Io non invidio ai vati Le lodi e i sacri allori, Nè curo i pregi e gli ori D'un duce o d'un sovran. Saran miei dì beati Se avrò il mio crine cinto Di serto vario-pinto Tessuto di tua man. Saran miei dì beati Se in mezzo a bosco ombroso Il volto tuo vezzoso Godrommi a contemplar. Che bel vederci allora Mille cambiar sembianti, E direi: O cori amanti, Cessate il palpitar!
Scrivo che tu sei bella, Scrivo che tutto è accolto Sul grazïoso volto De' vezzi il roseo stuol. Scrivo che i tuoi dolci occhi Vibran soave foco, Scrivo.... Ma questo è poco Per sì gentil beltà. Chi mai potria le grazie Spiegar di quei colori, Ove si stan gli Amori Come sul loro altar? Dir altro io mai non seppi So non che tanto sei Vezzosa agli occhi miei Ch'altra non sanno amar.
Padre, quand'io per la tua muta tomba Che da sett'anni te per sempre asconde Passo gemendo e il gemer si confonde Al bronzo che di morte il suon rimbomba; Trista memoria allor nel sen, mi piomba E ti veggo del letto fra le sponde Quel calice libar che in cor t'infonde L'ultimo istante che a te intorno romba:
E veggo il scarso lacrimato pane Che dal tuo dipartir a' tuoi Figlioli E alla Vedova tua più non rimane.
E veggo.... ahi lasso! tutto veggo, e tutto Che sei morto mi dice, e che a noi soli Non altro avanza che miseria e lutto.
Perché, o mie luci, l'angoscioso pianto Voi non cessate? Ed al suo cupo affanno Non vi piace lasciar l'anima mesta? Troppo voi siete a quella doglia inganno Che m'è cara soffrir finché sia infranto Lo stame a cui s'attien mia vita infesta, Ben innanzi accadrà che si rivesta Di verde e fiori il prato a mezzo verno Pria che m'incresca di mie vive doglie, E so il destin mi toglie Chi era dè giorni miei pace e governo, Almeno alle sue spoglie Che omai sotterra son cenere frale Si dica sospirando un caldo vale.
L'amico il Padre è morto: or qual mai speme Fia che più resti alle mie brame afflitte Se non che la pietà m'apra la fossa? Profondamente nel mio sen stan scritte Le sante dolci sue parole estreme Onde sovente quest'anima è scossa. Mi traggon elle a visitar quest'ossa Sparger miei voti, e forse al sordo vento; Ah! Che mai dissi? Dall'Eterea sede Ove beato ei siede Non odo il suon del mio triste lamento? E del dolor non vede L'alta ferita? Ah s'egli è ver cessate Lugùbri voci, nè più duol gli date.
Troppo ci mi amava in terra, e troppo forse Se doglia provan dè beati i spirti Ei s'addolora alla mia intensa pena. Dunque spargiam sulla sua tomba mirti E so fosca per lui mia vita scorse Per lui ritorni ancor queta e serena. Ben troncherassi un dì questa catena Grave al mio spirto e goderò di lui Ove luce di Dio su ognun si spande. Ivi fia che domande Dè Frati miei, dè dolci Figli sui, O lieto istante, o grande Istante, a che ver me ratto non voli Onde in braccio al mio Padre io mi consoli?
Perché m'adduci mai, folle desio, A vaneggiar con tai speranze audaci? Credi che al mio buon Padre io m'assomigli? Ivi egli posa in grembo a liete faci Perché con sua saviezza il nembo rio Seppe fuggir e del mondo i perigli. Fuggir forse sapranli i lassi Figli Che nel mondo imboscati a mezza notte Soli e confusi ad erme piagge ed erte Volgon lor pianto incerte Ahi troppo giovanili, e troppo indotte? Ma se fia che si merte Un giusto grazie, ah! Dal Signor dell'Etra Consiglio e Grazie à tuoi pupilli impetra.
Luce chieggiam e chi l'accenda, o Padre, Forse non v'è, forse non v'è chi porga Acqua di chiaro fonte a nostra sete. Se per te dunque un rio puro non sgorga, So non diradi a noi quest'ombre sì adre, Chi fia che ci rischiari, e ci dissete? Egra già fora in grembo a tua quiete Ella che a noi fu Madre, a te fu Sposa; Se non che, lassa! Ancor viver si vuole Per sua tenera prole, Ma del suo lacrimar unqua riposa; Anzi meco si duole Dicendo, o Figlio, a te chiedo conforto Poiché il mio Sposo il mio buon Sposo è morto.
