L'esangue primavera già tristemente esilia L'inverno, tempo lucido, tempo d'arte serena, E in me, dove un oscuro sangue colma ogni vena, L'impotenza si stira ed a lungo sbadiglia. Crepuscoli s'imbiancano tiepidi nella mente Che come vecchia tomba serra un cerchio di ferro, Ed inseguendo un sogno vago e bello, io erro Pei campi ove la linfa esulta immensamente. Poi procombo snervato di silvestri sentori, E scavando al mio sogno una fossa col viso, Mordendo il suolo caldo dove, sbocciano i fiori, Attendo nell'abisso che il tedio s'alzi... Oh riso Intanto dell'Azzurro sulla siepe e sui voli Degli uccelli ridesti che cinguettano al sole!
Maurizio, non piangere, non sono qui sotto il pino. L'aria profumata della primavera bisbiglia nell'erba dolce, le stelle scintillano, la civetta chiama, ma tu ti affliggi, e la mia anima si estasia nel nirvana beato della luce eterna! Và dal cuore buono che è mio marito, che medita su ciò che lui chiama la nostra colpa d'amore: - digli che il mio amore per te, e così il mio amore per lui, hanno foggiato il mio destino — che attraverso la carne raggiunsi lo spirito e attraverso lo spirito, pace. Non ci sono matrimoni in cielo, ma c'è l'amore.
La luna rossa, il vento, il tuo colore di donna del Nord, la distesa di neve... Il mio cuore è ormai su queste praterie, in queste acque annuvolate dalle nebbie. Ho dimenticato il mare, la grave conchiglia soffiata dai pastori siciliani, le cantilene dei carri lungo le strade dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie, ho dimenticato il passo degli aironi e delle gru nell'aria dei verdi altipiani per le terre e i fiumi della Lombardia. Ma l'uomo grida dovunque la sorte d'una patria. Più nessuno mi porterà nel Sud. Oh, il Sud è stanco di trascinare morti in riva alle paludi di malaria, è stanco di solitudine, stanco di catene, è stanco nella sua bocca delle bestemmie di tutte le razze che hanno urlato morte con l'eco dei suoi pozzi, che hanno bevuto il sangue del suo cuore. Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti, costringono i cavalli sotto coltri di stelle, mangiano fiori d'acacia lungo le piste nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse. Più nessuno mi porterà nel Sud. E questa sera carica d'inverno è ancora nostra, e qui ripeto a te il mio assurdo contrappunto di dolcezze e di furori, un lamento d'amore senza amore.
Il girasole piega a occidente e già precipita il giorno nel suo occhio in rovina e l'aria dell'estate s'addensa e già curva le foglie e il fumo dei cantieri. S'allontana con scorrere secco di nubi e stridere di fulmini quest'ultimo gioco del cielo. Ancora, e da anni, cara, ci ferma il mutarsi degli alberi stretti dentro la cerchia dei Navigli. Ma è sempre il nostro giorno e sempre quel sole che se ne va con il filo del suo raggio affettuoso.
Non ho più ricordi, non voglio ricordare; la memoria risale dalla morte, la vita è senza fine. Ogni giorno è nostro. Uno si fermerà per sempre, e tu con me, quando ci sembri tardi. Qui sull'argine del canale, i piedi in altalena, come di fanciulli, guardiamo l'acqua, i primi rami dentro il suo colore verde che s'oscura. E l'uomo che in silenzio s'avvicina non nasconde un coltello fra le mani, ma un fiore di geranio.
Dicevi: morte, silenzio, solitudine; come amore, vita. Parole delle nostre provvisorie immagini. E il vento s'è levato leggero ogni mattina e il tempo colore di pioggia e di ferro è passato sulle pietre, sul nostro chiuso ronzio di maledetti. Ancora la verità è lontana. E dimmi, uomo spaccato sulla croce, e tu dalle mani grosse di sangue, come risponderò a quelli che domandano? Ora, ora: prima che altro silenzio entri negli occhi, prima che altro vento salga e altra ruggine fiorisca.
