Voi, che 'n marmi, in colori, in bronzo, in cera imitate e vincete la natura, formando questa e quell'altra figura, che poi somigli a la sua forma vera, venite tutti in graziosa schiera a formar la più bella creatura, che facesse giamai la prima cura, poi che con le sue man fè la primiera. Ritraggete il mio conte, e siavi a mente qual è dentro ritrarlo, e qual è fore; sì che a tanta opra non manchi niente. Fategli solamente doppio il core, come vedrete ch'egli ha veramente il suo e 'l mio, che gli ha donato Amore.
Quando i' veggio apparir il mio bel raggio, parmi veder il sol, quand'esce fòra; quando fa meco poi dolce dimora, assembra il sol che faccia suo viaggio. E tanta nel cor gioia e vigor aggio, tanta ne mostro nel sembiante allora, quanto l'erba, che pinge il sol ancora a mezzo giorno nel più vago maggio. Quando poi parte il mio sol finalmente, parmi l'altro veder, che scolorita lasci la terra andando in occidente. Ma l'altro torna e rende luce e vita; e del mio chiaro e lucido oriente è 'l tornar dubbio e certa la partita.
Chiaro e famoso mare, sovra 'l cui nobil dosso si posò 'l mio signor, mentre Amor volle; rive onorate e care (con sospir dir lo posso), che 'l petto mio vedeste spesso molle; soave lido e colle, che con fiato amoroso udisti le mie note, d'ira e di sdegno vòte, colme d'ogni diletto e di riposo; udite tutti intenti il suon or degli acerbi miei lamenti. Ì dico che dal giorno che fece dipartita l'idolo, ond'avean pace i miei sospiri, tolti mi fûr d'attorno tutti i ben d'esta vita; e restai preda eterna dè martìri: e, perch'io pur m'adiri e chiami Amor ingrato, che m'involò sì tosto il ben ch'or sta discosto, non per questo a pietade è mai tornato; e tien l'usate tempre, perch'io mi sfaccia e mi lamenti sempre. Deh fosse men lontano almen chi move il pianto, e chi move le giuste mie querele! Ché forse non invano m'affligerei cotanto, e chiamerei Amor empio e crudele, ch'amaro assenzio e fele dopo quel dolce cibo mi fè, lassa, gustare in tempre aspre ed amare. O duro tòsco, che 'n amor delibo, perché fai sì dogliosa la vita mia, che fu già sì gioiosa? Almen, poi che m'è lunge il mio terrestre dio, che sì lontano ancor m'apporta guai, il duol che sì mi punge non mandasse in oblio, e l'udisse ei, per cui piansi e cantai: men acerbi i miei lai, men cruda la mia pena, men fiero il mio tormento, che giorno e notte sento, fôra per la sua luce alma e serena; e sariami 'l dispetto dolce sovra ogni dolce alto diletto. S'egli è pur la mia stella, e se s'accorda il cielo, ch'io moia per cagion così gradita, venga Morte, e con ella Amor, e questo velo tolgan, ed esca fuor l'alma smarrita; che, da suo albergo uscita, volerà lieta in parte, dove s'avrà mercede de la sua viva fede, fede d'esser cantata in mille carte. Ma, lassa, a che non torna chi le tenebre mie con gli occhi adorna? Se tu fossi contenta, canzon, come sei mesta, n'andresti chiara in quella parte e 'n questa.
In alto, in alto, nel çiel, Dove una volta ai me veci, E anca ai tui, Franco Lattes!, Se mostrava el Signor, Vola una cagna. [...] Alegri, dunque, compagni, Alegro, Lattes!, El progresso trionfa. Vardando, o pensando, a una cagna, Nò coremo quei ris-ci.
Ascolto Istanbul ad occhi chiusi Spira una leggera brezza dapprima Lentamente oscillano Le foglie sugli alberi Da lontano, molto lontano I perenni trilli degli acquaioli Ascolto Istanbul ad occhi chiusi.
Ascolto Istanbul ad occhi chiusi E mentre passano gli uccelli A stormi e stridii dall'alto Le reti si ritirano dalle chiuse I piedi di una donna sfiorano l'acqua Ascolto Istanbul ad occhi chiusi.
Ascolto Istanbul ad occhi chiusi Sono freschi i bazar Allegro Mahmut pascià Pieni di colombi i cortili Pervengono battiti di martello dai bacini Dalla dolce brezza primaverile odori di sudore Ascolto Istanbul ad occhi chiusi.