E qual da me conforto? E quale io posso, Padre, se il terzo lustro appena io varco, Prestar sollievo a sua doglia cotanta? Ahi che mal se di quel soave incarco Gravar per anco il mio debile dosso Che il tuo gravò per quasi anni quaranta. Sol suonan pianto e muto orrore ammanta Què dolci lochi ov'io ti vidi un giorno Porger à tuoi Figliuoli e baci e pane, E in fogge care e strane Saltellar essi a tue ginocchia intorno. Ed or, ahi! Che rimane Altro che aver in grembo gli orfanelli E alle lor grida lacrimar con elli?
O cupa notte! O tenebroso istante! O tetra bara, o feretro funebre Ove il padre vid'io la volta estrema! Dal duolo avvolti e da vostre tenebre Venite agli infelici ora d'innante Onde ognun sopra voi sospiri e gema. Qui mia suora innocente e guarda e trema L'istupidita genitrice nostra Che fitti ha gli occhi al suol nè fiato manda; Qui il fanciul che addomanda "Che fu? Che avvenne? " - e mesto indi si prostra. E al padre raccomanda Quinci il ritorno; e un altro che col dito Tergesi i lumi, e fa al suo pianto invito.
E a squallor tanto in mezzo io con la fronte Dalle man sostenuta, i miei sospiri Traggo più ardenti, e li rattengo invano.
Par che d'intorno a me l'ombra s'aggiri E dello smorte luci il caldo fonte Egli m'asciughi in atto dolce umano: Rammento allora qual diemmi la mano Qual me la strinse e qual mi benedisse Coi sguardi ove mancavangli gli accenti! Qual " miei Figli innocenti". Disse, " ti raccomando " e più non disse, Qual di Angeli fulgenti Sull'ale io vidi sgombra del suo volo L'alma rapita a innamorare il Cielo.
Canzon, tu oscura, dolorosa, e sola Ove altri orfani stanno in pianto e in duolo Drizza gemendo il volo Et una amante vedova consola; E siegui un Figlio che alla mesta notte E alla tacita luna Fra lacrime dirotte Narra le tempre di sua rea Fortuna: Ivi per l'aria bruna T'innoltra, e digli in suon d'aura notturna: Solo non piangi del tuo Padre all'urna.
Vigile è il cor sul mio sdegnoso aspetto, E qual tu il pingi, Artefice elegante, Dal dì ch'io vidi nel mio patrio tetto Libertà con incerte orme vagante.
Armi vaneggio, e il docile intelletto Contesi alle febee Vergini sante; Armi, armi grido; e Libertade affretto Più ognor deluso e pertinace amante.
Voce inerme che può? Marte raccende, Vedilo, all'opre e a sacra ira le genti: Siede Italia, e al flagel l'omero tende.
Pur, se nell'onta della Patria assorte Fien mie speranze, e i dì taciti e spenti, Per te il mio volto almen vince la morte.
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Vigile è il cor sul mio sdegnoso aspetto, E qual tu il pingi, Artefice elegante, Dal dì ch'io vidi nel mio patrio tetto Libertà con incerte orme vagante.
Armi vaneggio, e il docile intelletto Contesi alle febee Vergini sante; Armi, armi grido; e Libertade affretto Più ognor deluso e pertinace amante.
Voce inerme che può? Marte raccende, Vedilo, all'opre e a sacra ira le genti: Siede Italia, e al flagel l'omero tende.
Pur, se nell'onta della Patria assorte Fien mie speranze, e i dì taciti e spenti, Per te il mio volto almen vince la morte.
Di giovinezza, Fanciulletta bella, Dal tuo bel petto spira fresco odore, E da quei labbri con gentil favella Sol parla Amore. Vaga è tua mano; ma più vaga allora Che a puro bacio facile s'arrende, E allor ch'ai crini della gaja Flora Cinge le bende. Questi mi detta dolci carmi Apollo, Se mai t'ascolta, Fanciulletta bella, Sparger di canti con la cetra al collo Iblea favella. Canta, deh! canta; scenderan da Paffo Ad ascoltarti con l'orecchie amanti Quei stessi Amor che della mesta Saffo Pianser ai canti. Io son, diceva, bella Dea di Gnido, La giovinetta cui Faon non cura, Per lui sol piango, mentre in ogni lido Ride natura. Madre del riso, dal beante seno, Me ch'al tuo nume sempre altari alzai, Me ch'arsi incenso d'inni e laudi pieno, Or traggo guai. Siegui di Lesbo la soave Musa, Ma scherza, e fuggi lagrimose note, Giacché domarti l'almo Dio ricusa, Perché nol puote. Che val sui fogli con cipiglio tristo Perdere i giorni che tornar non ponno, E violare per un vano acquisto I dritti al sonno? Nata agli Amori, le scïeuti carte Abbandonando, sol la cetra tocca: Chè di bei carmi la difficil arte Ti siede in bocca.