del sangue in tempesta sa fingersi taciuto in ogni istante. Schizzalo, giù, sui fogli delle ossa, dona buio di luce a luci buie, scriviti nel segreto che ti isola: rafforzerai la convinzione d'essere.
Sei quasi indenunciabile, lo sai? Sento le doglie anche dei secondi, vedo ormai il tetto che mi hai costruito, prigioniero del non svegliarsi azzurro, mi doni l'universo e sia la cella e come souvenir ormai imprendibili le stelle, lacrime di ciò che fu(i), e ti fai Madre su me figlio vivo, a piangermi come se fossi morto, e figlio io divento la tua madre orfana delle origini, malata da accudire come avesse l'Alzheimer nel pensiero di questa veglia insonne.
Solo la testa rimarrà insepolta ché chi volesse getti come fiori sguardi di lutto – sono le pupille la perfezione ciclica di morte – se vuoi guarirmi tu rendimi cieco sono questo affacciarsi al suo disopra sono un equilibrismo sugli abissi sono il terreno che riempie la bara che sono con la pelle, che non so di essere ogni volta che la provo.
La decapitazione rammollita, la zattera del cuscino trasporta la memoria carnale della testa su acque inesistenti d'aria chiusa - si riversava luce dalle lampade, tuorli dal guscio spezzato del tempo, sguardi oltre pupille e senza ciglia – ora il mio letto mi divora il resto, mi fa apparire decomposto ossa di un lenzuolo, di un mare senza origini – ora so che si suicida il sogno dalla rupe dell'animo ritorna al suolo di un risveglio, a nuova vita.
Sei la pupilla dell'oscurità quella che per oggetto ha altrove luce, sei un ciglio come sbarre di una cella che nella sfatta prigione del corpo paga per il reato d'ogni sonno. Sei una polvere lacrimante sogni che con scongiuri di riflessi implora si tenga in vita la sua solitudine.
La mano tesa su nessuna guancia, il sentimento di un sangue sereno, l'accensione promessa della luce, una rosa che partorisce un lampo, un amore allo specchio di sé stesso, l'intermediario di una discendenza, la primavera, giù, dentro l'autunno, tutt'un unico dito di violenza, la ferita che non aveva origine si rimargina e veste come abito di lutto la sua crosta ch'è materna.
Ma rapire la luce per condurla agli abissi sotterranei del mare, e trascinarla giù, donando il buio, ed il cielo, suolo cimiteriale, veste di lutto d'unico defunto, torcia di insonnia dell'ossa ch'è ora, orientamento nel Tempo di giù - è vano, il capovolgimento è in atto: è una ribellione sopraggiunta, è un riso di pianto, il firmamento, son ceneri di vaste solitudini, lumini a nessun santo, incluso Dio, riflessi, petali di fiori in polvere, visite in nessun luogo e dappertutto, smarrimenti tra fiamme di carboni, dove ad un punto si riaccende il sogno...
La scrittura d'inchiostro. Il tavolo del cielo si fa libro rovesciato sull'infimo lettore, la sua richiesta d'ascoltarlo è cieca. Ogni insonne si lascia dominare come un cane da un non padrone ancora, dal vento che spargendo quel profumo del suo manifestarsi sa promettere la carne non ancora rivelata. E così insegue la sua oralità. L'ombra di inchiostro scorre via bevuta dal foglio della strada che si ubriaca di un lungo sorso vano, ché non resta, non raggiunge la meta col fermarsi. È tutto un non pensiero. Un equilibrio strano. Un non sapere quello che si vuole.
Il nudo infinito non avere alla stanza del cuore – seppi l'essere! Quando aperta la porta della pelle caddi nel sotterraneo – la mia anima che qualcuno mi disse erroneamente era interiore, non potetti più volere ritornare per smentirlo.
Ci sembra sia il risveglio, ma è soltanto agonia che ci proietta, girandoci e rigirandoci su e giù, a questa morte ch'è la vita. Rinasciamo nel sonno. Doglie sono le palpebre. Ovunque l'utero delle pupille. E l'eiaculazione della luce, il sogno che è riflesso di una stella annegata nel nostro – con l'inganno – essere divenuti oramai acqua. È la tenebra a obliare la sua terra!