Come Cristo agli inizi d'una Resurrezione inconsapevole quel finalmente tendere all'abbandono dello star supino sul letto oscuro della propria bara ch'al giorno ingiovanito si fa bianco grazie alla luce che si compromette - Lei, scesa da un possente trono, bionda! - è la lacrima uscita a sollevarsi sul viso del mio mondo sconosciuto.
Sarò ancora neonato nella notte, ma le mie labbra saranno più in alto, la vera sete solo nello sguardo, quando berrò il latte della luce la luna sarà fatta ultimo seno.
I Io falegname d’acqua, le mie lacrime sono le croci che vorrei piantare al Golgota dei sogni, ché finisca questo Calvario, inutile vagare col passo dello sguardo che non poggia a nessun suolo terreo - e vi permanga! -, ma tocca appena solo l’altra palpebra, come la terra quando cadde Cristo sentì la trafittura delle spine di ciglia penetranti farsi estranee… Io vinco ché rimane un’utopia!
II No, non avere ciglia, avere spine, sentirle solo quando nel contatto s’incontrano le palpebre, i Romani che poggiano sull’altro capo (Cristo!) la corona, e vi sgocciola del sangue, ma rimane martirio, anche se l’anima vuole apparire pura con le lacrime che porta nel suo tempo a suoli d’aria!
Questo sorriso atroce senza labbra, queste affilate fauci, denti a sciabola dei quali non s'avverte distinzione, questo sorriso con un solo dente ch'ha poco del sorriso, anzi nulla. È un invito a colpire casualmente, la palpebra abbassata della notte e tutte le sue ciglia a ogni passo, perché si svegli e gridi nel silenzio l'occhio solare resosi ormai nudo.
L'ultimo fianco d'osso sopravvisse al buio della carne che era cenere, a questa sparizione che volgeva inesorabilmente alla sua fine. E aveva l'aspetto d'una lama e mi invitava a prenderla con mano tremante nello sguardo, perché fosse fatta vendetta. Ma il respiro buio, il bianco della notte era tutt'anima, e questo nero che era dominante era solo ingannevole parvenza: dovunque avessi scelto di colpire, o perlomeno di iniziare a farlo, sapevo già che il sangue non sarebbe mai fuoriuscito in tutti quegli istanti.
Il raggio fu una spina inviata da Dio sul corpo d'un celeste santo ch'al centro altissimo del capo aveva già un'aureola da vivo. E le ferite fatte sanguinare, le garze delle nubi allontanate, un riversar l'amore al proprio esterno nel modo più concreto. Il declinante sole notturno fu il suo risalire alla causa del suo dolore fisico e strapparlo dal suo corpo di luce. E la notte fu viverlo in segreto con l'urlo della nuca reclinato fin quasi a esser prono sul suo mare, un baciare la crosta della notte in ogni punto dove era ferita.
Non v'era luce ch'io più tollerassi nella carne del buio che era cenere, un cuore d'osso al centro era già spento, e un'ostia offerta ai cani della chiesa che costruivo passo dopo passo in camminate insonni per la strada. Era una nuca, un volto, forse un cranio che era ormai reso calvo, i suoi capelli, il ricordo del sogno da afferrare quando nel mare oscuro d'ogni sonno il corpo era la superficie mossa, era il tuorlo bevuto dalle labbra d'un bicchiere marino fino in fondo, quell'illusione di recuperarlo, vedere un guscio che non ha più luce, un albume indurito nel suo bianco come una pietra che non sa più sciogliersi in un pianto commosso nell'andare... Erano i turbamenti al mio vedere la Luna come orfana del Sole, come vedova e priva del fratello, ma anche al veder che voleva afferrarlo senza l'approvazione del mio (d)io dall'Inferno ove era precipitato, come a dire che un altro Orfeo non può esistere prima del suo secondo ed esistere dopo quel suo primo.
E s'avvicina il buio, il buio azzurro. L'alba è un tramonto, l'alba è un tramonto. Tremo, ripeto, insicuro, balbetto. Devo fuggire presto e andare al sonno, al mio riparo, prossimo il momento, estremamente prossimo, il momento. Un primo raggio di tenebra bionda è notte, è notte, è notte, e no, non sono insonne, insonne, io, non sono insonne, ho il corpo d'un umano, ma mi sento avere come l'anima d'un gufo.
La terra non parlò, non disse nulla, né sussultò, neppure trasalì all'osservare un'altra morte ingiusta. Calpestò dagli albori la sua aureola, il suo tendere in alto, seppellito nelle più buie sue profondità. Vestì il suo volto con i suoi zampilli, il suo morire, il suo esser portato via e sotto di sé, come tornasse al grembo della madre il nascituro, il già nato probabilmente altrove, con l'anima tenuta tra le braccia d'un'altra madre nel suo corpo azzurro, perché succhiasse dai molti capezzoli il latte che gli offrivano le nubi. E la bocca del sole che calava in un silenzio che s'avvicinava al sonno oscuro, sotto le lenzuola, dove dormiva insonne, la sua spuma ai piedi di quel letto si muoveva, scelto l'unico fianco, per l'insonnia a cui era costretto, oltre le labbra i suoi raggi-parola, ormai lontani dal cerchio dell'aureola più pura, sembravano il riflesso d'una voce: "sei santa solamente con il sangue."
Sognavi, e nel tuo sogno, tracotanza c'era, un volere esser solo tu, tu tutto l'alto, l'alto disponibile: tu non moristi quando la sua luce decompose la pelle e si nascose persa tra tutte l'ossa delle nubi, non chiudesti la porta della casa, né abbassasti tutte le sue palpebre, le sue finestre aperte ad ogni sguardo, trascelsi un occhio e ti mettesti al centro e d'una di esse tu fosti pupilla: cadde improvvisa pioggia, la sua cenere, pianse una pietra d'acqua le sue lacrime, tutto raggiunse il suolo e vi rimase. Ma, pure non essendovi salita per quel cadere in cui riconoscesti il tuo destino quasi ineluttabile, vedesti fino al punto in cui la fine portò al suo completarsi, un altro inizio: l'ossa recuperarono biancore, s'andarono spostando mano mano verso l'estremità, verso i suoi fianchi fino a finire libere, ma vive, fuori dal corpo che mostrò la luce, la sua pelle celeste. L'invidiasti, il paesaggio di serenità che fu riapparso, e semplice e arcano, non capisti i sorrisi degli umani a quel vedere ritrovato il cielo: tu l'invidiasti: tu fosti colpevole!