Poesie d'Autore


Scritta da: Silvana Stremiz
in Poesie (Poesie d'Autore)

Lettera alla madre

"Mater dolcissima, ora scendono le nebbie,
il Naviglio urta confusamente sulle dighe,
gli alberi si gonfiano d'acqua, bruciano di neve;
non sono triste nel Nord: non sono
in pace con me, ma non aspetto
perdono da nessuno, molti mi devono lacrime
da uomo a uomo. So che non stai bene, che vivi
come tutte le madri dei poeti, povera
e giusta nella misura d'amore
per i figli lontani. Oggi sono io
che ti scrivo. " - Finalmente, dirai, due parole
di quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto
e alcuni versi in tasca. Povero, così pronto di cuore
lo uccideranno un giorno in qualche luogo. -
"Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo
di treni lenti che portavano mandorle e arance,
alla foce dell'Imera, il fiume pieno di gazze,
di sale, d'eucalyptus. Ma ora ti ringrazio,
questo voglio, dell'ironia che hai messo
sul mio labbro, mite come la tua.
Quel sorriso m'ha salvato da pianti e da dolori.
E non importa se ora ho qualche lacrima per te,
per tutti quelli che come te aspettano,
e non sanno che cosa. Ah, gentile morte,
non toccare l'orologio in cucina che batte sopra il muro
tutta la mia infanzia è passata sullo smalto
del suo quadrante, su quei fiori dipinti:
non toccare le mani, il cuore dei vecchi.
Ma forse qualcuno risponde? O morte di pietà,
morte di pudore. Addio, cara, addio, mia dolcissima mater."
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    Scritta da: Silvana Stremiz
    in Poesie (Poesie d'Autore)

    Povero Catullo

    Povero Catullo, smetti di vaneggiare,
    e quello che vedi  perduto, consideralo perduto.
    Brillarono un tempo per te giorni luminosi,
    quando andavi dovunque ti conduceva lei,
    amata da noi quanto non sarà amata mai nessuna.
    Lì allora si facevano quei tanti giochi d'amore,
    che tu volevi e a cui lei non si negava.
    Brillarono davvero per te un tempo giorno luminosi.
    Ora lei non vuole più: Anche tu non volere, benché incapace di dominarti.
    Non correre dietro a chi fugge, e non essere infelice,
    ma con cuore risoluto resisti, non cedere.
    Addio, fanciulla, ormai Catullo resiste,
    non ti verrà a cercare, non pregherà più te che non vuoi;
    ma tu ti dorrai se non sarai cercata.
    Sciagurata, povera te! Che vita ti aspetta?
    Chi verrà da te ora? Chi ti vedrà bella?
    Chi amerai ? Di chi dirai di essere?
    Chi bacerai? A chi morderai le labbra?
    Ma tu , Catullo, resisti, non cedere.
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      in Poesie (Poesie d'Autore)

      Quegli mi appare esser proprio un dio

      Quegli mi appare esser proprio un dio,
      anzi, se fosse lecito, egli è sopra un dio,
      perché seduto in fronte a te,
      lui se ne sta tranquillo a guardarti e ascoltarti,
      mentre sorridi dolce:
      e invece a me, infelice, svelli del tutto i sentimenti.
      Ché non appena ti vedo, Lesbia, non mi sopravvive un filo di voce.
      Ma s'intorpida la lingua, e una fiamma sottile mi scorre entro le membra,
      le orecchie dentro mi ronzano cupe, e la notte ricopre entrambi i miei lumi.
      Catullo, il tempo libero è la tua rovina, ché troppo ti esalta e ti eccita.
      L'ozio ha distrutto anche re e città un tempo felici.
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        Scritta da: Silvana Stremiz
        in Poesie (Poesie d'Autore)

        Per l'Anno dei Folli (preghiera)

        O Maria, fragile madre,
        ascoltami, ascoltami adesso
        anche se non so le tue parole.
        Ho in mano il nero rosario, con il suo Cristo d'argento,
        non è prediletto da Dio
        perché io sono l'infedele.
        Ciascuno dei grani è tondo e duro tra le mie dita,
        è un piccolo angelo nero.
        O Maria, concedimi questa grazia,
        concedimi di cambiare,
        sebbene io sia brutta,
        sommersa dal mio stesso passato,
        dalla mia stessa follia.
        Anche se ci sono delle sedie
        io sono sdraiata sul pavimento.
        Solo le mie mani sono salve
        toccando i grani del rosario.
        Una parola dopo l'altra, ci incespico dentro.
        Una principiante, sento la tua bocca toccare la mia.

        Conto i grani come se fossero onde
        che mi martellano contro,
        saperne il numero mi fa ammalare,
        afflitta, afflitta nel cuore dell'estate
        e la finestra sopra di me
        è la sola che mi ascolta, il mio essere goffo.
        Dà in abbondanza, è rilassante.
        L'elargitrice del respiro
        lei, mormora,
        i suoi polmoni esalano come quelli di un enorme pesce.

        Sempre più vicina
        è l'ora della mia morte
        mentre mi risistemo il volto, divento come prima,
        come prima dello sviluppo, con i capelli diritti.
        Tutto ciò è morte.
        Nella mente vi è un esile vicolo chiamato morte
        ed io mi muovo lungo di esso come
        nuotando nell'acqua.
        Il mio corpo è inutile.
        È disteso, accucciato come un cane su un tappeto.
        Si è arreso.
        Qui non ci sono parole se non quelle apprese a metà,
        l'Ave Maria e piena di grazia.
        Ora sono entrata nell'anno senza parole.
        Noto la strana entrata e l'esatto voltaggio.
        Esistono senza parole.
        Senza parole una può toccare il pane
        e riceverlo
        senza emettere alcun suono.

