O ora, o stella dispietata e cruda, ch'io vidi dipartir la gloria mia, lasciando di beata ch'era pria la vita mia d'ogni suo bene ignuda! Da indi in qua per me si trema e suda, si piagne, si dispera e si disia: e sarà meraviglia, se non fia che morte tosto queste luci chiuda. Che, del lor fatal sol restate senza, altra luce giamai mirar non ponno, che lor non sembri notte e dipartenza. Dunque o lor tosto, Amor, rendi il lor donno, o, per non soffrir più sì dura assenza, tosto le chiudi in sempiterno sonno.
Quando più tardi il sole a noi aggiorna, e quando avien che poi più tardi annotte, quand'ei mostra il crin d'òr, quando la notte mostra la luna l'argentate corna, il mio cor lasso a' suoi sospir ritorna, a le voci, a le lagrime interrotte; sì l'ha tutte ad un segno ricondotte l'assenzia di colui che Francia adorna. E sì caldo disio di rivederlo fra tutt'altri martìr mi preme e punge, che non so come omai più sostenerlo. E duolmi più ch'egli è da me sì lunge, ch'a poter richiamarlo ed a poterlo mover a pièta il mio gridar non giunge.
La mia vita è un mar: l'acqua è 'l mio pianto, i venti sono l'aure dè sospiri, la speranza è la nave, i miei desiri la vela e i remi, che la caccian tanto. La tramontana mia è il lume santo dè miei duo chiari, due stellanti giri, à quai convien ch'ancor lontana ì miri senza timon, senza nocchier a canto. Le perigliose e sùbite tempeste son le teme e le fredde gelosie, al dipartirsi tarde, al venir preste. Bonacce non vi son, perché dal die che voi, conte, da me lontan vi feste, partîr con voi l'ore serene mie.
Deh foss'io certa almen ch'alcuna volta voi rivolgeste a me l'alto pensiero, conte, a cui per mio danno i cieli diêro sì da' lacci d'Amor l'anima sciolta. L'acerba pena mia nel petto accolta, l'empia mercé del dispietato arciero, i sospir, che 'n amor sola mi fêro, avrian triegua talor o poca o molta. Ma 'l sentirmi patir carca di fede, senza muover pietade a chi mi strugge, a chi contento i miei tormenti vede, sì le speranze mie tronca et adugge che, se Dio di rimedio non provede, l'alma per dipartirsi freme e rugge.
La gran sete amorosa che m'afflige, la memoria del ben onde son priva, che mi sta dentro al cor tenace e viva, sì che null'altra più forte s'affige, sovra ogni forza mia move et addige la vena mia per sé muta e restiva, e fa che 'n queste carte adombri e scriva quanto aspramente Amor m'arde e trafige. Chi fa qual noi parlar la muta pica? Chi 'l nero corvo e gli altri muti uccelli? La brama sol di quel che li nutrica. Però s'avien ch'io scriva e ch'io favelli, narrando l'amorosa mia fatica, non son io no, son gli occhi vaghi e belli.
Gli occhi onde mi legasti, Amor, affrena, sì che non veggan mai altra bellezza, altra creanza ed altra gentilezza di belle donne onde la Francia è piena; acciò che quanto ora è dolce ed amena, non sia piena di lagrime e d'asprezza la vita mia, ch'ogn'altra cosa sprezza, fuor che la luce lor chiara e serena. E, s'egli avien che sia lor mostro a sorte, obietto che sia degno esser amato, ed accenda quel cor tenace e forte, ferisci lui col tuo stral impiombato, o con quel d'oro dona a me la morte, perché viver non voglio in tale stato.
Alto colle, gradito e grazioso, novo Parnaso mio, novo Elicona, ove poggiando attendo la corona, de le fatiche mie dolce riposo: quanto sei qui tra noi chiaro e famoso, e quanto sei a Rodano e a Garona, a dir in rime alto disio mi sprona, ma l'opra è tal, che cominciar non oso. Anzi quanto averrà che mai ne canti, fia pura ombra del ver, perciò che 'l vero va di lungo il mio stil e l'altrui innanti. Le tue frondi e 'l tuo giogo verdi e 'ntero conservi 'l cielo, albergo degli amanti. Colle gentil, dignissimo d'impero.
Fugge tra selve spaventose e scure, per lochi inabitati, ermi e selvaggi. Il mover de le frondi e di verzure, che di cerri sentia, d'olmi e di faggi, fatto le avea con subite paure trovar di qua di là strani viaggi; ch'ad ogni ombra veduta o in monte o in valle, temea Rinaldo aver sempre alle spalle.
Con un gran ramo d'albero rimondo, di ch'avea fatto una pertica lunga, tenta il fiume e ricerca sino al fondo, né loco lascia ove non batta e punga. Mentre con la maggior stizza del mondo tanto l'indugio suo quivi prolunga, vede di mezzo il fiume un cavalliero insino al petto uscir, d'aspetto fiero.
Pur si ritrova ancor su la rivera, là dove l'elmo gli cascò ne l'onde. Poi che la donna ritrovar non spera, per aver l'elmo che 'l fiume gli asconde, in quella parte onde caduto gli era discende ne l'estreme umide sponde: ma quello era sì fitto ne la sabbia, che molto avrà da far prima che l'abbia.