I Nuotare sotto la sua superficie con l’onde delle nuvole che vanno, - da sempre spuma - verso chissà dove, verso nessuna riva, verso Assenza, un non voler oltrepassare ciò che si dice vietato, un non volere dar adito a curiosità. Chi osa - un’eccezione in una moltitudine - trova la morte presso il Pescatore ch’ha gettato le sue canne di luce in ogni lago d’aria sottostante.
II Il balzo un po’ più alto. Solamente questo distingue tutti noi da voi, pesci resi degli uomini al visibile manifestarsi, umani resi pesci dal nuotare al disotto di un oceano. Il divieto è lo stesso: non andare al di sopra di me: lo dice il Cielo, dicono, è come se dicesse Dio.
III La morte è il solo rogo a cui si tende, la morte, dico morte, ma dovrei dire suicidio, uscire dalle acque d’un cielo sotterraneo, un incontrare a viso aperto, l’Inferno di luce che dia il Paradiso della grazia al pesce eletto che va via dal mondo.
IV Questo è l’Inferno azzurro in cui ho vissuto, la luce v’arrivava come un occhio, lo sguardo che sapeva penetrare era debole, presto si spegneva, i raggi erano ciglia limitate, l’azzurro in una corsa verticale non accennava a smettere di essere sempre più un buio, andando negli abissi, come una bocca che ci divorava trascinandoci giù. Ma venne il giorno in cui capii di essere un eletto dalla morte che feci e che mi scelse il Dio che mi limito a chiamare Destino. Fu un Satana di Luce il pescatore che mi provocò con le sue esche, mi spinse ad uscire, catturato da una delle sue canne, fu un Inferno celeste che io volli raggiungere, tenere finalmente nel mio presente, vivo per un po’. Ma fu la Morte, questa morte fu un’eccezione che mi rese eletto.
V Nel giorno era il Nostro Paradiso il buio ch’ormai aveva abbandonato l’azzurro della superficie bionda. Bionda come la luce che emanava nei suoi riflessi, un Satana dell’alto, la rendeva un calore soffocante: un contrappasso che era un’asfissia.
VI Vidi un compagno andare, voler osare i limiti, sfidare i divieti concreti ch’erano superficie dove finiva l’azzurra sostanza che ci rendeva vivi. Inconsapevoli di essere degli angeli, fu quello l’unico pesce conscio e stufo d’esserlo e che scelse l’Inferno dell’esterno, come l’Ulisse le colonne d’Ercole, senza più ritornare. Vide luce riflettersi, ingannarlo. Non sapeva, non poteva saperlo in quel momento, mentre il divino Pescatore in alto era felice d’aver catturato la sua ultima preda: fu una morte l’ennesima a essere eccezione!
Come Cristo agli inizi d'una Resurrezione inconsapevole quel finalmente tendere all'abbandono dello star supino sul letto oscuro della propria bara ch'al giorno ingiovanito si fa bianco grazie alla luce che si compromette - Lei, scesa da un possente trono, bionda! - è la lacrima uscita a sollevarsi sul viso del mio mondo sconosciuto.
Sarò ancora neonato nella notte, ma le mie labbra saranno più in alto, la vera sete solo nello sguardo, quando berrò il latte della luce la luna sarà fatta ultimo seno.
I Io falegname d’acqua, le mie lacrime sono le croci che vorrei piantare al Golgota dei sogni, ché finisca questo Calvario, inutile vagare col passo dello sguardo che non poggia a nessun suolo terreo - e vi permanga! -, ma tocca appena solo l’altra palpebra, come la terra quando cadde Cristo sentì la trafittura delle spine di ciglia penetranti farsi estranee… Io vinco ché rimane un’utopia!
II No, non avere ciglia, avere spine, sentirle solo quando nel contatto s’incontrano le palpebre, i Romani che poggiano sull’altro capo (Cristo!) la corona, e vi sgocciola del sangue, ma rimane martirio, anche se l’anima vuole apparire pura con le lacrime che porta nel suo tempo a suoli d’aria!
