"Mater dolcissima, ora scendono le nebbie, il Naviglio urta confusamente sulle dighe, gli alberi si gonfiano d'acqua, bruciano di neve; non sono triste nel Nord: non sono in pace con me, ma non aspetto perdono da nessuno, molti mi devono lacrime da uomo a uomo. So che non stai bene, che vivi come tutte le madri dei poeti, povera e giusta nella misura d'amore per i figli lontani. Oggi sono io che ti scrivo. " - Finalmente, dirai, due parole di quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto e alcuni versi in tasca. Povero, così pronto di cuore lo uccideranno un giorno in qualche luogo. - "Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo di treni lenti che portavano mandorle e arance, alla foce dell'Imera, il fiume pieno di gazze, di sale, d'eucalyptus. Ma ora ti ringrazio, questo voglio, dell'ironia che hai messo sul mio labbro, mite come la tua. Quel sorriso m'ha salvato da pianti e da dolori. E non importa se ora ho qualche lacrima per te, per tutti quelli che come te aspettano, e non sanno che cosa. Ah, gentile morte, non toccare l'orologio in cucina che batte sopra il muro tutta la mia infanzia è passata sullo smalto del suo quadrante, su quei fiori dipinti: non toccare le mani, il cuore dei vecchi. Ma forse qualcuno risponde? O morte di pietà, morte di pudore. Addio, cara, addio, mia dolcissima mater."
Mia Lesbia sei stata amata da me in modo così totale che in modo uguale amata non c'è donna e non ci sarà. Non si vedrà mai più in amorosi legami tanto rigore di fedeltà quanto si vide in me nell'amore che ti portai.
Povero Catullo, smetti di vaneggiare, e quello che vedi perduto, consideralo perduto. Brillarono un tempo per te giorni luminosi, quando andavi dovunque ti conduceva lei, amata da noi quanto non sarà amata mai nessuna. Lì allora si facevano quei tanti giochi d'amore, che tu volevi e a cui lei non si negava. Brillarono davvero per te un tempo giorno luminosi. Ora lei non vuole più: Anche tu non volere, benché incapace di dominarti. Non correre dietro a chi fugge, e non essere infelice, ma con cuore risoluto resisti, non cedere. Addio, fanciulla, ormai Catullo resiste, non ti verrà a cercare, non pregherà più te che non vuoi; ma tu ti dorrai se non sarai cercata. Sciagurata, povera te! Che vita ti aspetta? Chi verrà da te ora? Chi ti vedrà bella? Chi amerai ? Di chi dirai di essere? Chi bacerai? A chi morderai le labbra? Ma tu , Catullo, resisti, non cedere.
Quegli mi appare esser proprio un dio, anzi, se fosse lecito, egli è sopra un dio, perché seduto in fronte a te, lui se ne sta tranquillo a guardarti e ascoltarti, mentre sorridi dolce: e invece a me, infelice, svelli del tutto i sentimenti. Ché non appena ti vedo, Lesbia, non mi sopravvive un filo di voce. Ma s'intorpida la lingua, e una fiamma sottile mi scorre entro le membra, le orecchie dentro mi ronzano cupe, e la notte ricopre entrambi i miei lumi. Catullo, il tempo libero è la tua rovina, ché troppo ti esalta e ti eccita. L'ozio ha distrutto anche re e città un tempo felici.
O Maria, fragile madre, ascoltami, ascoltami adesso anche se non so le tue parole. Ho in mano il nero rosario, con il suo Cristo d'argento, non è prediletto da Dio perché io sono l'infedele. Ciascuno dei grani è tondo e duro tra le mie dita, è un piccolo angelo nero. O Maria, concedimi questa grazia, concedimi di cambiare, sebbene io sia brutta, sommersa dal mio stesso passato, dalla mia stessa follia. Anche se ci sono delle sedie io sono sdraiata sul pavimento. Solo le mie mani sono salve toccando i grani del rosario. Una parola dopo l'altra, ci incespico dentro. Una principiante, sento la tua bocca toccare la mia.
Conto i grani come se fossero onde che mi martellano contro, saperne il numero mi fa ammalare, afflitta, afflitta nel cuore dell'estate e la finestra sopra di me è la sola che mi ascolta, il mio essere goffo. Dà in abbondanza, è rilassante. L'elargitrice del respiro lei, mormora, i suoi polmoni esalano come quelli di un enorme pesce.
