C'era un disordinato andirivieni di valige sfrangiate, penzoloni su ghette e scarpe gialle da provincia, che schizzavano dentro l'atrio grigio dagli sbadigli bianchi delle porte aperte sulla piazza e sui binari. Gli sportelli sbarravano sul muro uno stupore lucido, verdone; un ombrello, testardo, s'impuntava contro terra in un suo capriccio nero. Né tu né io ci guardavamo in viso: ma i miei occhi sentivan d'incontrarti. Dove, non so. Forse in quel po' di cielo che si vedeva sopra la tettoia o in mezzo alle fumate carnicine che il Vesuvio sbuffava senza posa e il vento senza posa smozzicava. Io mi sentivo libera e leggera come quei fiocchi bianchi di pelurie che si sprigionano dai pioppi, in maggio e cercan l'alto come delle preci. La tua voce era un mare di purezza: ogni ombra di materia vi affogava. A tratti le parole si frangevano in sfumature lunghe di silenzio e all'anima sembrava di vibrare nuda nel vento e di sfiorare Dio.
Io l'ho veduto, allora. Tu sonavi il tuo violino, con la testa bassa: le ciglia ti segnavano sul viso due strisce d'ombra. Io vibravo, forse, insieme con le corde, nei singhiozzi che l'anima imprimeva alla tua mano e t'incontravo al sommo delle dita. O forse ti giocavo sui capelli insieme con la brezza acre del mare. Forse m'illanguidivo nei racemi molli e compatti delle viole ciocche. E un giorno riponesti le tue musiche; riponesti, piangendo, il tuo strumento: la Morte te lo avea fasciato stretto coi suoi velluti neri. Io t'ho veduto, fratello, allora. Ma non so dov'ero. Forse ero solo un ramo crasso ed irto di fico d'India, dietro un vecchio muro.
No. Non si può salire: il vuoto enorme grava su noi, quella gran luce bianca arde e consuma l'anima. Non vedi come prone stanno le cime e come densi i pini nella valle precipitano? Non impeto d'ascesa sferza le vette ad assalir l'azzurro, ma paurosa immensità di cielo le respinge, le opprime. S'annidano, rattratti, nelle conche i nevai, disciogliendo sui nudi prati, fra gli abeti neri trecce argentee di rivi, come un canoro sospirar di pace verso il lago lontano. Restiamo presso il lago, anima cara; restiamo in questa pace. Guarda: il cielo, nell'acqua, è meno vasto, ma più mite, più vivo. Noi entreremo in questa vecchia barca tratta in secco sul lido: i remi sono infranti, ma giacendo sul fondo basso, non vedrem la terra e l'onda, percuotendolo da prora, darà al legno un alterno dondolio che fingerà l'andare. Salperemo così, da questi blandi pendii che odoran di ginepro: andremo con tutto il sole sovra il petto, il sole che riscalda e che nutre; andremo, lenti, in un bianco pio sogno di sconfinata pace, verso ignorate spiagge, col nostro amore solo.
Non monti, anime di monti sono queste pallide guglie, irrigidite in volontà d'ascesa. E noi strisciamo sull'ignota fermezza: a palmo a palmo, con l'arcuata tensione delle dita, con la piatta aderenza delle membra, guadagnammo la roccia; con la fame dei predatori, issiamo sulla pietra il nostro corpo molle; ebbri d'immenso, inalberiamo sopra l'irta vetta la nostra fragilità ardente. In basso, la roccia dura piange. Dalle nere, profonde crepe, cola un freddo pianto di gocce chiare: e subito sparisce sotto i massi franati. Ma, lì intorno, un azzurro fiorire di miosotidi tradisce l'umidore ed un remoto lamento s'ode, ch'è come il singhiozzo trattenuto, incessante, della terra.
Ho gridato di gioia, nel tramonto. Cercavo i ciclamini fra i rovai: ero salita ai piedi di una roccia gonfia e rugosa, rotta di cespugli. Sul prato crivellato di macigni, sul capo biondo delle margherite, sui miei capelli, sul mio collo nudo, dal cielo alto si sfaldava il vento. Ho gridato di gioia, nel discendere. Ho adorato la forza irta e selvaggia che fa le mie ginocchia avide al balzo; la forza ignota e vergine, che tende me come un arco nella corsa certa. Tutta la via sapeva di ciclami; i prati illanguidivano nell'ombra, frementi ancora di carezze d'oro. Lontano, in un triangolo di verde, il sole s'attardava. Avrei voluto scattare, in uno slancio, a quella luce; e sdraiarmi nel sole, e denudarmi, perché il morente dio s'abbeverasse del mio sangue. Poi restare, a notte, stesa nel prato, con le vene vuote: le stelle – a lapidare imbestialite la mia carne disseccata, morta.
