D'oro una penna datemi, e lasciate che in limpidi e lontane regioni sopra mucchi di fiori io mi distenda; portatemi più bianca di una stella o di una mano d'angelo inneggiante quando fra corde argentee la vedi di arpe celesti, un'asse per scrittoio; e lasciate lì accanto correr molti carri color di perla, vesti rosa, e chiome a onda, e vasi di diamante, e ali intraviste, e sguardi penetranti. Lasciate intanto che la musica erri ai miei orecchi d'intorno; e come quella ogni cadenza deliziosa tocca, lasciate che io scriva un verso pieno di molte meraviglie delle sfere, splendido al suono: con che altezze in gara il mio spirito venne! Nè contento è di restare così presto solo.
In fiamme, nell'incendio degli autunni arde a volte il mio cuore, puro e solo. Il vento che lo desta tocca il suo centro e lo sospende nella luce che ride per nessuno: quanta bellezza sparsa!
Anelo mani, una presenza, un corpo, quel che frantuma i muri e fa nascere le forme inebriate, un tocco, un suono, un giro, solo un'ala, celesti frutti della luce nuda.
Nel mio intimo cerco ossa, violini intatti, vertebre oscure e delicate, labbra che sognan labbra, mani sognanti uccelli...
Qualcosa che s'ignora e dice <> cade dal cielo, da te, Dio, mio avversario.
un salice di cristallo, un pioppo d'acqua, un alto getto che il vento inarca, un albero ben piantato ma danzante, un camminar di fiume che si curva, avanza, retrocede, fa un giro e sempre arriva: un camminar tranquillo di stella o primavera senza fretta, acqua che con le palpebre chiuse emette tutta notte profezie, unanime presenza in ondata, onda su onda fino a coprir tutto, verde sovranità senza tramonto come l'abbacinante effetto delle ali quando s'aprono nel mezzo del cielo, (... ) vado per il tuo corpo come per il mondo, il tuo ventre è una spiaggia soleggiata, i tuoi seni due chiese dove il sangue celebra i suoi misteri paralleli, i miei sguardi ti coprono come edera, sei una città che il mare assedia, una muraglia che la luce divide in due metà color di pesca, un luogo di sale, roccia e uccelli sotto la legge del meriggio assorto,
vestita del colore dei miei desideri vai nuda come il mio pensiero, vado pei tuoi occhi come per l'acqua, le tigri bevono sogno nei tuoi occhi, il colibrí si brucia in quelle fiamme, vado per la tua fronte come per la luna, come la nube per il tuo pensiero, vado per il tuo ventre come pei tuoi sogni, la tua gonna di mais ondeggia e canta,
la tua gonna di cristallo, la tua gonna d'acqua, le tue labbra, i capelli, i tuoi sguardi, tutta la notte piovi, tutto il giorno apri il mio petto con le tue dita d'acqua, chiudi i miei occhi con la tua bocca d'acqua, sulle mie ossa piovi, nel mio petto affonda radici d'acqua un albero liquido,
vado per la tua strada come per un fuime, vado per il tuo corpo come per un bosco, come per un sentiero nel monte che in un brusco abisso finisce, vado pei tuoi pensieri assottigliati e all'uscita dalla tua bianca fronte la mia ombra abbattuta si strazia, raccolgo i miei frammenti uno a uno e proseguo senza corpo, cerco tentoni, (... )
—la vita, quando fu davvero nostra? quando siamo davvero ciò che siamo? ben guardato non siamo, mai siamo da soli se non vertigine e vuoto, smorfie nello specchio, orrore e vomito, mai la vita è nostra, è degli altri, la vita non è di nessuno, tutti siamo la vita —pane di sole per gli altri, tutti gli altri che siam noi—, son altro quando sono, i miei atti son piú miei se sono anche di tutti
perché io possa essere devo esser altro, uscire da me, cercarmi tra gli altri, gli altri che non sono s'io non esisto, gli altri che mi dan piena esistenza, non sono, non v'è io, siam sempre noi, la vita è un'altra, sempre là, piú lungi, fuori di te, di me, sempre orizzonte, vita che ci svive e ci fa estranei che ci inventa un volto e lo sciupa, fame d'essere, oh morte, pane di tutti.
Le mie mani aprono la cortina del tuo essere ti vestono con altra nudità scoprono i corpi del tuo corpo le mie mani inventano un altro corpo al tuo corpo.
È un ampio armadio scolpito; l'antica scura quercia ha preso una buon'aria di vecchia gente; l'armadio è aperto, e scioglie dentro l'ombratura come onda di vin vecchio, un profumo attraente.
È un miscuglio di vecchie anticaglie, stipato di panni odorosi e gialli, di straccetti di donne e fanciulli, di appassiti merletti, di scialli di nonna col grifo pitturato;
- Qui trovi ciocche di capelli bianche e bionde, i ritratti, i medaglioni, la frutta e i fiori secchi il cui profumo insieme si confonde.
- Ne sai di storie, o mia credenza d'ore morte! Vorresti dirci i tuoi racconti, e fai rumori se lente s'aprono le grandi nere porte.
Nella sala da pranzo, bruna, profumata di frutta e di vernice, come chi non pensa raccolsi un piatto di non so quale portata belga, e sprofondai nella mia sedia immensa.
Mangiando, udivo il pendolo, - calmo e giulivo. La cucina s'aprì in mezzo a una sbuffata. - Entrò la serva, e chissà per quale motivo, lo scialle sfatto, con malizia pettinata,
ecco il ditino tremante pose e ripose sulla sua guancia, velluto di pesche-rose bianche, e con smorfie del suo labbro bambino
per mio agio, i piatti mi riordinò vicino - poi, - ma certo per prendersi un bacio, - così mi soffiò: "Ho una freddo alla guancia, senti qui... "
I pugni nelle tasche rotte, me ne andavo con il mio pastrano diventato ideale; sotto il cielo andavo, o Musa, a te solidale; oh! Là, là! Quanti splendidi amori sognavo!
La sola braca aveva un largo buco. - In corsa sgranavo rime, Puccetto sognante. E l'Orsa Maggiore era la mia locanda. - Lassù le stelle in cielo avevano un dolce fru fru;
le ascoltavo, seduto ai lati delle strade, nelle sere del buon settembre ove rugiade mi gocciavano in fronte un vino di vigore;
e, rimando in mezzo ai tenebrosi fantastici, come fossero lire, tiravo gli elastici delle mie scarpe ferite, un piede sul cuore!
Io, come un angelo seduto dal barbiere, vivo stringendo uno scanalato bicchiere, collo e ipogastrio curvi, una " Gambier" tra i denti, sotto i cieli gonfi di vele trasparenti.
In me mille sogni, come caldi escrementi di vecchia colombaia, fan dolci bruciature; e il mio tenero cuore è un alburno, a momenti, che il giovane oro insanguina di linfe oscure.
E, quando con cura ho ringoiato ogni sogno, mi volto, bevuti più di trenta bicchieri, e mi raccolgo a mollare l'acre bisogno:
dolce come il Dio del cedro e degli issòpi, io piscio altissimo e lontano contro i neri cieli - approvato dai grandi eliotropi.