Più i giorni s'allontanano dispersi e più ritornano nel cuore dei poeti. Là i campi di Polonia, la piana dì Kutno con le colline di cadaveri che bruciano in nuvole di nafta, là i reticolati per la quarantena d'Israele, il sangue tra i rifiuti, l'esantema torrido, le catene di poveri già morti da gran tempo e fulminati sulle fosse aperte dalle loro mani, là Buchenwald, la mite selva di faggi, i suoi forni maledetti; là Stalingrado, e Minsk sugli acquitrini e la neve putrefatta. I poeti non dimenticano. Oh la folla dei vili, dei vinti, dei perdonati dalla misericordia! Tutto si travolge, ma i morti non si vendono. Il mio paese è l'Italia, o nemico più straniero, e io canto il suo popolo, e anche il pianto coperto dal rumore del suo mare, il limpido lutto delle madri, canto la sua vita.
E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore, fra i morti abbandonati nelle piazze sull'erba dura di ghiaccio, al lamento d'agnello dei fanciulli, all'urlo nero della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo? Alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre cetre erano appese, oscillavano lievi al triste vento.
Laggiù, ad Auschwitz, lontano dalla Vistola, amore, lungo la pianura nordica, in un campo di morte: fredda, funebre, la pioggia sulla ruggine dei pali e i grovigli di ferro dei recinti: e non albero o uccelli nell'aria grigia o su dal nostro pensiero, ma inerzia e dolore che la memoria lascia al suo silenzio senza ironia o ira. Da quell'inferno aperto da una scritta bianca: " Il lavoro vi renderà liberi " uscì continuo il fumo di migliaia di donne spinte fuori all'alba dai canili contro il muro del tiro a segno o soffocate urlando misericordia all'acqua con la bocca di scheletro sotto le doccie a gas. Le troverai tu, soldato, nella tua storia in forme di fiumi, d'animali, o sei tu pure cenere d'Auschwitz, medaglia di silenzio? Restano lunghe trecce chiuse in urne di vetro ancora strette da amuleti e ombre infinite di piccole scarpe e di sciarpe d'ebrei: sono reliquie d'un tempo di saggezza, di sapienza dell'uomo che si fa misura d'armi, sono i miti, le nostre metamorfosi.
Sulle distese dove amore e pianto marcirono e pietà, sotto la pioggia, laggiù, batteva un no dentro di noi, un no alla morte, morta ad Auschwitz, per non ripetere, da quella buca di cenere, la morte.
Dove sull'acque viola era Messina, tra fili spezzati e macerie tu vai lungo binari e scambi col tuo berretto di gallo isolano. Il terremoto ribolle da due giorni, è dicembre d'uragani e mare avvelenato. Le nostre notti cadono nei carri merci e noi bestiame infantile contiamo sogni polverosi con i morti sfondati dai ferri, mordendo mandorle e mele dissecate a ghirlanda. La scienza del dolore mise verità e lame nei giochi dei bassopiani di malaria gialla e terzana gonfia di fango.
La tua pazienza triste, delicata, ci rubò la paura, fu lezione di giorni uniti alla morte tradita, al vilipendio dei ladroni presi fra i rottami e giustiziati al buio dalla fucileria degli sbarchi, un conto di numeri bassi che tornava esatto concentrico, un bilancio di vita futura.
Il tuo berretto di sole andava su e giù nel poco spazio che sempre ti hanno dato. Anche a me misurarono ogni cosa, e ho portato il tuo nome un po' più in là dell'odio e dell'invidia. Quel rosso del tuo capo era una mitria, una corona con le ali d'aquila. E ora nell'aquila dei tuoi novant'anni ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali di partenza colorati dalla lanterna notturna, e qui da una ruota imperfetta del mondo, su una piena di muri serrati, lontano dai gelsomini d'Arabia dove ancora tu sei, per dirti ciò che non potevo un tempo - difficile affinità di pensieri - per dirti, e non ci ascoltano solo cicale del biviere, agavi lentischi, come il campiere dice al suo padrone: "Baciamu li mani". Questo, non altro. Oscuramente forte è la vita.
Natale. Guardo il presepe scolpito, dove sono i pastori appena giunti alla povera stalla di Betlemme. Anche i Re Magi nelle lunghe vesti salutano il potente Re del mondo. Pace nella finzione e nel silenzio delle figure di legno: ecco i vecchi del villaggio e la stella che risplende, e l'asinello di colore azzurro. Pace nel cuore di Cristo in eterno; ma non v'è pace nel cuore dell'uomo. Anche con Cristo e sono venti secoli il fratello si scaglia sul fratello. Ma c'è chi ascolta il pianto del bambino che morirà poi in croce fra due ladri?