Eri tu schivo, Gesù Bambino, un giorno, e come me piccino? E che sentivi a vivere fuori dei Cieli, e proprio come io vivo? Pensavi mai le cose di lassù, dove fossero gli angeli chiedevi? Io al tuo posto avrei pianto Per la mia casa fatta di cielo; io cercherei dintorno a me, nell'aria: "gli angeli dove sono? ", chiederei e destandomi mi dispererei che non vi fosse un angelo a vestirmi! Anche tu possedevi dei balocchi, come li abbiamo noi, bimbe e bambini? E giocavi nei Cieli con tutti gli angeli non troppo alti, con le stelle a piastrella? Si giocava a rimpiattino, dietro le loro ali? Tua Madre ti lasciava sciupare le tue vesti Sul nostro suol giocando? Come bello serbarle sempre nuove, per i Cieli d'azzurro sempre tersi! T'inginocchiavi, a notte, per pregare, e le tue mani, come noi, giungevi? E a volte erano stanche, le manine, e assai lunga sembrava la preghiera? E ti piace così, che noi giungiamo Le nostre mani per pregare a te? A me sembrava, avanti io lo sapessi, che la preghiera solo così vale. E tua Madre, la sera, ti baciava, i tuoi panni piegandoti con cura? Non ti sentivi proprio buono, a letto, baciato e quieto, dette le orazioni?
A tuo Padre la mia preghiera mostra (Egli la guarderà, sei così bello! ), e digli "O Padre, io, io il Figlio tuo, ti reco la preghiera di un bambino". Sorriderà, che la lingua dei bimbi Sia la stessa di quando eri tu un bimbo!
Udite: il campo di Afrodite occhi vivaci o delle Grazie noi ariamo, muovendo al tempio ombelico della terra altitonante; qui, agli Emmenidi felici, alla fluviale Agrigento e a Senocrate, per la vittoria pitica, è costruito, nella valle ricca d'oro di Apollonia, un tesoro di inni, che mai la pioggia invernale - esercito irruento e spietato di nuvola risonante - né il vento con detriti confusi percuotendolo sospingeranno negli abissi del mare. Nella luce pura, la sua fronte annuncerà nei discorsi dei mortali, o Trasibulo, la vittoria illustre, comune a tuo padre e alla stirpe, riportata col carro nelle valli di Crisa. Nella mano destra serbandolo, tu guidi dritto il precetto che una volta - narrano - sui monti il figlio di Filira impartì al Pelide, separato dai suoi genitori: tra gli dèi, onorare soprattutto il figlio di Crono, dalla voce grave, signore dei lampi e dei fulmini; e non privare mai di questo onore i genitori per la vita che loro è destinata. In altro tempo, sentimenti simili nutriva il forte Antiloco, che morì per il padre, affrontando Memnone sterminatore, re degli Etiopi. Colpito da frecce di Paride, bloccava un cavallo il carro di Nestore. Protese Memnone la lancia possente. Turbata, la mente del vecchio Messenio gridò il nome del figlio. A terra non cadde la sua parola. Lì resistendo, l'uomo divino comprò con la sua morte la vita del padre; e compiuta l'impresa immane, egli parve ai più giovani della stirpe antica il più grande per virtù verso i genitori. Ma questo è passato. Dei giovani di ora, più di tutti Trasibulo procede secondo la norma paterna e segue lo zio in ogni splendore. Con senno egli usa la ricchezza, e coglie una giovinezza non ingiusta né tracotante; ma negli antri delle Pieridi coltiva la poesia e a te, Scuotitore della terra, che governi le gare dei cavalli, o Poseidone, si dedica, con animo fervente. Dolce anche nei rapporti conviviali, la sua indole supera l'opera traforata delle api.
Al momento opportuno dovevi, animo mio, coglier l'amore, in giovinezza. Ma guardando i raggi che dagli occhi di Teosseno balenano, chi non trabocca di desiderio, ha il cuore nero temprato nell'acciaio o nel ferro con gelida fiamma. Disprezzato da Afrodite pupille vivaci, o soffre pene violente per ottenere guadagni, o, servo di tracotanza femminile, freddo percorre ogni sentiero. Ma io, a causa di lei, come la cera delle api sacre morsa dal calore, mi consumo, quando guardo la giovinezza degli adolescenti dalle membra floride. In Tenedo, certo, Peito e Grazia abitano nel figlio di Agesilas.
Ma ecco omai l'ora fatale è giunta che 'l viver di Clorinda al suo fin deve. Spinge egli il ferro nel bel sen di punta che vi s'immerge e 'l sangue avido beve; e la veste, che d'or vago trapunta le mammelle stringea tenera e leve, l'empie d'un caldo fiume. Ella già sente morirsi, e 'l piè le manca egro e languente.