Questo sorriso atroce senza labbra, queste affilate fauci, denti a sciabola dei quali non s'avverte distinzione, questo sorriso con un solo dente ch'ha poco del sorriso, anzi nulla. È un invito a colpire casualmente, la palpebra abbassata della notte e tutte le sue ciglia a ogni passo, perché si svegli e gridi nel silenzio l'occhio solare resosi ormai nudo.
L'ultimo fianco d'osso sopravvisse al buio della carne che era cenere, a questa sparizione che volgeva inesorabilmente alla sua fine. E aveva l'aspetto d'una lama e mi invitava a prenderla con mano tremante nello sguardo, perché fosse fatta vendetta. Ma il respiro buio, il bianco della notte era tutt'anima, e questo nero che era dominante era solo ingannevole parvenza: dovunque avessi scelto di colpire, o perlomeno di iniziare a farlo, sapevo già che il sangue non sarebbe mai fuoriuscito in tutti quegli istanti.
Il raggio fu una spina inviata da Dio sul corpo d'un celeste santo ch'al centro altissimo del capo aveva già un'aureola da vivo. E le ferite fatte sanguinare, le garze delle nubi allontanate, un riversar l'amore al proprio esterno nel modo più concreto. Il declinante sole notturno fu il suo risalire alla causa del suo dolore fisico e strapparlo dal suo corpo di luce. E la notte fu viverlo in segreto con l'urlo della nuca reclinato fin quasi a esser prono sul suo mare, un baciare la crosta della notte in ogni punto dove era ferita.
Non v'era luce ch'io più tollerassi nella carne del buio che era cenere, un cuore d'osso al centro era già spento, e un'ostia offerta ai cani della chiesa che costruivo passo dopo passo in camminate insonni per la strada. Era una nuca, un volto, forse un cranio che era ormai reso calvo, i suoi capelli, il ricordo del sogno da afferrare quando nel mare oscuro d'ogni sonno il corpo era la superficie mossa, era il tuorlo bevuto dalle labbra d'un bicchiere marino fino in fondo, quell'illusione di recuperarlo, vedere un guscio che non ha più luce, un albume indurito nel suo bianco come una pietra che non sa più sciogliersi in un pianto commosso nell'andare... Erano i turbamenti al mio vedere la Luna come orfana del Sole, come vedova e priva del fratello, ma anche al veder che voleva afferrarlo senza l'approvazione del mio (d)io dall'Inferno ove era precipitato, come a dire che un altro Orfeo non può esistere prima del suo secondo ed esistere dopo quel suo primo.
E s'avvicina il buio, il buio azzurro. L'alba è un tramonto, l'alba è un tramonto. Tremo, ripeto, insicuro, balbetto. Devo fuggire presto e andare al sonno, al mio riparo, prossimo il momento, estremamente prossimo, il momento. Un primo raggio di tenebra bionda è notte, è notte, è notte, e no, non sono insonne, insonne, io, non sono insonne, ho il corpo d'un umano, ma mi sento avere come l'anima d'un gufo.
La terra non parlò, non disse nulla, né sussultò, neppure trasalì all'osservare un'altra morte ingiusta. Calpestò dagli albori la sua aureola, il suo tendere in alto, seppellito nelle più buie sue profondità. Vestì il suo volto con i suoi zampilli, il suo morire, il suo esser portato via e sotto di sé, come tornasse al grembo della madre il nascituro, il già nato probabilmente altrove, con l'anima tenuta tra le braccia d'un'altra madre nel suo corpo azzurro, perché succhiasse dai molti capezzoli il latte che gli offrivano le nubi. E la bocca del sole che calava in un silenzio che s'avvicinava al sonno oscuro, sotto le lenzuola, dove dormiva insonne, la sua spuma ai piedi di quel letto si muoveva, scelto l'unico fianco, per l'insonnia a cui era costretto, oltre le labbra i suoi raggi-parola, ormai lontani dal cerchio dell'aureola più pura, sembravano il riflesso d'una voce: "sei santa solamente con il sangue."