Se è vuoto e solitudine, se nelle tane delle proprie camere, non c'è cooperazione, a chi consegna la briciola di pane del mio corpo, la formica dell'ombra? Vaga per il deserto della strada, il suo carbone ritenuto folle, persegue la mia fiamma, ostinatissima come volesse vivere nel per sempre di ogni istante in più, trova soltanto il vento ch'è fraterno, parete che s'aggiorna e che s'abbatte per sé stessa, per lasciarlo passare, e alle sue spalle sembra continuare l'immotivato – in apparenza – pianto.
Qualcuno a cui gettare la propria ombra, succhia la vita del moto dai piedi dai seni delle suole che risentono dello sgonfiamento. L'ombra è la propria morte nella Vita. È il fardello-cadavere da dovere portare fino alla bara del letto finale. È una preghiera su cui il labbro affonda, è la parola che ritarda ancora l'affiorare dal magma dell'inchiostro. È un'inversione all'aldilà del Tempo: io, biondo nella mia pelle, divento formica che trascina la sua briciola.
Versa il tuo caffè d'ossa Luna, tazza che medita i suoi cocci fra l'oblio e l'agguato che sei esistita lo dimostra il manico, banco celeste a cui come clienti si affidano gli insonni per placare sui labbri delle palpebre la sete della luce, dell'ultima ch'è ancora gratis; le monetine delle stelle lasciate lì, di tutti e di nessuno.
Mi assento e vedo che l'anima è ombra. È suola sotto la scarpa del corpo. Formica che trascina la sua briciola alla tana costante del destino. Se il cielo appare nero è perché Dio ammesso che Dio esista, Dio è una madre china lo sguardo come la Pietà e lo veste della sola pupilla ne fa un'eco, uno specchio e se lo guarda nell'assenza di vetri dell'eterno che attutiscano il suo lungo silenzio e non basta che sorga una fenice in un abbozzo di pianto di luce dal cumulo di ceneri stellari perché ora creda che sia la mattina si sono distanziate, nulla più spalancato ed atroce come una folla di solitudini gemelle.
Scendere in strada come nel profondo Inferno, fendere il suo sonno buio, negli Inferi del più infinito altro a farsi incontenibile, la Notte, la visione della sua pelle rosea cadde da altezze vigili di sguardi, così anche la lacrima celeste s'addormentò nel lutto, seppellì nell'ideale il fuoriuscito cranio, le stelle troppe, distanti e minuscole, a far risorgere con un incendio la luce, sotto la forma di un pianto – fu che non si conobbe la sua origine o come la si fosse già saputa fin troppo, null'altro restava in serbo – sopra era una pupilla dilatata come il mistero a urlare nel silenzio di rimanere tale ancora e sempre – altrove dove invece era celeste era il visitatore alla sua tomba a gettarsi col suo corpo di pianto, fiore di generoso sacrificio, come un voler non ritornare indietro in quell'eternità in quell'istante.
Vino di inchiostro imprime fuori essenza, dov'è il suo labbro, notte beve e succhia, eppure, sopra, immagini ingannevoli di uno specchio innalzato, fazzoletti intrisi d'olio di lutto, le stelle cuccioli lacrimanti partoriti dai ventri palpebrali del silenzio, non donna incinta più di nove mesi, nella circonferenza del visibile la mano assente inzuppa il suo biscotto di luna, morsi addentanti le fasi, girotondo dell'eterno ritorno, sguardo attorno alla giostra, bimbo antico, la non più pelle della luce cadde come un vestito molle ormai nell'acqua divorato da predatori d'onde lasciò da solo l'osso della seppia che non sa del suo lascito di inchiostro ché volle sprofondare nell'oblio in assenza di fogli ad attutire, copertura violenta del celeste, dell'alt (r)a acqua, della spiaggia del sole della sabbia dei raggi, ché il suo pugno delle palpebre chiuse ricevette.
L'orologio del cranio che subisce il sangue sonnolento dei secondi lava via le visioni, inosservabili contraddizioni o lisce coerenze, fuori all'abitazione del mio corpo era in visita il vento, la persona oltre anche l'inesistenza, slegato al collo delle piante dei due piedi il guinzaglio dell'ombra, fluttuante, libero di fuggire scivolando come olio o gatto nero illuminato da un fanale perverso, irrompe un soffio, e il vetro d'ogni compattezza è infranto, scorrono via come le biglie gli astri, si versano e ritornano nell'acqua, e i fazzoletti delle nubi negano il loro essere dei paracaduti, bimbe oscillanti su altalene assenti, gioie minute, c'è un circoscrivibile, dopo è di nuovo il tuffo nel dolore, in cui nuotare tra spume e catrame, dopo è il volto di luna, un ospedale.
Un pianeta di cranio che percorre un'orbita di tempo coi secondi come fossero spine conficcate il mio respiro è un fantasma gemello del vento, andando via, s'approfondisce un progressivo addio, un non ritorno, il coraggio dei passi, il loro muoversi nel ghiaccio dell'asfalto, sul colore della durezza per antonomasia.
Fame, fame, ed addentavo pietra! Che tale era il buio maledetto offertosi in travestimento carneo, e (i) troppi occhieggiamenti opportunistici alle porte del visibile erano le stelle, che da prostitute osavano addirittura vendere la luce in cambio del rapporto di uno sguardo! Fumava dalla cucina del sonno sul piano cottura dei piedi - il pasto dell'ombra ormai bruciata dal mio nascere, non l'addentavo con palpebre e ciglia rivolte altrove come le mie lacrime! - Ululante era il passo senza bosco - solo l'impietrimento dell'asfalto - la solitudine mi regalava l'illusione di essere un superstite passaggi d'epoche nelle colonne franate per ricostruirsi altre delle nubi, tovaglioli di troppo che spostati svelavano il mio cuore di desiderio: annegare lassù, bevendo dalla tazza della luna il mio e di tutti futuro di cenere.
Attorno a me la vita ha un'altra vita: è come dalle origini perdute ristabilito l'ordine - è una fuga! - l'olio dell'ombra dal pane del corpo macchia la tavola senza tovaglia di una strada con ospiti istantanei - la casa è troppo mobile, non sosta! - nel camminare si vien masticati! - nel venire ingoiati, ripulita! - e saziata è la bocca dell'assenza in assenza di fosse anche una bocca.