E più spesso la notte, quando scorre senza difesa il rivolo dell'anima, ecco – si leva un vento fuori stagione, come questo in sonno sento baciare i muri della casa, fra bisbigli di nidi e di fogliami già trapassati: e invasa mi sorprende di fantasmi d'amore, con ludibrio e gaudio insostenibile. Chè ormai già l'autunno s'appresta e la rondine già scruta la rotta. E pende fra uno sciame alto di stelle dall'abisso notturno la Bilancia: sopra il vivere mio lucida, esatta, non turbata da venti, in equilibrio fra il cielo già trascorso e quel che resta.
Qui dunque fui bambina. Alla marina crescevo accanto: l'anima digiuna d'ogni perché - famelica altrettanto. Gigli ad oriente, la riva era una spada. Stupendo sacrilegio imporvi un segno - l'arco del piede - premere col viso La freschezza deposta dalla luna. Il mare straripava nel sereno a livello dei cigli. Ah, la bellezza che pativo, non mia, che mia stringevo in quel primo singhiozzo di creatura che s'arrende all'immenso - era già il pegno, la stigmata che in me sfolgora e dura.
Mi scinderò dalla perpetua danza, dal flusso senza fine che mi porta, creatura di lucente libertà - io - che piangete morta. Invaderò la casa: un solo giro come fa il lampo.
In consistenza d'aria assumerò il colore d'ogni stanza. Senza toccar le cose - non ho mani -. Senza lasciare firme sugli specchi - non ho respiro -.
Vi stupirà la tenda che ferma taglia un brivido, il vermiglio tumulto dei gerani, lo scompiglio dei libri nell'eremo della scansia. Poi, subito riemersi come statue da un vento: "Che cosa è stato" attoniti vi chiederete. Diletti, non v'offenda se durerà il mio avvento solo l'attimo di rifluire via.
La mia giovane figlia, se la vita la spaura nell'anima – che un posto cercandosi, in nessuno si fa quieta-, si stringe chiusa, dura, come nelle sue ciglia la margherita sotto il temporale. Ieri sera era triste: e col suo male s'aggruppava nel sonno. Ma il mattino, dritta come una pianta, spensierata, m'è presso il capezzale, che con l'aroma del caffè mi canta "sveglia", col carillon del cucchiaino.
Tu, che senza sospetto mi sei amico, non osare cercarmi. Tu sapessi. Quest'amore che s'apre a tradimento dentro di me – questo coltello a scatto, affilato in cantine d'insonnia e di vergogna, sepolto nel cuscino a tormento dei sogni – cerca te. M'inebrio al colpo che t'assalirebbe all'altezza dell'anima. M'inebria pensare come il volto ti si farebbe pallido, e smarrita l'onestà dello sguardo. Chiaro sguardo – offuscato. Animo – morsicato. Per mia colpa. Tua Eva, divenuta, tuo serpente – io – battezzata!
Creatura appena nata, cieca – ermetica – nuda. Tocca a te, adesso: rompere il profondo magma dei sensi, salire ad esser viva dalla ferita della tua pupilla, approdare nel mondo. Innumerata nell'innumere mare – infima stilla – tu – gettata all'assalto della riva?
Di luglio, al lungo sole della sera le case stanno appese in un silenzio d'arnia dopo il volo. Ragazzi se ne vanno alti leggeri giù per la via. Farfalle svolano le ragazze. All'ombra delle tende azzurre gialle approda il vecchio. Siede, guarda intorno la scena: mitemente nel suo castello d'ossa si consola di farne ancora parte. Ma l'anima – è in disparte.
Mia madre dorme, sul cuscino il profilo di medaglia, scaldandosi un tremulo ghiro di respiro in fondo alla gola. Dorme con due collane di rughe allacciate alla nuca, il sopracciglio in pieghe di pacata meraviglia. I capelli riposano leggeri nell'ombra che al suo corpo fa da culla. Ma la mano s'è arresa, crocefissa alla vita.
Stamane sulle quattro, vagolando col mio scettro d'insonnia per la casa, senza accendere le luci, m'avvenne d'intuire sulla soglia del terrazzo qualcosa, tra feroce e soave - non certo l'umidore dell'edera risalita in apnea né fantasmi di voci dalle antenne dei palazzi accasciati. - Era là fuori la notte in piena doglia: si sforzava di uscire dalle grotte di se stessa. Affannosa. Le esultava l'ampio addome di brividi, il madore ne intrideva le stelle. Fu come per una donna: trattenere un lungo attimo il fiato. E il suo dolore s'assommò, sangue ed anima, in un grido - lassù - di rosa.
Poi ti raggiungerò là dove – abbandonata la via terrestre, simile a rotaia in disuso – s'incammina lo spirito, esitante, confuso ancora al grido, ancora all'orlo della sua cieca vibrazione umana. Io ti raggiungerò dove tu "Sono qui!" balenerai, che ancora dalla fascia del buio mi districo. "Qui dove" – nell'angoscia di troppa luce, nessuno distinguendo – ti griderò. Ma già saremo Uno.