Sempre più vicina è l'ora della mia morte mentre mi risistemo il volto, divento come prima, come prima dello sviluppo, con i capelli diritti. Tutto ciò è morte. Nella mente vi è un esile vicolo chiamato morte ed io mi muovo lungo di esso come nuotando nell'acqua. Il mio corpo è inutile. È disteso, accucciato come un cane su un tappeto. Si è arreso. Qui non ci sono parole se non quelle apprese a metà, l'Ave Maria e piena di grazia. Ora sono entrata nell'anno senza parole. Noto la strana entrata e l'esatto voltaggio. Esistono senza parole. Senza parole una può toccare il pane e riceverlo senza emettere alcun suono.
O Maria, tenero medico, vieni con polveri ed erbe perché sono nel centro. È veramente piccolo e l'aria è grigia come in una casa a vapore. Mi porgono del vino come a un bambino si porge del latte. Appare in un bicchiere di delicata fattura, con la boccia circolare e l'orlo sottile. Il vino ha un colore denso, muffa e segreto. Il bicchiere si solleva da solo tendendo verso la mia bocca e me ne accorgo e lo capisco soltanto perché è successo.
Io ho questa paura di tossire ma non parlo, la paura della pioggia, la paura del cavaliere che arriva galoppando nella mia bocca. Il bicchiere si inclina da solo e io prendo fuoco. Vedo due sottili righe che mi bruciano rapide giù per il mento. Mi vedo come se mi vedesse un altro. Sono stata tagliata in due.
O Maria, apri le tue palpebre, io sono nel dominio del silenzio, nel regno della pazzia e del sonno. C'è sangue qui ed io l'ho mangiato. O madre del grembo, sono venuta soltanto per il sangue? O piccola madre Sono dentro i miei pensieri. Sono rinchiusa nella casa sbagliata.
Altri mai foco, stral, prigione o nodo sì vivo e acuto, e sì aspra e sì stretto non arse, impiagò, tenne e strinse il petto, quanto 'l mì ardente, acuto, acerba e sodo. Né qual io moro e nasco, e peno e godo, mor'altra e nasce, e pena ed ha diletto, per fermo e vario e bello e crudo aspetto, che 'n voci e 'n carte spesso accuso e lodo. Né fûro ad altrui mai le gioie care, quanto è a me, quando mi doglio e sfaccio, mirando a le mie luci or fosche or chiare. Mi dorrà sol, se mi trarrà d'impaccio, fin che potrò e viver ed amare, lo stral e 'l foco e la prigione e 'l laccio.
Arbor felice, aventuroso e chiaro. Onde i due rami sono al mondo nati, che vanno in alto, e son già tanto alzati, quanto raro altri rami unqua s'alzâro: rami che vanno ai grandi Scipi a paro, o s'altri fûr di lor mai più lodati (ben lo sanno i miei occhi fortunati, che per bearsi in un d'essi miraro), a te, tronco, a voi rami, sempre il cielo piova rugiada, sì che non v'offenda per avversa stagion caldo, né gelo. La chioma vostra e l'ombra s'apra e stenda verde per tutto; e d'onorato zelo odor, fior, frutti a tutt'Italia renda.
Se così come sono abietta e vile donna, posso portar sì alto foco, perché non debbo aver almeno un poco di ritraggerlo al mondo e vena e stile? S'Amor con novo, insolito focile, ov'io non potea gir, m'alzò a tal loco, perché non può non con usato gioco far la pena e la penna in me simìle? E, se non può per forza di natura, puollo almen per miracolo, che spesso vince, trapassa e rompe ogni misura. Come ciò sia non posso dir espresso; io provo ben che per mia gran ventura mi sento il cor di novo stile impresso.
Deh, perché così tardo gli occhi apersi nel divin, non umano amato volto, ond'io scorgo, mirando, impresso e scolto un mar d'alti miracoli e diversi? Non avrei, lassa, gli occhi indarno aspersi d'inutil pianto in questo viver stolto, né l'alma avria, com'ha, poco né molto di Fortuna o d'Amore onde dolersi. E sarei forse di sì chiaro grido, che, mercé de lo stil, ch'indi m'è dato, risoneria fors'Adria oggi, e 'l suo lido. Ond'io sol piango il mio tempo passato, mirando altrove; e forse anche mi fido di far in parte il foco mio lodato.
Chi vuol conoscer, donne, il mio signore, miri un signor di vago e dolce aspetto, giovane d'anni e vecchio d'intelletto, imagin de la gloria e del valore: di pelo biondo, e di vivo colore, di persona alta e spazioso petto, e finalmente in ogni opra perfetto, fuor ch'un poco (oimè lassa! ) empio in amore. E chi vuol poi conoscer me, rimiri una donna in effetti ed in sembiante imagin de la morte e dè martiri, un albergo di fé salda e costante, una, che, perché pianga, arda e sospiri, non fa pietoso il suo crudel amante.