Poesie d'Autore


Scritta da: Silvana Stremiz
in Poesie (Poesie d'Autore)

Il Natale del 1833

Sì che Tu sei terribile!
Sì che in quei lini ascoso,
In braccio a quella Vergine,
Sovra quel sen pietoso,
Come da sopra i turbini
Regni, o Fanciul severo!
E fato il tuo pensiero,
È legge il tuo vagir.

Vedi le nostre lagrime,
Intendi i nostri gridi;
Il voler nostro interroghi,
E a tuo voler decidi.
Mentre a stornar la folgore
Trepido il prego ascende
Sorda la folgor scende
Dove tu vuoi ferir.

Ma tu pur nasci a piangere,
Ma da quel cor ferito
Sorgerà pure un gemito,
Un prego inesaudito:
E questa tua fra gli uomini
Unicamente amata,
Nel guardo tuo beata,
Ebra del tuo respir,

Vezzi or ti fa; ti supplica
Suo pargolo, suo Dio,
Ti stringe al cor, che attonito
Va ripetendo: è mio!
Un dì con altro palpito,
Un dì con altra fronte,
Ti seguirà sul monte.
E ti vedrà morir.

Onnipotente….
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    Scritta da: Silvana Stremiz
    in Poesie (Poesie d'Autore)

    Il Natale

    Qual masso che dal vertice
    Di lunga erta montana,
    Abbandonato all'impeto
    Di rumorosa frana,
    Per lo scheggiato calle
    Precipitando a valle,
    Batte sul fondo e sta;
    Là dove cadde, immobile
    Giace in sua lenta mole;
    Né, per mutar di secoli,
    Fia che riveda il sole
    Della sua cima antica,
    Se una virtude amica
    In alto nol trarrà:
    Tal si giaceva il misero
    Figliol del fallo primo,
    Dal dì che un'ineffabile
    Ira promessa all'imo
    D'ogni malor gravollo,
    Donde il superbo collo
    Più non potea levar.
    Qual mai tra i nati all'odio
    Quale era mai persona
    Che al Santo inaccessibile
    Potesse dir: perdona?
    Far novo patto eterno?
    Al vincitore inferno
    La preda sua strappar?
    Ecco ci è nato un Pargolo,
    Ci fu largito un Figlio:
    Le avverse forze tremano
    Al mover del suo ciglio:
    All'uom la mano Ei porge,
    Che si ravviva, e sorge
    Oltre l'antico onor.
    Dalle magioni eteree
    Sgorga una fonte, e scende
    E nel borron dè triboli
    Vivida si distende:
    Stillano mele i tronchi;
    Dove copriano i bronchi,
    Ivi germoglia il fior.
    O Figlio, o Tu cui genera
    L'Eterno, eterno seco;
    Qual ti può dir dè secoli:
    Tu cominciasti meco?
    Tu sei: del vasto empiro
    Non ti comprende il giro:
    La tua parola il fè.
    E Tu degnasti assumere
    Questa creata argilla?
    Qual merto suo, qual grazia
    A tanto onor sortilla?
    Se in suo consiglio ascoso
    Vince il perdon, pietoso
    Immensamente Egli è.
    Oggi Egli è nato: ad Efrata,
    Vaticinato ostello,
    Ascese un'alma Vergine,
    La gloria d'Israello,
    Grave di tal portato:
    Da cui promise è nato,
    Donde era atteso uscì.
    La mira Madre in poveri.
    Panni il Figliol compose,
    E nell'umil presepio
    Soavemente il pose;
    E l'adorò: beata!
    Innanzi al Dio prostrata
    Che il puro sen le aprì.
    L'Angel del cielo, agli uomini
    Nunzio di tanta sorte,
    Non dè potenti volgesi
    Alle vegliate porte;
    Ma tra i pastor devoti,
    Al duro mondo ignoti,
    Subito in luce appar.
    E intorno a lui per l'ampia
    Notte calati a stuolo,
    Mille celesti strinsero
    Il fiammeggiante volo;
    E accesi in dolce zelo,
    Come si canta in cielo,
    A Dio gloria cantar.
    L'allegro inno seguirono,
    Tornando al firmamento:
    Tra le varcate nuvole
    Allontanossi, e lento
    Il suon sacrato ascese,
    Fin che più nulla intese
    La compagnia fedel.
    Senza indugiar, cercarono
    L'albergo poveretto
    Què fortunati, e videro,
    Siccome a lor fu detto,
    Videro in panni avvolto,
    In un presepe accolto,
    Vagire il Re del Ciel.
    Dormi, o Fanciul; non piangere;
    Dormi, o Fanciul celeste:
    Sovra il tuo capo stridere
    Non osin le tempeste,
    Use sull'empia terra,
    Come cavalli in guerra,
    Correr davanti a Te.
    Dormi, o Celeste: i popoli
    Chi nato sia non sanno;
    Ma il dì verrà che nobile
    Retaggio tuo saranno;
    Che in quell'umil riposo,
    Che nella polve ascoso,
    Conosceranno il Re.
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      in Poesie (Poesie d'Autore)

