Steso aldilà del sogno della luce, nel suo volto e nel suo cuore di sole: annegare alle origini, ritorno, e indorare la terra dell'essenza, far obliare a sguardi peregrini il mare, il suo celeste, il suo obbediente riflesso di una volontà suprema: spighe, tendenti a inferni di purezza, chinatevi alla simile più prossima, adorate la luce, il suo discendere al paradiso bruno della terra: e l'insieme sia letto perché poggi la stanchissima schiena, quel suo raggio.
Dall'aldilà del prima del suo giorno e nel ventre celeste - si gonfiò! - il feto della luce coi suoi raggi indicò già la sua destinazione, il letto della nascita, le dita dei suoi riflessi puntarono il mare! - seguì in docilità quel che era sorte - tutto è risorgere, ed anche il venire nel mondo, sembra, per la prima volta, è essere fenice partorita da ceneri d'un utero di notte.
Mi rialzerò dal sonno, dall'inganno che mi creai con l'ombra del mio letto per proteggere il corpo della schiena – la crosta oscura della cecità – sarà come fenice la mia palpebra si librerà leggiadra come pianta di ballerina ch'è sulle sue punte, ancora in terra, ma col resto in volo, e poi sarà ferita già sfumata in tenero declino di fontana che spoglia nuda, il centro, dei suoi petali, ritornerà, alle origini, a tacersi – la luce è il suo cerotto, l'ha sepolta ancora viva, non trama vendetta! – luce che cola, gocce del suo sangue di cuore, del suo volto che ora sono tutto l'azzurro è il mio tappeto e il trono e sono anche corona che rimanda in basso, i suoi riflessi, per la pietas nei confronti del povero mortale, ché il palmo del suo sguardo abbia al suo centro l'oro fugace eterno del riflesso, e sia giustizia ché il possesso è un prestito!
Quando eri chino con la tua pupilla, con la nuca poggiavi su ginocchia di vuoto oscuro, in cerca della sua ombra e del suo corpo ché si rivelasse tutt'una luce sola, notte fonda, il fondo era restare in superficie dell'abisso, dal quale risalivi – vedere ciechi vivere la morte! – poi fu la resa una resurrezione: l'alba nel suo colore fu fenice, rialzatasi da ceneri interiori, sangue sfumato che non fu ferita, danzò sul filo d'azzurre purezze, e ritoccai le nuvole col dito di uno sguardo che piano la raggiunse premendo sulla sua scarna magrezza, lo stacco di un cordone ombelicale rimise al mondo la sua creatura, il tempo fu di nuovo fatto madre, il sonno della nascita provò su ossa di cuscini rivoltati invano per profili incontentabili – ché era il centro, il davanti, la sua posa, il sole, il volto neonato di luce, decapitato che ricreò il corpo, il collo, il tronco, gli arti, coi suoi raggi, e, pudico, svelò la sua, di anima, nell'immersione fioca dei riflessi.
Chinavano le nuche tutte quante alla carezza azzurra dell'altissimo fingeva di inarcarsi all'orizzonte per contemplare e poi bere gli abissi tolta allo specchio, dopo, la sua maschera, calato giù il sipario del suo sonno, quella palpebra bionda che era luce, e svelata l'essenza ch'era nera, non più ombra, infinito di pupilla a vedere in sé stesso il sonno veglia ché non s'accenda più luce di un sogno, ché non risorga da notturne ceneri la fenice lunare del suo cranio che non s'acquisti vista nei riflessi di lacrime di luce delle stelle. Voi non sapete, spighe, quanto male provocate al suo palmo che s'abbassa fin su alle punte che pungono, spine, emorragia che nasce nel tramonto, ognuna che risponde alla vicina, ognuna è persa come in una folla, ed è in un mare d'oro ch'è scaduto dal valore della vita alla morte, ognuna è scheletro, lisca di pesce, inseppellita fra le onde di sé, aspetta il vento che gli sia da nuoto, aspetta infine la bocca del sole che in opaco respiro nel discreto svegliarsi del colore dica piano l'infinita parola del silenzio che le arrivi con l'eco del suo raggio mentre in preghiera ha la resurrezione l'inferno è il bruno ed è tutta la terra e la luce che arriva una catabasi.
Notte, pupilla vasta che contieni e raccogli i riflessi di lacrime stellari che non cadono in volto, in guancia, in mento - lontananza nel mare che li attende - con le fauci dell'onde inferocite - si sbriciolaron presto in spuma d'ossa, in docile mollezza, chi di spada ferisce, poi di spada perirà! - sbranò la preda del figlio del sole - fu lutto ovunque, come sulla terra quando Cristo morì. Così la notte. Pietà di Michelangelo che dona il colore dell'animo alle cose che obbediscono senza che subiscano - e il mare è le ginocchia dove culla l'immensa tomba - tutt'un cimitero - dove riposa, dove? Non si sa! Il giorno dopo è l'aldilà per lui è noi morti di qui, illusi vivi, non percepiamo che è resurrezione.
Cielo, madre che ha perso il suo unico figlio che era il cuore estremo della luce. Occhio calato a scrutare gli abissi, non racconta nient'altro che sé stesso quando risorge puntuale all'alba. Ed il nero mistero della morte vince di nuovo, per l'uomo soltanto nel pugno briciole di conoscenza ed una vasta immensità di ignoto. Come fiori di lacrime posati su un cimitero dall'unica tomba, i riflessi di luce delle stelle, lutto vissuto, incarnando l'essenza gioiosa, eco di un ricordo in cocci.
Morte era buio, la sua cecità – inguaribile notte, insonne l'offro la medicina della pelle mia – il vento è labbro che respinge e va indietro, si fa trapassare. Invano. Cura da sé l'essenza. Non c'è occhio all'infuori di luna a illuminare, solo donano visione di luce come fossero piante da nessuno le stelle, il suo dolore manifesto nello spezzettamento e nel riflesso.
Luna non è sorriso, anzi lo è, ma morto. Scheletro di dentiera sulle labbra delle sue buie ceneri. Il miracolo è non avere un occhio, essere cieco, eppure dall'abisso della sua anima riuscire a far emergere i riflessi di lacrime di luce. Stelle sono pianto e sorriso nello stesso tempo. L'occhio aperto che guarda dell'insonne le lascia scivolare su di sé come guancia, sull'acme di pupilla, le custodisce facendo che cadano nello scrigno ch'è il suolo del suo sonno.
Voglio essere sole, centro per qualcun altro, sangue di luce senza avere un corpo, Dio che si fa a immagine e somiglianza dell'uomo, i raggi diventano ciglia, bacio dell'occhio a un altro – scrutamento invisibile di pene – voglio che quando muoio la pupilla dell'amato diventi come notte, madre chinata a contemplare il lutto, il ricordo dell'ombra che si posa sul mare, superficie dell'abisso – voglio che pianga tutte le sue stelle – voglio resurrezione della luce e non altra caduta nella fine, migliaia di milioni di miliardi di lacrime che brillino per me.