E noi ti odiamo, tempo. Perché ci fai invecchiare! Perché ci fai morire! Diamo la colpa a te, nella sua assenza insmentibile qui! Se ti vedessi come fossi un'anima e una vita che ha un corpo nel passare del paesaggio, in prestito ai miei occhi. Se ti vedessi un'infinita veste di cristallina lacrima, le nubi ogni osso separato dal suo altro a cercare la morte su una riva inesistente d'assente aldilà. Oh, l'immortalità, la più grande condanna di martirio! Se vedessi nel sole un pane aperto, un cuore perlustrato dal dolore di dita altre che vi frugan dentro, o la corona di spine che ha già trovato quel Gesù, al cui capo scendere, e la flagellazione nel tramonto, l'arteria della vita che diventa penosa scia di sangue all'orizzonte che non ha forza di frustar sé stessa ormai nemmeno più, allora mio tempo, mio amato tempo, amato figlio tempo, l'uomo paterno misero che sono si svelerebbe a te, ti donerebbe l'immensa croce della sua pietà!
Sognai una luce lacrimarmi in cielo, un cuore, un sangue, un corpo di dolore oltrepassare costole di nubi e nel soldato del mio essere, l'occhio nel palmo d'una palpebra impugnare la lancia d'uno sguardo per trafiggerlo invano. Vidi la serenità, la giovinezza eterna senza rughe, nubi di spume estranee che tendevano al bagnasciuga del loro aldilà, ossa esprimenti gioia disperata perché si rivelava irraggiungibile la cenere per tutte. Vidi un campo bearsi d'esser isola di luce, d'avere spighe discendenti a noi, affondare nelle sue agitazioni, sentirsi unica terra, unica carne. Il cielo continuava i suoi percorsi, il cielo era un apostolo fedele, come il riscatto di un giuda riammesso alla sua gloria sublime, redento.
Ora dispiega la sua immensità corre come su praterie lo sguardo e trova la ragione delle ali, cavalca i dorsi di cavalli bianchi, spume dirette a una fine irraggiunta, come onde che ritendono alla morte sulla riva di un'assente aldilà. E nella sua pupilla bicolore che cambia il tempo, appare la visione in basso del suo essere formica, la testa è tutto il dorso del suo corpo e trascina una briciola di vita alla tana di una morte comune. Mi sono alzato e deve ricadere quella luce di orgoglio sul mio sguardo come zampillo di fontana torna alla sua bassa origine, finendo. E indietro e dentro torna alle sue tenebre, il nero è bara di un defunto sogno, le palpebre si chinano a ricevere il re, di cui soltanto la corona è una parte visibile del corpo. È cuore e volto, è sangue che fiotta, che ha infranto le barriere della pelle prima del primo istante che ricordi, è corona di spine sul suo capo, è l'urlo materiale del silenzio, è lo spezzare il pane da cui esce la notte, il tondo scheletro dell'ostia, è l'arrivare su un sepolcro d'acqua deposto dalle sue stesse ferite...
Posso vedere il biondo della pelle, la spiga sacra d'un corpo innalzato ad aguzzarsi e divenire punta che tenta di trafiggere la cupola che come l'acqua innalza per proteggersi, inconscia che lassù non le riguarda l'onda serena tranne quando spuma in una nube dannata in eterno a farsi trascinare anche da scheletro verso l'assenza che tange di riva, verso persino quella tomba nuda che vuole almeno sia sabbia di luce, sembra amore votato a consacrarsi alle divinità celesti e verdi, agli sfondi lontani dalla carne, sembra affermare la sua castità, amando sé ed amando l'invisibile. Ma l'amore è iniziare ad oscurarsi attratti dalle labbra come cuori e cuspidi che portano a vedere la morte nella sua nera visione, è perdersi nell'altro ed affondarvi, dimenticarsi e approfondire l'altro, affinché l'altro sé stesso dimentichi, è la morte che prende padronanza, è il suo trionfo e noi i suoi prigionieri.
Sottile sei come un cero del tempio, l'occhio hai trafitto da spade d'amore. Io non ti chiedo un sol bacio: in silenzio vorrei deporre sul rogo il mio cuore.
Io non ti chiedo una sola carezza: t'offenderebbe la mia rozza mano. Ma dal cancello ti guardo in purezza rose di porpora cogliere e t'amo.
Sempre ti bruciano i raggi del sole e via t'involi sul vento che fugge. Su te c'è un angelo senza parole: io gusto in cuore il dolor che mi strugge.
Mentre t'intreccio nei riccioli, adagio, dei versi ignoti gli strani diamanti, getto il mio cuore invaghito nel lago meraviglioso degli occhi raggianti.
A me non piace il vano dizionario delle frasi e vocaboli d'amore: "Sei mio". "Son tua". "Io t'amo!". "Tuo per sempre".
A me non piace essere schiavo. Io guardo la donna bella in fondo alle pupille e le dico: "Stanotte. Sai, domani è un altro giorno, nuovo e bello. Vieni. Portami una follia nuova, trionfale. All'alba me ne andrò via per cantare".
L'anima mia è semplice. Nutrita fu dal vento salmastro e dall'aroma resinoso dei pini. Ella è segnata dalle impronte medesime che rigano la pelle segaligna del mio viso, che è bello della squallida bellezza delle fredde marine e delle dune.
Così pensavo lungo la frontiera di Finlandia, la lingua decifrando strana nei verdi occhi dei Finni scialbi. C'era gran pace. Accanto alla banchina un treno pronto accese fuoco e fumo. Pigra la russa guardia doganale riposava su un cumulo di sabbia erto, dove finiva il terrapieno. Là cominciava un'altra terra, e muta una chiesa ortodossa contemplava lo sconosciuto estraneo paese.
Così pensavo. Ed ella sopraggiunse, si fermò sulla china: erano gli occhi rossi di sabbia e sole. Ed i capelli, unti come la resina dei pini, cadevan sulle spalle in flutti azzurri. S'accostò. S'incrociò il suo ferino sguardo col mio sguardo ferino. Rise ad alta voce. E gettò contro a me un ciuffo d'erba e un pugno d'aurea sabbia. Poi con un balzo risalì. Scomparve, galoppando al di là del terrapieno.
La inseguii di lontano. Mi graffiavano le felci il volto. Insanguinai le dita, mi lacerai il vestito. Ma correvo urlando come belva e la chiamavo: e la mia voce era suon di corno. Ma lei, delineando un'orma lieve sulle dune friabili, scomparve fra le trame notturne degli abeti.
Ora io giaccio anelando sulla sabbia. Ma ancora nelle mie rosse pupille ella corre, ella ride: ed i capelli ridono ancora, ridono le gambe, ride al vento la veste nella corsa.
Io giaccio e penso: oggi sarà notte. Domani sarà notte. Rimarrò qui finché non l'agguanti come fiera o col suono di corno della voce non le tagli la fuga. E non dirò: "Mia. Sei mia". Purché lei mi dica: "Son tua! son tua!"
Perdersi Per non sentirsi soli Perdersi sul fondo dei bicchieri Lo so, l'oscurità Ti attrae verso di se Tu guarda la soltanto da lontano Come ammiri un panorama Ma non sporgenti o precipiti Perduti, ma tra le belle cose Perditi Tra fiori, prati e rose Perditi Ma tra mille colori Perditi Ma perditi tra i fiori.