        O Maria, tenero medico, vieni con polveri ed erbe
        perché sono nel centro.
        È veramente piccolo e l'aria è grigia
        come in una casa a vapore.
        Mi porgono del vino come a un bambino si porge del latte.
        Appare in un bicchiere di delicata fattura,
        con la boccia circolare e l'orlo sottile.
        Il vino ha un colore denso, muffa e segreto.
        Il bicchiere si solleva da solo tendendo verso la mia bocca
        e me ne accorgo e lo capisco
        soltanto perché è successo.

        Io ho questa paura di tossire
        ma non parlo,
        la paura della pioggia, la paura del cavaliere
        che arriva galoppando nella mia bocca.
        Il bicchiere si inclina da solo
        e io prendo fuoco.
        Vedo due sottili righe che mi bruciano rapide giù per il mento.
        Mi vedo come se mi vedesse un altro.
        Sono stata tagliata in due.

        O Maria, apri le tue palpebre,
        io sono nel dominio del silenzio,
        nel regno della pazzia e del sonno.
        C'è sangue qui
        ed io l'ho mangiato.
        O madre del grembo,
        sono venuta soltanto per il sangue?
        O piccola madre
        Sono dentro i miei pensieri.
        Sono rinchiusa nella casa sbagliata.
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          Scritta da: Silvana Stremiz
          in Poesie (Poesie d'Autore)
          Altri mai foco, stral, prigione o nodo
          sì vivo e acuto, e sì aspra e sì stretto
          non arse, impiagò, tenne e strinse il petto,
          quanto 'l mì ardente, acuto, acerba e sodo.
          Né qual io moro e nasco, e peno e godo,
          mor'altra e nasce, e pena ed ha diletto,
          per fermo e vario e bello e crudo aspetto,
          che 'n voci e 'n carte spesso accuso e lodo.
          Né fûro ad altrui mai le gioie care,
          quanto è a me, quando mi doglio e sfaccio,
          mirando a le mie luci or fosche or chiare.
          Mi dorrà sol, se mi trarrà d'impaccio,
          fin che potrò e viver ed amare,
          lo stral e 'l foco e la prigione e 'l laccio.
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            Scritta da: Silvana Stremiz
            in Poesie (Poesie d'Autore)
            Arbor felice, aventuroso e chiaro.
            Onde i due rami sono al mondo nati,
            che vanno in alto, e son già tanto alzati,
            quanto raro altri rami unqua s'alzâro:
            rami che vanno ai grandi Scipi a paro,
            o s'altri fûr di lor mai più lodati
            (ben lo sanno i miei occhi fortunati,
            che per bearsi in un d'essi miraro),
            a te, tronco, a voi rami, sempre il cielo
            piova rugiada, sì che non v'offenda
            per avversa stagion caldo, né gelo.
            La chioma vostra e l'ombra s'apra e stenda
            verde per tutto; e d'onorato zelo
            odor, fior, frutti a tutt'Italia renda.
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              Scritta da: Silvana Stremiz
              in Poesie (Poesie d'Autore)
              Se così come sono abietta e vile
              donna, posso portar sì alto foco,
              perché non debbo aver almeno un poco
              di ritraggerlo al mondo e vena e stile?
              S'Amor con novo, insolito focile,
              ov'io non potea gir, m'alzò a tal loco,
              perché non può non con usato gioco
              far la pena e la penna in me simìle?
              E, se non può per forza di natura,
              puollo almen per miracolo, che spesso
              vince, trapassa e rompe ogni misura.
              Come ciò sia non posso dir espresso;
              io provo ben che per mia gran ventura
              mi sento il cor di novo stile impresso.
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                Scritta da: Silvana Stremiz
                in Poesie (Poesie d'Autore)
                Deh, perché così tardo gli occhi apersi
                nel divin, non umano amato volto,
                ond'io scorgo, mirando, impresso e scolto
                un mar d'alti miracoli e diversi?
                Non avrei, lassa, gli occhi indarno aspersi
                d'inutil pianto in questo viver stolto,
                né l'alma avria, com'ha, poco né molto
                di Fortuna o d'Amore onde dolersi.
                E sarei forse di sì chiaro grido,
                che, mercé de lo stil, ch'indi m'è dato,
                risoneria fors'Adria oggi, e 'l suo lido.
                Ond'io sol piango il mio tempo passato,
                mirando altrove; e forse anche mi fido
                di far in parte il foco mio lodato.
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                  Scritta da: Silvana Stremiz
                  in Poesie (Poesie d'Autore)
                  Chi vuol conoscer, donne, il mio signore,
                  miri un signor di vago e dolce aspetto,
                  giovane d'anni e vecchio d'intelletto,
                  imagin de la gloria e del valore:
                  di pelo biondo, e di vivo colore,
                  di persona alta e spazioso petto,
                  e finalmente in ogni opra perfetto,
                  fuor ch'un poco (oimè lassa! ) empio in amore.
                  E chi vuol poi conoscer me, rimiri
                  una donna in effetti ed in sembiante
                  imagin de la morte e dè martiri,
                  un albergo di fé salda e costante,
                  una, che, perché pianga, arda e sospiri,
                  non fa pietoso il suo crudel amante.
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