Scritta da: Silvana Stremiz
in Poesie (Poesie d'Autore)
Veggio l'empio seder amplo in suo orgoglio
Qual di monte ombra in campo;
Sublime al par di cedro erge suo soglio;
Ma squarcia l'aer un lampo.
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Veggio l'empio seder amplo in suo orgoglio
Qual di monte ombra in campo;
Sublime al par di cedro erge suo soglio;
Ma squarcia l'aer un lampo.
Vincesti? E invan; regnasti? E invan, superbo,
Chè con destra di possa
Dè giusti il Dio del tuo comando acerbo
La catena ha già scossa.
Invan gloria sognasti, il grido invano
Tu dè secoli udisti,
Ch'or plausi turpi d'uno stuolo insano
A esecrazion van misti.
Coronato d'alloro, o naviganti,
Adorando, e libateli dall'alta
Poppa in onor della palmosa Delo,
Ospizio di Latona, isola cara
Al divino Timbrèo, cara alla madre
Delle Nereidi, e al forte Enosigèo.
Non ferverà per voi l'ira del flutto
Dalle Cicladi chiuso ardue di sassi,
Nè dentro al nembo suo terrà la notte
L'aure seconde, e l'orïente guida
Delle spiate nubi. Udrà le preci
Febo; dai gioghi altissimi di Cinto
Lieti d'ulivi e di vocali lauri,
Al vostro corso le cerulee vie
Spianerà tutte, e agevoli alle antenne
Devote manderà gli Eolii venti.
Però che l'occhio del figliuol di Giove,
Lieto fa ciò che mira: Apollo salva
Chi Delo onora. O stanza dell'errante
Latona! Invan la Dea liti e montagne
Dolorando cercò: fuggìanla i fiumi
E contendeano a correre col vento.
Ove più poserai dal grave fianco
Lo peso tuo? Nè avrà culle e lavacri
Dell'Olimpio la prole, o dolorosa?
Ma la nuotante per l'Icario fonte
Isola, à venti e all'acque obbedïente,
Lei ricettò, sebben in ciel si stesse
La minaccia di Giuno alla vedetta.
Amor di Febo e dè Celesti è Delo.
Immota, veneranda ed immortale,
Ricca fra tutte quante isole siede
E le sorelle a lei fanno corona.
I doni di Lieo nell'auree tazze
D'alloro inghirlandate o naviganti
Adorando; e libateli dall'alta
Poppa in onor della palmosa Delo.
Tale cantando Alceo strinse di grato
Ozio i Tritoni, e i condottieri infidi
Della nave che gìa pel grande Egeo
Italia e le Tirrene acque cercando
Onde posar nella toscana terra
Le Muse che fuggìen l'arabo insulto
E le spade e la fiamma ed il tripudio
Dè nuovi numi, e del novello impero;
Come piacque all'eterna onnipotenza
Di quella calva che non posa mai
Di vendicar sul capo dè Comneni
Le vittorie di Roma, ed i tributi
D'Asia, e di Costantin gli Dei mutati.
Salìa dell'Athos nella somma vetta
Il duca, e quindi il flutto ampio guardava
E l'isole guardava e il continente
Però che si chinava all'orizzonte
Diana liberal di tutta luce.
Gli suonavano intorno il brando e l'arme
Sfolgoranti fra l'ombre, e giù dall'elmo
Gli percuoteva in fulva onda le spalle
La giuba dè corsier presi in battaglia;
Negro cimiero ondeggiavagli, e il negro
Paludamento si portavan l'aure.
Nox . . .
O voluptatis comes et ministra.
Pontanus.
Grazie, arridetemi, riso soltanto
Per noi serpeggi su la mia cetera,
Chè il soavissimo Piacer io canto.
Coll'estro facile carme gentile
Io vò tessendo, carme ch'è simile
A un fior ingenuo del gajo aprile.
Ma il fior ingenuo olezza e muore;
Anche il mio canto sen muoja subito,
Purché per l'aere dispieghi odore.
Già posa il candido ritondo braccio
Sopra le coltri sacrate a Cipria,
Braccio che amabile tessuto ha un laccio.
Cò piedi teneri, o biondi Amori,
No, non calcate quel roseo talamo,
Ma sparpagliatevi fragranti fiori.
Correte rapidi, fanciulli alati,
Correte dove in danza atteggiano
Le Grazie i morbidi piè dilicati.
Udite Venere, la Diva udite
Che vel comanda, di qui fuggitevi,
La venerabile Diva ubbidite.
Restar sul talamo sola desìa,
Della fanciulla che sparge lagrime
Sola vuol vincere la ritrosìa
O dense tenebre, sì desiate!