Segue egli la vittoria, e la trafitta vergine minacciando incalza e preme. Ella, mentre cadea, la voce afflitta movendo, disse le parole estreme; parole ch'a lei novo un spirto ditta, spirto di fé, di carità, di speme: virtù ch'or Dio le infonde, e se rubella in vita fu, la vuole in morte ancella.
- Amico, hai vinto: io ti perdon... perdona tu ancora, al corpo no, che nulla pave, a l'alma sì; deh! Per lei prega, e dona battesmo a me ch'ogni mia colpa lave. - In queste voci languide risuona un non so che di flebile e soave ch'al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza, e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza.
Poco quindi lontan nel sen del monte scaturia mormorando un picciol rio. Egli v'accorse e l'elmo empié nel fonte, e tornò mesto al grande ufficio e pio. Tremar sentì la man, mentre la fronte non conosciuta ancor sciolse e scoprio. La vide, la conobbe, e restò senza e voce e moto. Ahi vista! Ahi conoscenza!
Non morì già, ché sue virtuti accolse tutte in quel punto e in guardia al cor le mise, e premendo il suo affanno a dar si volse vita con l'acqua a chi co 'l ferro uccise. Mentre egli il suon dè sacri detti sciolse, colei di gioia trasmutossi, e rise; e in atto di morir lieto e vivace, dir parea: "S'apre il cielo; io vado in pace. "
D'un bel pallore ha il bianco volto asperso, come à gigli sarian miste viole, e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso sembra per la pietate il cielo e 'l sole; e la man nuda e fredda alzando verso il cavaliero in vece di parole gli dà pegno di pace. In questa forma passa la bella donna, e par che dorma.
Accogliete benigni, o colle, o fiume, albergo de le Grazie alme e d'Amore, quella ch'arde del vostro alto signore, e vive sol de' raggi del suo lume; e, se fate ch'amando si consume men aspramente il mio infiammato core, pregherò che vi sieno amiche l'ore, ogni ninfa silvestre ed ogni nume e lascerò scolpita in qualche scorza la memoria di tanta cortesia quando di lasciar voi mi sarà forza. Ma, lassa, io sento che la fiamma mia, che devrebbe scemar, più si rinforza, e più ch'altrove qui s'ama e disia
Mentr'io conto fra me minutamente le doti del mio conte a parte a parte, nobilitate, bellezza, ingegno ed arte, che lo fan chiaro sovra l'altra gente, tale e tanto piacer l'anima sente, che, sendo tutte le sue virtù sparte, mi meraviglio come non si parte, volando al ciel per starci eternamente. E certo v'anderia, se non temesse che restasse il suo ben da lei diviso, e men beato il suo stato rendesse; perché 'l suo vero e proprio paradiso, quello che per bearsi ella si elesse, è 'l mio dolce signor e 'l suo bel viso.
Rivolgete talor pietoso gli occhi da le vostre bellezze a le mie pene, sì che quant'alterezza indi vi viene, tanta quindi pietate il cor vi tocchi. Vedrete qual martìr indi mi fiocchi, vedrete vòte le faretre e piene, che preste a' danni miei sempre Amor tiene, quando avien che ver' me l'arco suo scocchi. E forse la pietà del mio tormento vi moverà, dov'or ne gite altero, non lo vedendo voi, qual io lo sento; così pensosa io meno, e men voi fiero ritornerete, e cento volte e cento benedirete i ciel che mi vi diêro
Che meraviglia fu, s'al primo assalto, giovane e sola, io restai presa al varco, stando Amor quindi con gli strali e l'arco, e ferendo per mezzo, or basso or alto, indi 'l signor che 'n rime orno ed essalto quanto più posso, e 'l mio dir resta parco, con due occhi, anzi strai, che spesso incarco han fatto al sole e con un cor di smalto? Ed essendo da lato anche imboscate, sì ch'a modo nessun fess'io difesa, alla virtute e chiara nobiltate? Da tanti e ta' nemici restai presa; né mi duol, pur che l'alma mia beltate, or che m'ha vinta, non faccia altra impresa
Vieni, Amor, a veder la gloria mia, e poi la tua; ché l'opra de' tuoi strali ha fatto ambeduo noi chiari, immortali, ovunque per Amor s'ama e disia. Chiara fe' me, perché non fui restia ad accettar i tuoi colpi mortali, essendo gli occhi, onde fui presa, quali natura non fe' mai poscia, né pria; chiaro fe' te, perché a lodarti vegno quanto più posso in rime ed in parole con quella, che m'hai dato, vena e ingegno. Or a te si convien far che quel sole, che mi desti per guida e per sostegno, non lasci oscure queste luci e sole.