      Il Cinque Maggio

      Ei fu. Siccome immobile,
      dato il mortal sospiro,
      stette la spoglia immemore
      orba di tanto spiro,
      così percossa, attonita
      la terra al nunzio sta,
      muta pensando all'ultima
      ora dell'uom fatale;
      né sa quando una simile
      orma di piè mortale
      la sua cruenta polvere
      a calpestar verrà.
      Lui folgorante in solio
      vide il mio genio e tacque;
      quando, con vece assidua,
      cadde, risorse e giacque,
      di mille voci al sònito
      mista la sua non ha:
      vergin di servo encomio
      e di codardo oltraggio,
      sorge or commosso al sùbito
      sparir di tanto raggio;
      e scioglie all'urna un cantico
      che forse non morrà.
      Dall'Alpi alle Piramidi,
      dal Manzanarre al Reno,
      di quel securo il fulmine
      tenea dietro al baleno;
      scoppiò da Scilla al Tanai,
      dall'uno all'altro mar.
      Fu vera gloria? Ai posteri
      l'ardua sentenza: nui
      chiniam la fronte al Massimo
      Fattor, che volle in lui
      del creator suo spirito
      più vasta orma stampar.
      La procellosa e trepida
      gioia d'un gran disegno,
      l'ansia d'un cor che indocile
      serve, pensando al regno;
      e il giunge, e tiene un premio
      ch'era follia sperar;
      tutto ei provò: la gloria
      maggior dopo il periglio,
      la fuga e la vittoria,
      la reggia e il tristo esiglio;
      due volte nella polvere,
      due volte sull'altar.
      Ei si nomò: due secoli,
      l'un contro l'altro armato,
      sommessi a lui si volsero,
      come aspettando il fato;
      ei fè silenzio, ed arbitro
      s'assise in mezzo a lor.
      E sparve, e i dì nell'ozio
      chiuse in sì breve sponda,
      segno d'immensa invidia
      e di pietà profonda,
      d'inestinguibil odio
      e d'indomato amor.
      Come sul capo al naufrago
      l'onda s'avvolve e pesa,
      l'onda su cui del misero,
      alta pur dianzi e tesa,
      scorrea la vista a scernere
      prode remote invan;
      tal su quell'alma il cumulo
      delle memorie scese.
      Oh quante volte ai posteri
      narrar se stesso imprese,
      e sull'eterne pagine
      cadde la stanca man!
      Oh quante volte, al tacito
      morir d'un giorno inerte,
      chinati i rai fulminei,
      le braccia al sen conserte,
      stette, e dei dì che furono
      l'assalse il sovvenir!
      E ripensò le mobili
      tende, e i percossi valli,
      e il lampo dè manipoli,
      e l'onda dei cavalli,
      e il concitato imperio
      e il celere ubbidir.
      Ahi! Forse a tanto strazio
      cadde lo spirto anelo,
      e disperò; ma valida
      venne una man dal cielo,
      e in più spirabil aere
      pietosa il trasportò;
      e l'avviò, pei floridi
      sentier della speranza,
      ai campi eterni, al premio
      che i desideri avanza,
      dov'è silenzio e tenebre
      la gloria che passò.
      Bella Immortal! Benefica
      Fede ai trionfi avvezza!
      Scrivi ancor questo, allegrati;
      ché più superba altezza
      al disonor del Gòlgota
      giammai non si chinò.
      Tu dalle stanche ceneri
      sperdi ogni ria parola:
      il Dio che atterra e suscita,
      che affanna e che consola,
      sulla deserta coltrice
      accanto a lui posò.
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        Scritta da: Silvana Stremiz
        in Poesie (Poesie d'Autore)

        Alla Musa

        Pur tu copia versavi alma di canto
        su le mie labbra un tempo, Aonia Diva,
        quando dè miei fiorenti anni fuggiva
        la stagion prima, e dietro erale intanto

        questa, che meco per la via del pianto
        scende di Lete ver la muta riva:
        non udito or t'invoco; ohimè! Soltanto
        una favilla del tuo spirto è viva.

        E tu fuggisti in compagnia dell'ore,
        o Dea! Tu pur mi lasci alle pensose
        membranze, e del futuro al timor cieco.

        Però mi accorgo, e mel ridice amore,
        che mal ponno sfogar rade, operose
        rime il dolor che deve albergar meco.
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          Scritta da: Silvana Stremiz
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          Che stai?

          Che stai? Già il secol l'orma ultima lascia;
          dove del tempo son le leggi rotte
          precipita, portando entro la notte
          quattro tuoi lustri, e obblio freddo li fascia.

