Io porto tanto amore a una crocetta d'oro che s'apre sul mio cuore. È un tenue lavoro, non è un ricordo, no; come l'ebbi ignoro. Io l'amo poiché so che croce fu dolore, e assai ne spasimò un mio dolce Signore.
Perché tu mi dici: poeta? Io non sono un poeta. Io non sono che un piccolo fanciullo che piange. Vedi: non ha che le lagrime da offrire al Silenzio. Perché tu mi dici: poeta? Le mie tristezze sono povere tristezze comuni. Le mie gioie furono semplici, sempilci così, che se io dovessi confessarle a te arrossirei. Oggi io penso a morire. Io voglio morire, solamente perché sono stanco; solamente perché i grandi angioli su le vetrate delle cattedrali mi fanno tremare d'amore e di angoscia; solamente perché, io sono, oramai, rassegnato come uno specchio, come un povero specchio melanconico. Vedi che io non sono un poeta: sono un fanciullo triste che ha voglia di morire. Oh, non meravigliarti della mia tristezza! E non domandarmi; io non saprei dirti che parole così vane, Dio mio così vane, che mi verrebbe da piangere come se fossi per morire. Le mie lagrime avrebbero l'aria di sgranare un rosario di tristezza davanti alla mia anima sette volte dolente ma io non sarei un poeta; sarei semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme. Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù. E i sacerdoti del silenzio sono i romori, poiché senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio. Questa notte ho dormito con le mani in croce. Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo dimenticato da tutti gli umani, povera tenera preda del primo venuto; e desiderai di essere venduto, di essere battuto di essere costretto a digiunare per potermi mettere a piangere tutto tutto solo, disperatamente triste, in un angolo oscuro. Io amo la vita semolice delle cose. Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco, per ogni cosa che se ne andava! Ma tu non mi comprendi e sorridi. E pensi che io sia malato. Oh, io sono veramente malato! E muoio, un poco, ogni giorno. Vedi: come le cose. Non sono, dunque, un poeta: io so che per esser detto: poeta, conviene viver ben altra vita! Io non so, Dio mio, che morire. Amen.
Sbattuto dalle onde. E in Salmidesso, nudo, lo accolgano benevolmente i Traci dall'alto ciuffo - di molti mali, qui, colmerà la misura, mangiando il pane della schiavitù - lui, irrigidito dal gelo. E fuor della schiuma sia tutto coperto di alghe, e batta i denti, come un cane giacendo bocconi per lo sfinimento lungo la battigia. Questi mali vorrei incontrasse chi m'offese, chi calpestò i giuramenti, l'amico d'un tempo.
Lo avrai camerata Kesserling il monumento che pretendi da noi italiani ma con che pietra si costruirà a deciderlo tocca a noi non con i sassi affumicati dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio non con la terra dei cimiteri dove i nostri compagni giovinetti riposano in serenità non con la neve inviolata delle montagne che per due inverni ti sfidarono non con la primavera di queste valli che ti vide fuggire ma soltanto con il silenzio dei torturati più duro d'ogni macigno soltanto con la roccia di questo patto giurato fra uomini liberi che volontari si adunarono per dignità non per odio decisi a riscattare la vergogna e il terrore del mondo su queste strade se vorrai tornare ai nostri posti ci ritroverai morti e vivi con lo stesso impegno popolo serrato intorno al monumento che si chiama ora e sempre Resistenza.
Mutando a vicenda la sorte, essi un giorno dimorano presso Zeus, il padre diletto; un altro, nelle cavità della terra, nei recessi di Terapne, compiendo un uguale destino. Questa vita scelse Polluce, più che essere in tutto un dio e abitare nel cielo, poi che era morto Castore in guerra. L'aveva trafitto Ida irato per i buoi, con la punta della lancia di bronzo. Dal Taigeto, spiando, Linceo lo scorse acquattato nel cavo di un tronco di quercia: ché di tutti i mortali egli aveva più acuto lo sguardo. Con corsa veloce subito lo raggiunsero, e ordirono in breve il grande misfatto. Ma dalle mani di Zeus una pena terribile patirono gli Afaretidi. Inseguendo, giunse presto il figlio di Leda; ed essi si opposero a lui presso la tomba del padre. Divelta di qui una pietra levigata, ornamento di Ade, la scagliarono contro il petto a Polluce; ma non lo schiacciarono né lo respinsero. Balzò egli con la lancia veloce, e immerse il bronzo nel fianco a Linceo. Contro Ida scagliò Zeus il suo fulmine, portatore di fuoco, fumoso: insieme essi arsero, in solitudine. Difficile è per i mortali lottare coi più forti. Sùbito il figlio di Tindaro tornò indietro presso il forte fratello: non morto ancora, ma per l'affanno scosso da rantoli convulsi lo trovò. Versando lacrime calde, tra i gemiti, gridò: "Padre Cronide, quale rimedio sarà ai miei dolori? Ordina anche a me, insieme a lui, la morte, o Signore. Per l'uomo privato dei suoi cari perduta è la gloria: nell'affanno, sono pochi i mortali che, fedeli, partecipano alle pene". Così disse. Zeus davanti gli venne e pronunciò queste parole: "Tu sei mio figlio; poi, congiuntosi alla madre tua l'eroe suo sposo stillo il seme mortale. Ma orsù, questa scelta io ti concedo: se evitata la morte e la vecchiezza aborrita, tu vuoi abitare con me nell'Olimpo, con Atena e con Ares dalla lancia nera, è possibile a te questa sorte. Ma se per il fratello combatti, e ogni cosa pensi dividere con lui in parte uguale, metà del tempo vivrai sotto la terra, e metà nelle dimore d'oro del cielo". Così parlò. E Polluce non pose alla mente un duplice pensiero: sciolse l'occhio e poi la voce di Castore dalla cintura di bronzo.
Malvagio, come malvagi sanno esserlo solo i caratteri Sütterlin, si spaparazza su carta lineata. Tutti i bambini stanno lì a leggerlo e poi scappano via e lo raccontano ai coniglietti e i coniglietti muoiono, si estinguono... Per chi dunque l'inchiostro, se non ci saranno più coniglietti?
Quattro uccelli litigarono. Quando l'albero fu tutto spoglio, venne Venere travestita da matita e, in bella grafia, appose la firma sull'Autunno, cambiale in scadenza di turno.
Al piano inferiore una giovane madre dà botte al suo bimbo ogni mezz'ora. Per questo ho venduto il mio orologio affidandomi completamente alla mano severa sotto di me, con le sigarette contate a me accanto; è regolato, il tempo mio.
Il condannato a morte nella sua cella immagina il proprio spazio di quattro metri per quattro come un grande paese. Suppone che i rilievi del pavimento sono gli accidenti del terreno e una lunga fila di formiche è la carovana di automobili che fugge dalla città. Lui è Dio e ha compassione di quelli che si trovano là sotto, di quelli che sono fuori, perché non hanno tempo per sognare e hanno bisogno di molti oggetti per sentirsi bene. S'inventa una storia e ci si diverte con la libertà che manca agli umani. Ride. Con la pena capitale fissata per il giorno dopo possiede un altro vantaggio sul mondo: conosce l'ora esatta della propria morte.