Ascolto Istanbul ad occhi chiusi Ebbra di passati favori Una villa dalle darsena buie Fra il mugghio dell'acquietato scirocco Ascolto Istanbul ad occhi chiusi.
Ascolto Istanbul ad occhi chiusi Passa una fraschetta sul marciapiede Imprecazioni, motivetti, canzoni, frizzi Dalla sua mano cade qualcosa sul selciato Dev'essere una rosa Ascolto Istanbul ad occhi chiusi.
Ascolto Istanbul ad occhi chiusi Ai suoi piedi si dibatte un uccello Non so se la tua fronte scotti o no Non so se le tue labbra siano umide o no Dietro i pistacchi nasce una luna candida Lo percepisco dai battiti del tuo cuore Ascolto Istanbul.
O Betlemme, città del Natale, dunque è ritornato il tempo in cui devi tu rallegrare il nuovo il mondo, il mondo universo. Quei che credono e quei che non vogliono battere la via angusta della croce, si trovano insieme, comunque, a Betlemme.
Ahi, forse il Verbo di Verità è per certuni soltanto una bella, una vecchia leggenda! Eppure quella prima notte, quel primo Natale negli anni remoti di Erode, torna a loro nella mente ogni anno, quando le campane suonano per Natale, e debbono anche loro guardare indietro, nei secoli.
Ancorché pene e fatiche e vanità e bugie riempiano l'andar lento dei giorni vien pure alla fine una notte santa, una notte che sorge in un altro mondo; e quando l'anno declina tardo, giunge come la neve di Dio, una neve di pace sulla terra.
O neve natalizia di Betlemme, cadi soavemente in morbide falde, e semina il grano che deve germinare nei campi dell'eternità. Fà cadere in silenzio candidi semi nei cuori oscuri e freddi, intirizziti dal freddo della notte.
O Bambino Gesù, sulla paglia del presepio fà tacere le voci del mondo. Non c'è luogo nel mondo dove abiterei più contento: portami via dai rischi e dalle cadute, dammi casa a Betlemme, presso di te, santa Maria.
Al nostro re Teopompo, caro agli dèi, per merito del quale conquistammo Messene, dalle ampie contrade ... Messene, luogo bello per arare, bello per piantare ... intorno ad essa combatterono per diciannove anni, sempre, senza interruzione, con animo coraggioso, i guerrieri, padri dei nostri padri. E nel ventesimo anno, lasciati i pingui campi,
Per un uomo valoroso è bello cadere morto combattendo in prima fila per la patria; abbandonare la propria città e i fertili campi e vagare mendico, è di tutte la sorte più misera, con la madre errando e con il vecchio padre, con i figli piccoli e la moglie. Sarà odioso alla gente presso cui giunge, cedendo al bisogno e alla detestata povertà: disonora la stirpe, smentisce il florido aspetto; disprezzo e sventura lo seguono. Se, così, dell'uomo randagio non vi è cura, né rispetto, neppure in futuro per la sua stirpe, con coraggio per questa terra combattiamo, e per i figli andiamo a morire, senza più risparmiare la vita.
Talor, mentre cammino per le strade della città tumultuosa solo, mi dimentico il mio destino d'essere uomo tra gli altri, e, come smemorato, anzi tratto fuor di me stesso, guardo la gente con aperti estranei occhi.
M'occupa allora un puerile, un vago senso di sofferenza ed ansietà come per mano che mi opprima il cuore. Fronti calve di vecchi, inconsapevoli occhi di bimbi, facce consuete di nati a faticare e a riprodursi, facce volpine stupide beate, facce ambigue di preti, pitturate facce di meretrici, entro il cervello mi s'imprimono dolorosamente. E conosco l'inganno pel qual vivono, il dolore che mise quella piega sul loro labbro, le speranze sempre deluse, e l'inutilità della loro vita amara e il lor destino ultimo, il buio.
Ché ciascuno di loro porta seco la condanna d'esistere: ma vanno dimentichi di ciò e di tutto, ognuno occupato dall'attimo che passa, distratto dal suo vizio prediletto.
Provo un disagio simile a chi veda inseguire farfalle lungo l'orlo d'un precipizio, od una compagnia di strani condannati sorridenti. E se poco ciò dura, io veramente in quell'attimo dentro m'impauro a vedere che gli uomini son tanti.