Bambina, ho visto che stasera hai pianto, mentre la mamma tua sonava: pochi, per questo pianto, i tuoi quindici anni. So che forse noi siamo creature nate tutte da un'ansia eterna: il mare; e che la vita, quando fruga e strazia l'essere nostro, spreme dal profondo un po' del sale da cui fummo tratte. Ma non sono per te le salse lagrime. Lascia ch'io sola pianga, se qualcuno suona, in un canto, qualche nenia triste. La musica: una cosa fonda e trepida come una notte rorida di stelle, come l'anima sua. Lascia ch'io pianga. Perch'io non potrò mai avere – intendi? né le stelle, né lui.
Ascolta: come sono vicine le campane! Vedi: i pioppi, nel viale, si protendono per abbracciarne il suono. Ogni rintocco è una carezza fonda, un vellutato manto di pace, sceso dalla notte ad avvolger la casa e la mia vita. Ogni cosa, d'intorno, è grande e ombrosa come tutti i ricordi dell'infanzia. Dammi la mano: so quanto ha doluto, sotto i miei baci, la tua mano. Dammela. Questa sera non m'ardono le labbra. Camminiamo così: la strada è lunga. Leggo per un gran tratto nel futuro come sul foglio che mi sta dinnanzi: poi, la visione cade bruscamente nel buio dell'ignoto, come questa pagina bianca, che si rompe, netta, sul panno scuro della scrivania. Ma vieni: camminiamo: anche l'ignoto non mi spaventa, se ti son vicina. Tu mi fai buona e bianca come un bimbo che dice le preghiere e s'addormenta.
E quando tu te ne sarai andato, fratello, io seguirò la bianca strada ovattata di nebbia. L'acqua andrà remigando come un'ala languida e nera: giù dai vecchi muri, qualche grido di verde e di scarlatto, vite, edera, veccia. Tanto silenzio ci sarà, lì presso: un silenzio d'attesa. Allora farò lieve la mia voce, farò lievi i miei passi: m'inoltrerò nel luogo dei malati come il bimbo che entra in un suo sogno di paradiso, dove tutto è bianco. Non ci saran più volti, né capelli, né età, né nomi: ci sarà un candore infinito, vorace. Ma, dal candore, mille urli rossastri si leveranno: oh, mani livide, abbandonate sulle coltri; mani che vi portate come artigli sopra le piaghe aperte per difenderle a unghiate o per squarciarle; mani che avete in voi tutto il dolore e il mistero dell'essere; io farò lievi, un giorno, le mie mani sopra di voi. E là dove il silenzio è un'attesa di morte o di salvezza, il silenzio e la fede vestiranno la mia esistenza nuda. Fratello, io farò lieve il mio respiro, l'anima mia farò lieve e sicura sopra il gran male umano: dentro i labbri di tutte le ferite io stagnerò il tuo sangue, fra le ciglia di ognuno che si strazia asciugherò il tuo pianto.
Sulla chiara aderenza del suo viso dove balena il ritmico, selvaggio, sentimento dell'alba mentre della notturna s'addolora quiete silvestre e cinge a dominare il boato del tempo la più cauta trepida luce, salgono veloci i profili irrequieti del destino.
Mirabile linguaggio che trascorre dalle limpide acque alla vibrata forza dell'inumana profezia!
Ora nell'ampia conca dell'eremo un soffuso candore si raccoglie dalle acque sui rami ed accompagna di cenni lacrimevoli il congedo.
La ragazzina all'angolo vestita da sgualdrina e faccia d'angelo sorriso artificiale barcolla, ride e dopo cade la tossica sul marciapiede la guardano e ridono mentre passa per le strade vende se stessa e sa di essere già persa non sa (più) quel che fa non ha più dignità io non so più che cos'è il bene e cos'è il male appeso a testa in giù, mi fermo un po' a guardare il mondo gira storto sono come imprigionato, come incatenato in questo mondo corrotto in questo mondo malato. È un mondo perverso è un mondo malato sogno un mondo diverso un mondo guarito è un mondo perverso è un mondo inquinato voglio un mondo diverso un mondo pulito (un mondo pulito) dei ragazzini agli angoli occhi d'assassini e volti candidi già pronti per sparare coltelli e lame più affilate... si guardano e si uccidono per il motivo più banale anche se non so che fare io non potrò restare per sempre qui a guardare finché non torna il sole adesso è tempo di cambiare, tempo di lottare ma una vecchia canta ancora le sue canzoni d'amore ricordi ormai lontani tra gioia e dolore e una vecchia canta ancora le sue canzoni d'amore ed io sogno ancora... un mondo guarito, un mondo pulito. È un mondo perverso è un mondo malato sogno un mondo diverso un mondo guarito è un mondo perverso è un mondo inquinato voglio un mondo diverso un mondo pulito e la mia chitarra, un rock suona senza fare stop non voglio più soltanto giudicare adesso è tempo di cambiare, tempo di lottare finché non torna il sole e sogno ancora... un mondo guarito, un mondo pulito.