Come chi mira in ciel fisso le stelle, sempre qualcuna nuova ve ne scorge, che non più vista pria, fra tanti sorge chiari lumi del mondo, alme, fiammelle; mirando fisso l'alte doti e belle vostre, signor, di qualcuna s'accorge l'occhio mio nova, che materia porge, unde di lei si scriva e si favelle. Ma, sì come non può gli occhi del cielo tutti, perch'occhio vegga, raccontare lingua mortal e chiusa in uman velo, io posso ben i vostri onor mirare, ma la più parte d'essi ascondo e celo, perché la lingua a l'opra non è pare.
Stanco dell'ozio amaro in cui la mia pigrizia Offende quella gloria per cui fuggii l'infanzia Dolcissima dei boschi di rose nell'azzurro Naturale, e più ancora stanco del patto duro Di scavare vegliando un rinnovato avello Dentro l'avaro e freddo suolo del mio cervello, Per la sterilità spietato affossatore, - Che mai dirò, o Sogni, che mai a quest'Aurora, Visitato da rose, se, temendo i suoi fiori Lividi, il cimitero unirà i cavi orrori? - Voglio lasciare l'Arte vorace di un paese Crudele, e, sorridendo ai vecchi volti offesi Che mostrano gli amici, il genio ed il passato, E il lume che la mia agonia ha vegliato, Imitare il Cinese, anima chiara e fina, La cui estasi pura è dipinger la cima Sopra tazze di neve rapita dalla luna D'un fiore strano che la sua vita profuma Trasparente, d'un fiore che egli sentì fanciullo Innestarsi al suo cuore prezioso, azzurro nulla. E la morte così, solo sogno del saggio, Sereno, sceglierò un giovane paesaggio Che sulle tazze assente la mia mano pingerà. Una linea d'azzurro fine e tenue sarà Un lago dentro il cielo di nuda porcellana, Per una bianca nube una luna lontana Immerge il lieve corno nel gelo d'acque calme, Presso tre grandi cigli di smeraldo, le canne.
Nulla, una schiuma, vergine verso solo a indicare la coppa; così al largo si tuffa una frotta di sirene, taluna riversa. Noi navighiamo, o miei diversi amici, io di già sulla poppa voi sulla prora fastosa che fende il flutto di lampi e d'inverni; una bella ebbrezza mi spinge né temo il suo beccheggiare in piedi a far questo brindisi solitudine, stella, scogliera a tutto quello che valse il bianco affanno della nostra vela.
-Trami - dico ad Amor talora omai fuor de le man di questo crudo ed empio, che vive del mio danno e del mio scempio, per chi arsi ed ardo ancor, canto e cantai. Poi che con tanti miei tormenti e guai sua fiera voglia ancor non pago od empio, o di Diana avaro e crudo tempio, quando del sangue mio sazio sarai? Poi torno a me, e del mio dir mi pento: sì l'ira, il rimembrar pur lui, mi smorza, che dè miei non vorrei meno un tormento. Con sì nov'arte e con sì nova forza la bellezza ch'io amo, e ch'io pavento, ogni senso m'intrica, offusca e sforza.
Il bel, che fuor per gli occhi appare, e 'l vago del mio signor e del suo dolce viso, è tanto e tal, che fa restar conquiso ognun che 'l mira, di gran lunga, e pago. Ma, se qual è un cervier occhio e mago, potesse altri mirar intento e fiso quel che fuor non si mostra, un paradiso di meraviglie vi vedrebbe, un lago. E le donne non pur, ma gli animali, l'erbe, le piante, l'onde, i venti e i sassi farian arder d'amor gli occhi fatali. Quest'una grazia agli occhi miei sol dassi in guiderdon di tanti e tanti mali, per onde a tanto ben poggiando vassi.
Dura è la stella mia, maggior durezza è quella del mio conte: egli mi fugge, ì seguo lui; altri per me si strugge, ì non posso mirar altra bellezza. Odio chi m'ama, ed amo chi mi sprezza: verso chi m'è umìle il mio cor rugge, e son umìl con chi mia speme adugge; a così stranio cibo ho l'alma avezza. Egli ognor dà cagione a novo sdegno, essi mi cercan dar conforto e pace; ì lasso questi, ed a quell'un m'attegno. Così ne la tua scola, Amor, si face sempre il contrario di quel ch'egli è degno: l'umìl si sprezza, e l'empio si compiace.
Quando fu prima il mio signor concetto, tutti i pianeti in ciel, tutte le stelle gli dier le grazie, e queste doti e quelle, perch'ei fosse tra noi solo perfetto. Saturno diègli altezza d'intelletto; Giove il cercar le cose degne e belle; Marte appo lui fece ogn'altr'uomo imbelle; Febo gli empì di stile e senno il petto; Vener gli dié bellezza e leggiadria; eloquenza Mercurio; ma la luna lo fè gelato più ch'io non vorria. Di queste tante e rare grazie ognuna m'infiammò de la chiara fiamma mia, e per agghiacciar lui restò quell'una.
Voi, ch'ascoltate in queste meste rime, in questi mesti, in questi oscuri accenti il suon degli amorosi miei lamenti e de le pene mie tra l'altre prime, ove fia chi valor apprezzi e stime, gloria, non che perdon, dè miei lamenti spero trovar fra le ben nate genti, poi che la lor cagione è sì sublime. E spero ancor che debba dir qualcuna: - Felicissima lei, da che sostenne per sì chiara cagion danno sì chiaro! Deh, perché tant'amor, tanta fortuna per sì nobil signor a me non venne, ch'anch'io n'andrei con tanta donna a paro?
Era vicino il dì che 'l Creatore, che ne l'altezza sua potea restarsi, in forma umana venne a dimostrarsi, dal ventre virginal uscendo fore, quando degnò l'illustre mio signore, per cui ho tanti poi lamenti sparsi, potendo in luogo più alto annidarsi, farsi nido e ricetto del mio core. Ond'io sì rara e sì alta ventura accolsi lieta; e duolmi sol che tardi mi fè degna di lei l'eterna cura. Da indi in qua pensieri e speme e sguardi volsi a lui tutti, fuor d'ogni misura chiaro e gentil, quanto 'l sol giri e guardi.
Sì come provo ognor novi diletti, ne l'amor mio, e gioie non usate, e veggio in quell'angelica beltate sempre novi miracoli ed effetti, così vorrei aver concetti e detti e parole a tant'opra appropriate, sì che fosser da me scritte e cantate, e fatte cónte a mille alti intelletti. Et udissero l'altre che verranno con quanta invidia lor sia gita altera de l'amoroso mio felice danno; e vedesse anche la mia gloria vera quanta i begli occhi luce e forza hanno di far beata altrui, benché si pèra.