Che diremo stanotte all'amico che dorme? La parola più tenue ci sale alle labbra dalla pena più atroce. Guarderemo l'amico, le sue inutili labbra che non dicono nulla, parleremo sommesso. La notte avrà il volto dell'antico dolore che riemerge ogni sera impassibile e vivo. Il remoto silenzio soffrirà come un'anima, muto, nel buio. Parleremo alla notte che fiata sommessa.
Udiremo gli istanti stillare nel buio al di là delle cose, nell'ansia dell'alba, che verrà d'improvviso incidendo le cose contro il morto silenzio. L'inutile luce svelerà il volto assorto del giorno. Gli istanti taceranno. E le cose parleranno sommesso.
La fatica è sedersi senza farsi notare. Tutto il resto poi viene da sé. Tre sorsate e ritorna la voglia di pensarci da solo. Si spalanca uno sfondo di lontani ronzii, ogni cosa si sperde, e diventa un miracolo esser nato e guardare il bicchiere. Il lavoro (l'uomo solo non può non pensare al lavoro) ridiventa l'antico destino che è bello soffrire per poterci pensare. Poi gli occhi si fissano a mezz'aria, dolenti, come fossero ciechi.
Se quest'uomo si rialza e va a casa a dormire, pare un cieco che ha perso la strada. Chiunque può sbucare da un angolo e pestarlo di colpi. Può sbucare una donna e distendersi in strada, bella e giovane, sotto un altr'uomo, gemendo come un tempo una donna gemeva con lui. Ma quest'uomo non vede. Va a casa a dormire e la vita non è che un ronzio di silenzio.
A spogliarlo, quest'uomo, si trovano membra sfinite e del pelo brutale, qua e là. Chi direbbe che in quest'uomo trascorrono tiepide vene dove un tempo la vita bruciava? Nessuno crederebbe che un tempo una donna abbia fatto carezze su quel corpo e baciato quel corpo, che trema, e bagnato di lacrime, adesso che l'uomo giunto a casa a dormire, non riesce, ma geme.
È riapparsa la donna dagli occhi socchiusi e dal corpo raccolto, camminando per strada. Ha guardato diritto tendendo la mano, nell'immobile strada. Ogni cosa è riemersa.
Nell'immobile luce dei giorno lontano s'è spezzato il ricordo. La donna ha rialzato la sua semplice fronte, e lo sguardo d'allora è riapparso. La mano si è tesa alla mano e la stretta angosciosa era quella d'allora. Ogni cosa ha ripreso i colori e la vita allo sguardo raccolto, alla bocca socchiusa.
È tornata l'angoscia dei giorni lontani quando tutta un'immobile estate improvvisa di colori e tepori emergeva, agli sguardi di quegli occhi sommessi. È tornata l'angoscia che nessuna dolcezza di labbra dischiuse può lenire. Un immobile cielo s'accoglie freddamente, in quegli occhi. Fra calmo il ricordo alla luce sommessa dei tempo, era un docile moribondo cui già la finestra s'annebbia e scompare. Si è spezzato il ricordo. La stretta angosciosa della mano leggera ha riacceso i colori e l'estate e i tepori sotto il viviclo cielo. Ma la bocca socchiusa e gli sguardi sommessi non dan vita che a un duro inumano silenzio.
Tremola poco lontano la tua fragrante figura. Sarò dolce in questa notte fatata, di stella, lacrima e poesia; tra le mie mani si ribella, l'arancia che solo nella mia bocca matura.
Pigro ti ascolto morire e quasi muoio sereno.
Saluto con un cenno di cuore il tuo sorriso che guarda altrove, e deformandoti in viso, scivola una lacrima di cristallo sul tuo seno.
La tua bocca s'apre a guisa di rosa e tace.
Un cenno di primavera sembra verdeggiare nei tuoi occhi, come scoglio in calmo mare o brezza di vento tra le foglie, pianto di pace; che brucia tutto il resto che per me è natale; brucia il fuoco dentro se stesso nel movimento, solo una lacrima può redimere uno, dieci, cento errori che mi hanno visto sbagliare uguale.
Ti vedo tra le sordide finestre del pensiero, uguale a mille baci di donna già assaporati allora, finiti già, ancor prima d'esser iniziati, persi nella notte di chi sono o di chi ero.
E continuo a non capire tutto il tuo pianto di cera.
Barcollo nella nebbia delle mie troppe risposte accompagnate poche volte, da domande poste male o mai poste, che di luce illuminano la sera.
Vieni, mia Donna, vieni mio vigore sfida di ogni riposo, finché mi affanno resterò in affanno. Spesso il nemico avendo il suo nemico in vista dalla sola presenza vien fiaccato, anche se non combatte. Getta pur quel cinto che splende simile allo Zodiaco, ma che nasconde al mio sguardo un mondo assai più bello. Togli gli spilli dal pettorale cosparso di lustrini, così che gli occhi dei maliziosi vi si possono fermare. Slacciati, perché quell'accordo armonioso mi dice di esser già l'ora di recarsi a letto. Via quel busto felice, che invidio, perché può starti così stretto. E via la gonna che svela una tanto bella condizione, come quando dai campi fioriti l'ombra dei colli si fugge. Via il diadema tenace, ed esso mostri il diadema fluente dei capelli che da te si leva: e ora via quelle scarpe, posa il tuo piede libero in questo sacro tempio dell'amore, su questo soffice letto. In vesti così bianche che gli Angeli del cielo erano soliti essere accolti dagli uomini; Angelo, conduci insieme a te un cielo simile al Paradiso di Maometto; e sebbene cattivi spiriti biancovestiti passino, noi facilmente riconosciamo questi Angeli da uno spirito malvagio, quelli rizzano i nostri capelli, ma questi ci rizzano la carne.