Giovane, taci, mi grida Cipria,
Ch'omai s'appressano l'ore beate.
Taccio: ma l'anima non può tacere,
Tra sè ella canta gli accenti fervidi,
Chè invasa sentesi sol da piacere.
Qual grato fremito le taciturne
Ombre sussurra, ombre che romponsi
Dal raggio argenteo di membra eburne.
O tu degli esseri vivo fermento,
Sacro Piacere, per te in quest'anime
Spruzza il tuo nettare, del ciel contento.
L'aureo Filosofo dall'urna s'alzi,
Bench'ombra cinga le bianche tempie
Di rose, e un cantico egli t'innalzi.
Per te sol prendono, o bello Dio,
Gli augelli il canto, per te dei Zeffiri
Dolce è all'orecchio il mormorio.
Sol per te il fervido bel garzoncello
A donzelletta vezzosa ingenua
Rivolge cupido l'amante occhiello.
Ah! un dì le rosee vèr me tue piante
Volgi, o Piacere, dè Numi invidia,
Sarò beatissimo da quell'istante.
Ito, aure dolci, a Cloe
Che le delizie or godo
Dei boschi, e i lai lion ode
D'un tenero amatori
La troverete al margo
Forse d'un rio cannoso,
O al rozzo d'odoroso
Arbore in grembo ai fior.
Ite, aure dolci, a Cloe,
E con scherzosi giri
Recate i miei sospiri,
Le rammentate amor.
Una vezzeggi il crine,
L'altra, ogni incenso accolto,
Lambisca il roseo volto,
Soave scenda al cor.
Torna, gentil donzella,
Con flebil suon le dica,
Torna, vezzosa amica,
Al tuo poeta in sen.
Le grazïose aurette
Passano ad una ad una,
E mi prometto ognuna
Chieder pietà al mio ben.
Chinano il capo i gigli,
Scuoton le frondi i rami,
Sembrano dirmi: Ed ami
Con tanta fedeltà?
Se son pietosi i fiori,
So son pietosi i venti,
A' pianti ed a' lamenti,
Non avrà Cloe pietà?
LA PARTENZA.
Partita è Cloe: ah! volino
Le Grazie a lei d'intorno,
E lieta l'accompagnino
Al rustico soggiorno.
Or forse è giunta, e tacita
Trascorre il campo aprico:
Deh! fra soavi palpiti
Rammenti il fido amico.
Ruscel che scorri limpido,
Se ascolti il nome mio,
Più dolcemente mormora,
Dille che l'amo anch'io.
Auretta solitaria,
Se intorno a lei t'aggiri,
Con flebil suono annunziale
I mesti miei sospiri.
Vispi augellini teneri,
Ito dov'ella siede,
E con gorgheggio querulo
Le rammentato fede.
Voi pure amate, e il giubilo
È a voi compagno: io solo
Amo, ma spargo lagrime,
Amo, ma in mezzo al duolo.
Pur mi son dolci i gemiti
Per questo amor pudico;
Ah! fra soavi palpiti
Rammenti il fido amico.
Pomo ch'io colsi, e Cloe,
Da un arbuscel gentile,
Che a quei dei verde aprile
Non può invidiare i fior,
Pomo ch'effigia e mostra
Del volto tuo la rosa,
Ti dona, o Cloe vezzosa,
Con la mia mano il cor.
Mel chiese or or con Clori
La bruna Nice e Irene;
Ma il pomo sol conviene,
Mia bionda amica, a te.
Così fra Tirai e Dafni
Da te ottenessi io fede...
Ma tu ti sdegni; ahi chiede
Un cuor quel che ti diè.
Cogliete, o pastorelli,
Cogliete vaghi fiori,
Chè deggio per gli albori
A Fille un serto far.
Farlo vorrei sol io,
Ma nol permetto l'ora,
Chè in Cielo già l'Aurora
Comincia rosseggiar.
E le dirò che il serto
Tessuto è di mia mano.
Ma che? Così profano
Il labbro mio sarà?
Mai menzogner non fui,
E s'anche il fossi, ah! Fille
Fra mille fiori e mille
i miei distinguerà.
Febbre le vene accende,
O Cloe, del tuo poeta,
E tu frattanto lieta
Passi cantando i dì.
Serbi così l'affetto
Che tu giurasti a lui,
I fidi merti sui
Compensi, o Cloe, così?
Misero giovanetto,
Che ad un'ingrata credi,
Cessa d'amar; non vedi
Ch'ella t'inganna ognor?
Cruda!... Ma dir vorresti:
Nol seppi, il giuro ai Dei:
Taci, spergiura sei,
Chè te lo disse Amor.