Notte fosca, attaccata ai vetri, ammanta, d'un drappo nero la città, ombre lunghe, s'allungano dai lampioni e le luci, chiarore delle insegne, i cartelli ed i neon, cose velate dal buio, assumono solo contorni vaghi; ed i pensieri, affondano nella tenebra, e si spandono, nella notte cosmica; vie desertiche, qualche rara bici, passa via; ascoltare il silenzio del buio, pensare mille pensieri, in uno, cercare di fermare tutto, per un momento.
Appare J. Kirk, in maglia gialla e mostrine, spalle larghe, torace vigoroso, guarda lo schermo, a volte volteggia sulla schiena, impugna la pistola, prende il tri corder, domanda a Spock, sguardo astuto, e risoluto, e la sua figura, vive ormai nella leggenda d'una serie, che non finisce mai.
Eccoci qua, alla mattina alle tre, cappuccino e caffè; e poi a prendere il bus, e in fretta, a galoppar, al megaufficio, che è un gran supplizio, col linguone fuori, e gran inchini, e spesso scivoloni non tanto fini, e con la lingua pastosa a dire - come è umano lei; e il piccolo ragioniere, abbassa la testa, rassegnato, e sempre pagherà, la gran cattiveria del mondo, tra i potenti, sempre più bravacci e fetenti; e una speranza c'è, la giustizia, in un paese che non c'è.
Ascoltami straniero, o visto pulviscoli lontani, nella via lattea, la terra infuocata di marte, o scorto, navi in fiamme ai confini d’Orione, desiderare, provare, esistere, più vita, padre, più vita creatore, al replicante; tra metropoli, macchine volanti, miasmi e ciminiere, smog e pioggia perenne, con città affollate, come vicoli, con dirigibili pubblicitari, bar-sushi, esseri extra mondo, vie buie e umide; dammi più vita, padre, prima che la colomba della vita, voli via; muori sporco poliziotto, che mi rubi, la poca vita rimasta, prima della fine.
Di altra luce tu rispondi - madre Luna non è tuo il sonno che ritempra dove getti quando esplode vita perché sia verde di erba prato che vita slenta a bruciante dissenno - e vita calpestano tuoi raggi i corpi che solo intendono quel bianco quel sonno quel dissenno - di nuovo, di nuovo si rintana nella notte- ma in verde prato, Luna, persino in bianco suo dissenno Padre potrai gettarti di esistenza.
Sfioriti corpi pesanti - esistenza, sei prato che leva a ustione di luce graffiante: infamia il desiderio che ti lorda e l'ira dentro, blu - cobalto che fende antracite di tenebre.
Perché tu hai vita, ma sepolta giace, mio amore, distorto ramo disseccato dove d'incausto verde urlo stride e vorrebbe gettare, ma non leva a penetrare sconfiggendo il legno e non azzarda si riduce peggio di frammenti di luce che bianco di materia discaccia da ritorno al primo grembo: coltre di neve se bianco implacato possiede, madre che inerme ti ha gettato.
Sia luce oggi, madre Luna, splendidamente nera levati di blu-cobalto, mentre segue l'anima insieme a te ustionando - esigere che l'anima non arda è chiedere al fuoco stesso di grembo di esistenza non più ardere, vivo, soltanto vivo nel silenzio bianco.
Semplicemente hai pensato la luce mio prato lontano da disperdersi, anima che sola tensione hai la clausura- di rado per lievi attimi sfiorata da levarsi di luna livida ustione imprevedibile se desiderio blu - cobalto di avide comete ti sceglie cibo- non trova altro e ha fame.
Il momento del parlare mi tolse fiato, e nella stanza della sera giovane fu un sussulto di coraggio. Nell'istante scrutai i tuoi occhi, le tue mani non ritratte: la mia intenzione ristette, poi si ruppe senza fragore. I sussurri si amalgamarono sui libri, sui muri, contro le finestre, all'ora che chiama l'uomo all'uscire. E uscimmo nel lieve spirare di un vento zingaro.