Scritta da: Blade of grass
in Poesie (Poesie d'Autore)
Anche se me ne vado
e lascio la casa sguarnita,
tu, susino mio
nel cortile, saprai da te quand'è primavera.
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Anche se me ne vado
e lascio la casa sguarnita,
tu, susino mio
nel cortile, saprai da te quand'è primavera.
Lasciami quel senso di ignoto
nella furia di un tempo
ormai passato.
Lasciami rovistare ogni angolo,
lasciami sbirciare ogni secondo,
lasciami trascinare
perché voglio sentire l'in-successo
intenso come fosse successo
perché non si placa
e non si smorza
e non si perde
quel senso di affanno
di esserci
e non esserci stato.
Timida una foglia
dal ramo si è staccata,
sulla mia spalla lieve si posa
quasi mi accarezzasse
leggera, come un sogno
che non ti appartiene ma ti sfiora.
Novembre si affaccia
grigio di nuvole, gonfio di vento
mi ricorda di Te, bell'uomo,
dei tuoi passi lenti
che calpestano le foglie del viale
del tuo ultimo saluto.
L'autunno, la fine di un anno che avanza
la fine di un sogno o forse un'idea
per iniziare nuovamente a sognare,
per lasciarsi andare
al marrone sbiadito delle foglie
e con loro in alto volare,
toccare il cielo con un dito
e sulla nuda terra riposare.
A novembre l'ultimo abbraccio, l'ultimo bacio
tra le ultime foglie bagnate di pioggia
ed i miei occhi perduti tra le lacrime,
mentre indelebile nella mia anima respiri
scorre l'autunno e si affaccia l'inverno
e...
attendo di Te l'arrivo in primavera
le tue labbra sulle mie labbra
la tua carne, la mia carne
il fuoco che brucia la passione
i respiri che si confondono
la fine di un sogno...
l'inizio di una realtà.
Non dirmi
che diventa difficile
anche riflettere
perché l'amore non ha età.
È la verità.
Se solo
poi
ti guardi intorno
vedrai
il bisogno che c'è d'amore
e capirai.
Che non si può prescindere
dall'umanità di esserci
perché non ha più senso
uccidersi.
Allora
abbracciami
perché è più facile
che è un senso utile
e non fa male come l'inutile.
In questa storia di guerre avide
ove il confine è labile
ove non basta riempirsi di sostantivi
o aggettivi
perché il bene e il male
sono solo parole
da tralasciare
se solo si vuole davvero ricominciare
a camminare
sulla stessa strada
per ritrovarsi uomini.
I brevi giorni di Novembre
la gente lascia le strade
e cammina dentro di me.
Miete la falce del sole il mio primo sonno.
Da colli di uccelli – che vogliono torcersi! –
martirio cola nel mio animo.
Campi di colore leonino si struggono nella foschia.
Lodi la mia anima il Signore! –
in nessun luogo fra il cielo e l'inferno
avverrà più un miracolo simile.
Terra! Appenderò il tuo viso di mela
alla croce della mia superbia.
Oh, che io riesca a portarla
sino su quel calvario beffardo,
il letto di parto della mia disperazione.
Dovrai tenermi
nella rete della tua volontà.
Non voglio più uscire nel mondo
dove il sole sorge e cala senza senso
e febbrilmente la luna si riduce in quarti.
Qui dentro non c'è né notte né giorno,
qui manca la tentazione delle stelle
di risollevarsi da un dolore antico
per dover precipitare in quello nuovo.
Nella tua rete la debolezza è buona.
Come una farfalla redenta dalla luce
il cuore angosciato si addormenta.
Dovrai tenermi
con tutto ciò che ho perduto
e che mi rende pesante,
così pesante come una pietra
da far vibrare spesso la rete della tua volontà.
Concedimi di essere triste
sotto i tuoi occhi, le stelle.
Forse loro non vedono che sono triste
perché l'orecchio della luna è distratto
e non sente i miei discorsi.
Certo di giorno l'astro solare
non pensa mai che tramonto –
concedimi di perdere me stessa
nei cespugli della malinconia.
Oppure cantare, solamente cantare!
Dire che sei tu
il senso sconosciuto delle cose,
questa nostra coscienza:
amore celato nei nostri amori
voce del vento, e il silenzio
che fascia le galassie,
o improvviso, rapito gemito
di fronde sul limitare
appena della selva.
Cantare suoni
che non siano più parole.
Forse è la musica, il suono
puro che ti conviene:
cantare con voce sempre nuova
perché sempre "altro" tu sei;
cantare con libera voce
e lasciare i salmi tumultuosi
perché non vale dire
quanto di te soffersi...
Viviamo d'un fremito d'aria,
d'un filo di luce,
dei più vaghi e fuggevoli
moti del tempo,
di albe furtive,
di amori nascenti,
di sguardi inattesi.
E per esprimere quel che sentiamo
c'è una parola sola:
disperazione.
Dolce, infinita, profonda parola.
Vaga e triste è degli uomini la sorte:
degli uomini che passano
con non maggior fragore d'una foglia che si tramuta in terra.
Precario stato il loro.
La morte è uno sciogliersi,
non un finire
e senza tempo, senza memoria
il terrestre viaggio.
Il sole è stanco di contemplare
una tanto monotona vicenda.
Così parlava un monaco
neghittoso e bizzarro,
là, nell'antico Oriente:
piccolo uomo assediato
da immani fantasmi.