          Che se vita è l'error, l'ira, e l'ambascia,
          troppo hai del viver tuo l'ore prodotte;
          or meglio vivi, e con fatiche dotte
          a chi diratti antico esempi lascia.

          Figlio infelice, e disperato amante,
          e senza patria, a tutti aspro e a te stesso,
          giovine d'anni e rugoso in sembiante,

          che stai? Breve è la vita, e lunga è l'arte;
          a chi altamente oprar non è concesso
          fama tentino almen libere carte.
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            Scritta da: Silvana Stremiz
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            A Zacinto

            Né più mai toccherò le sacre sponde
            ove il mio corpo fanciulletto giacque,
            Zacinto mia, che te specchi nell'onde
            del greco mar da cui vergine nacque

            Venere, e fea quelle isole feconde
            col suo primo sorriso, onde non tacque
            le tue limpide nubi e le tue fronde
            l'inclito verso di colui che l'acque

            cantò fatali, ed il diverso esiglio
            per cui bello di fama e di sventura
            baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

            Tu non altro che il canto avrai del figlio,
            o materna mia terra; a noi prescrisse
            il fato illacrimata sepoltura.
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              Scritta da: Silvana Stremiz
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              Notturno nuziale

              Quando tu venisti, una notte, verso il suo letto, al buio,
              e le dicesti, piano, già sopra di lei: Non ti vedo, non ti sento.
              E la ghermisti con artiglio d'aquila, e tutta la costringesti nella tua forza
              riplasmandola in te con tal furore ch'ella perdette il senso d'esistere.
              E uno solo in due bocche fu il rantolo e misto fu il sangue e fu il ritmo perfetto,
              e dal balcone aperto la notte guardava con l'occhio d'una sola stella
              rossastra,
              e il sonno che seguì parve la morte, e immoti come cadaveri
              la tristezza dell'ombra vi vegliò sino all'alba.
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                Scritta da: Silvana Stremiz
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                Virgilio

                Come, quando sù campi arsi la pia
                Luna imminente il gelo estivo infonde,
                Mormora al bianco lume il rio tra via
                Riscintillando tra le brevi sponde;
                E il secreto usignuolo entro le fronde
                Empie il vasto seren di melodia,
                Ascolta il viatore ed a le bionde
                Chiome che amò ripensa, e il tempo oblia;
                Ed orba madre, che doleasi in vano,
                Da un avel gli occhi al ciel lucente gira
                E in quel diffuso albor l'animo queta;
                Ridono in tanto i monti e il mar lontano,
                Tra i grandi arbor la fresca aura sospira:
                Tale il tuo verso a me, divin poeta.
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                  Scritta da: Silvana Stremiz
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                  Il bove

                  T'amo pio bove; e mite un sentimento
                  Di vigore e di pace al cor m'infondi,
                  O che solenne come un monumento
                  Tu guardi i campi liberi e fecondi,
                  O che al giogo inchinandoti contento
                  L'agil opra de l'uom grave secondi:
                  Ei t'esorta e ti punge, e tu co 'l lento
                  Giro dè pazienti occhi rispondi.
                  E del grave occhio glauco entro l'austera
                  Dolcezza si rispecchia ampio e quieto
                  Il divino del pian silenzio verde.
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                    Scritta da: Silvana Stremiz
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                    Nel paese di mia madre

                    Nel paese di mia madre v'è un campo quadrato, cinto di gelsi.
                    Di là da quel campo altri campi quadrati, cinti di gelsi.
                    Roggie scorrenti vi sono, fra alti argini, dritte, e non si sa dove vanno a finire.
                    La terra s'allarga a misura del cielo, e non si sa dove vada a finire.

                    Nel paese di mia madre v'han ponti di nebbia, che il vento solleva da placidi fiumi:
                    varca il sogno quei ponti di nebbia, mentre le rive si stellan di lumi.
                    Pioppi e betulle di tremula fronda accompagnan de l'acque il fluire:
                    quando nè rami s'impigliano gli astri, in quella pace vorrei morire.

                    Nel paese di mia madre un basso tugurio sonnecchia sul limite della risaia,
                    e ronzano mosche lucenti, ghiotte, intorno a un ammasso di concio.
                    Possanza di morte, possanza di vita, nell'odore del concio: ne gode
                    la terra dall'humus profondo, sotto la vampa d'agosto che immobile sta.

                    Nel paese di mia madre, quando il tramonto s'insaguina obliquio sui prati,
                    vien da presso, vien da lontano una canzone di lunga via:
                    la disser gli alari alle cune, gli aratri alle marre, le biche all'aie fiorite di lucciole,
                    vecchia canzone di gente lombarda: "La Violetta la vaaa la vaaaa... "
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