Dona licenza alle mie mani erranti, lasciale andare avanti e indietro, in mezzo, sopra e sotto. Oh mia America! Mia nuova terra scoperta, mio regno, più sicuro se solo un uomo lo domina, miniera di pietre preziose, mio Impero, come sono benedetto in questo mio scoprirti! Entrare in questi ceppi significa essere liberi; dove metto la mia mano sarà il mio suggello.
Completa nudità! Tutte le gioie a te sono dovute, come le anime si separano dal corpo, così i corpi si devono spogliare per gustare la gioia interamente. Le gemme che voi donne usate sono come i miei dorati pomi d'Atlanta, davanti allo sguardo degli uomini, tali che quando l'occhio di uno stupido s'illumina a una gemma la sua anima terrena non vuole la donna, ma vuole i suoi beni. Come dipinti, o come gaie rilegature di libri fatte per i profani, così sono le vesti delle donne; in sè le donne sono libri mistici che solo noi, fatti degni della loro grazia, vediamo rivelati. E poiché io sono chiamato a conoscere tanto, liberamente mostrati come a una levatrice; getta via tutto, si, getta i tuoi bianchi lini: all'innocenza nessuna penitenza è mai dovuta.
Per insegnarti, per primo ecco son nudo; allora dunque, per coprirti che altro ti occorre più di un uomo?
Caro mio, cosa fai tutto solo nel pollaio? - Le galline io ammiro per la loro maestà, quando placide ti guardano e ti fanno coccodè, coccodè, noi siam con te! - Caro mio, non ti vergogni? Cosa dici? - Dico che mi piace il gallo per la sua autorità. Osserva tutti con occhio obliquo e poi fa chicchiricchiii! - Caro mio, ti senti male? Un dottore ti ci vuole del cervello conoscitore. - A me piace molto l'uovo; la mattina me lo succhio in un baleno. Bene sto tutto il giorno, benedetto sia l'uovo! - Caro mio, tu sei matto! Più dell'uovo ti ci vuole una mazzata che ti faccia rinsavire. Anormale tu mi sembri! - Senti senti chi mi parla! Bacchettone conformista sempre più trasformista. Io di te me n'impipo; vacci tu dall'analista ché mi pari nichilista. Io amo polli e galli, embè, che te ne frega? Pensa un po' ai fatti tuoi che ai miei ci penso io! -.
Chicchicchirichi!... Chicchicchirichi!... "Ecco il dì". Cantano i galli di Cobò. Il vecchio Cobò è sul suo letto che muore fra poche ore. Povero Cobò! Povero Cobò! Ciangottano i pappagalli. Addio Cobò! Addio Cobò! E le galline: cocococococococodè: "oggi è per te" cocococococococodè: "Cobò tocca a te". Le tortore piene di malinconia si sono radunate in un cantuccio: glu... glu... glu... "non ti vedremo più". I cani si aggirano mesti con la coda ciondoloni, mugolando: bau... bau... baubaubò: "addio papà Cobò". E i gatti miagolando: gnai... gnai... gnai... fufù "Mai... mai... mai più". E le cornacchie: gre gre gre gre "anche a te, anche a te". Fissando il capezzale la civetta veglia e aspetta.
Vibrano corde stonate al pensiero di lei. Riverberi di specchio e stelle annegano nel mare della mia rinnovata solitudine; schiantano sui miei occhi stanchi bagliori, nuovi, tristi piaceri che l'anima rude schiude; antichi suoni, schiusi dalla porpora di stelle di cui si bagna mesta la mia pelle; questa, è la polvere stellare; lascia la scìa, mi sugge linfa vitale da bere dalla sorgente: la mia.
Guardo il suo sguardo che nell'infinito oceano mi mostra le mille rotte, sono solo, io, questa notte e mille altre.
Lacero in brandelli di seta e pianto il pensiero fugace; di lei.
L'animo mio innamorato, è fallace dinanzi al canto inumano; è straziato. Tremola la mano levata verso il tuono, poco distante, in segno di sfida o forse di perdono, ma il gesto è insistente, non odo alcun suono, se non il pensiero d'un uomo che si pente d'aver intessuto di passato il suo presente, tanto d'aver finito con il vestire d'abito scuro ciò che poteva avere tra le mani ora; o in futuro.
Ascolto solo l'urlo che mi accompagna, mi consola, questa notte sola o mille altre e altre ancora.
Dolci le mani smaniose di proibito su di me torci piano; un filo di gemito m'accarezza le tempie, soffio leggero, gonfio è il pensiero mio nel ventre; un'impudica ebbrezza m'empie di getto, rosso di voglia il mio petto nudo, distratto dalla tua carnosa opulenza, s'agita sotto. Imploro clemenza, assaporo i tuoi gemiti, scostanti; linfa s'insinua in ogni poro lasciando distanti i gesti di mano e le colate d'oro pressanti, come acqua e diga in esplosione rallento dolcemente, lo sento lei mi sente mentre pigra la mia voglia latente lacera il mio ventre e grida.