Scritta da: Andrea De Candia
in Poesie (Poesie d'Autore)
LUNA-SOLE
La luce è in lutto, in lutto per la luce!
Persona d'ossa insonne che ricorda
nel cimitero di quest'universo
sulla tomba del mare il suo defunto! (...)
Commenta
La luce è in lutto, in lutto per la luce!
Persona d'ossa insonne che ricorda
nel cimitero di quest'universo
sulla tomba del mare il suo defunto! (...)
Steso aldilà del sogno della luce,
nel suo volto e nel suo cuore di sole:
annegare alle origini, ritorno,
e indorare la terra dell'essenza,
far obliare a sguardi peregrini
il mare, il suo celeste, il suo obbediente
riflesso di una volontà suprema:
spighe, tendenti a inferni di purezza,
chinatevi alla simile più prossima,
adorate la luce, il suo discendere
al paradiso bruno della terra:
e l'insieme sia letto perché poggi
la stanchissima schiena, quel suo raggio.
Dall'aldilà del prima del suo giorno
e nel ventre celeste - si gonfiò! -
il feto della luce coi suoi raggi
indicò già la sua destinazione,
il letto della nascita, le dita
dei suoi riflessi puntarono il mare! -
seguì in docilità quel che era sorte -
tutto è risorgere, ed anche il venire
nel mondo, sembra, per la prima volta,
è essere fenice partorita
da ceneri d'un utero di notte.
Mi rialzerò dal sonno, dall'inganno
che mi creai con l'ombra del mio letto
per proteggere il corpo della schiena
– la crosta oscura della cecità –
sarà come fenice la mia palpebra
si librerà leggiadra come pianta
di ballerina ch'è sulle sue punte,
ancora in terra, ma col resto in volo,
e poi sarà ferita già sfumata
in tenero declino di fontana
che spoglia nuda, il centro, dei suoi petali,
ritornerà, alle origini, a tacersi –
la luce è il suo cerotto, l'ha sepolta
ancora viva, non trama vendetta! –
luce che cola, gocce del suo sangue
di cuore, del suo volto che ora sono
tutto l'azzurro è il mio tappeto e il trono
e sono anche corona che rimanda
in basso, i suoi riflessi, per la pietas
nei confronti del povero mortale,
ché il palmo del suo sguardo abbia al suo centro
l'oro fugace eterno del riflesso,
e sia giustizia ché il possesso è un prestito!
Quando eri chino con la tua pupilla,
con la nuca poggiavi su ginocchia
di vuoto oscuro, in cerca della sua ombra
e del suo corpo ché si rivelasse
tutt'una luce sola, notte fonda,
il fondo era restare in superficie
dell'abisso, dal quale risalivi
– vedere ciechi vivere la morte! –
poi fu la resa una resurrezione:
l'alba nel suo colore fu fenice,
rialzatasi da ceneri interiori,
sangue sfumato che non fu ferita,
danzò sul filo d'azzurre purezze,
e ritoccai le nuvole col dito
di uno sguardo che piano la raggiunse
premendo sulla sua scarna magrezza,
lo stacco di un cordone ombelicale
rimise al mondo la sua creatura,
il tempo fu di nuovo fatto madre,
il sonno della nascita provò
su ossa di cuscini rivoltati
invano per profili incontentabili
– ché era il centro, il davanti, la sua posa,
il sole, il volto neonato di luce,
decapitato che ricreò il corpo,
il collo, il tronco, gli arti, coi suoi raggi,
e, pudico, svelò la sua, di anima,
nell'immersione fioca dei riflessi.
Chinavano le nuche tutte quante
alla carezza azzurra dell'altissimo
fingeva di inarcarsi all'orizzonte
per contemplare e poi bere gli abissi
tolta allo specchio, dopo, la sua maschera,
calato giù il sipario del suo sonno,
quella palpebra bionda che era luce,
e svelata l'essenza ch'era nera,
non più ombra, infinito di pupilla
a vedere in sé stesso il sonno veglia
ché non s'accenda più luce di un sogno,
ché non risorga da notturne ceneri
la fenice lunare del suo cranio
che non s'acquisti vista nei riflessi
di lacrime di luce delle stelle.
Voi non sapete, spighe, quanto male
provocate al suo palmo che s'abbassa
fin su alle punte che pungono, spine,
emorragia che nasce nel tramonto,
ognuna che risponde alla vicina,
ognuna è persa come in una folla,
ed è in un mare d'oro ch'è scaduto
dal valore della vita alla morte,
ognuna è scheletro, lisca di pesce,
inseppellita fra le onde di sé,
aspetta il vento che gli sia da nuoto,
aspetta infine la bocca del sole
che in opaco respiro nel discreto
svegliarsi del colore dica piano
l'infinita parola del silenzio
che le arrivi con l'eco del suo raggio
mentre in preghiera ha la resurrezione
l'inferno è il bruno ed è tutta la terra
e la luce che arriva una catabasi.
Notte, pupilla vasta
che contieni e raccogli
i riflessi di lacrime stellari
che non cadono in volto, in guancia, in mento -
lontananza nel mare che li attende -
con le fauci dell'onde inferocite
- si sbriciolaron presto in spuma d'ossa,
in docile mollezza, chi di spada
ferisce, poi di spada perirà! -
sbranò la preda del figlio del sole -
fu lutto ovunque, come sulla terra
quando Cristo morì. Così la notte.
Pietà di Michelangelo che dona
il colore dell'animo alle cose
che obbediscono senza che subiscano -
e il mare è le ginocchia dove culla
l'immensa tomba - tutt'un cimitero -
dove riposa, dove? Non si sa!
Il giorno dopo è l'aldilà per lui
è noi morti di qui, illusi vivi,
non percepiamo che è resurrezione.
Cielo, madre che ha perso
il suo unico figlio che era il cuore
estremo della luce.
Occhio calato a scrutare gli abissi,
non racconta nient'altro che sé stesso
quando risorge puntuale all'alba.
Ed il nero mistero della morte
vince di nuovo, per l'uomo soltanto
nel pugno briciole di conoscenza
ed una vasta immensità di ignoto.
Come fiori di lacrime posati
su un cimitero dall'unica tomba,
i riflessi di luce delle stelle,
lutto vissuto, incarnando l'essenza
gioiosa, eco di un ricordo in cocci.
Morte era buio, la sua cecità –
inguaribile notte, insonne l'offro
la medicina della pelle mia –
il vento è labbro che respinge e va
indietro, si fa trapassare. Invano.
Cura da sé l'essenza. Non c'è occhio
all'infuori di luna a illuminare,
solo donano visione di luce
come fossero piante da nessuno
le stelle, il suo dolore manifesto
nello spezzettamento e nel riflesso.
Luna non è sorriso,
anzi lo è, ma morto.
Scheletro di dentiera sulle labbra
delle sue buie ceneri. Il miracolo
è non avere un occhio, essere cieco,
eppure dall'abisso della sua anima
riuscire a far emergere i riflessi
di lacrime di luce. Stelle sono
pianto e sorriso nello stesso tempo.
L'occhio aperto che guarda dell'insonne
le lascia scivolare su di sé
come guancia, sull'acme di pupilla,
le custodisce facendo che cadano
nello scrigno ch'è il suolo del suo sonno.