Torno, ritrovo il fenomeno della fuga del capitale, l'epifenomeno (infimo) dell'avanguardia. La polizia tributaria (quasi accertamento filosofico sugli incartamenti di un poeta) fruga in quel fatto privato che sono i soldi, contaminati da carità, dolenti di inspiegabili consunzioni, e pieni di senso di colpa, come il corpo da ragazzi: però con mia gongolante leggerezza perché qua, non c'è da accertare nulla, se non la mia ingenuità. Torno, e trovo milioni di uomini occupati soltanto a vivere come barbari discesi da poco su una terra felice, estranei ad essa, e suoi possessori. Così nella vigilia della Preistoria che a tutto ciò darà senso, riprendo a Roma le mie abitudini di bestia ferita, che guarda negli occhi, godendo del morire, i suoi feritori….
Mi domando che madri avete avuto. Se ora vi vedessero al lavoro in un mondo a loro sconosciuto, presi in un giro mai compiuto d'esperienze così diverse dalle loro, che sguardo avrebbero negli occhi? Se fossero lì, mentre voi scrivete il vostro pezzo, conformisti e barocchi, o lo passate a redattori rotti a ogni compromesso, capirebbero chi siete?
Madri vili, con nel viso il timore antico, quello che come un male deforma i lineamenti in un biancore che li annebbia, li allontana dal cuore, li chiude nel vecchio rifiuto morale. Madri vili, poverine, preoccupate che i figli conoscano la viltà per chiedere un posto, per essere pratici, per non offendere anime privilegiate, per difendersi da ogni pietà.
Madri mediocri, che hanno imparato con umiltà di bambine, di noi, un unico, nudo significato, con anime in cui il mondo è dannato a non dare né dolore né gioia. Madri mediocri, che non hanno avuto per voi mai una parola d'amore, se non d'un amore sordidamente muto di bestia, e in esso v'hanno cresciuto, impotenti ai reali richiami del cuore.
Madri servili, abituate da secoli a chinare senza amore la testa, a trasmettere al loro feto l'antico, vergognoso segreto d'accontentarsi dei resti della festa. Madri servili, che vi hanno insegnato come il servo può essere felice odiando chi è, come lui, legato, come può essere, tradendo, beato, e sicuro, facendo ciò che non dice.
Madri feroci, intente a difendere quel poco che, borghesi, possiedono, la normalità e lo stipendio, quasi con rabbia di chi si vendichi o sia stretto da un assurdo assedio. Madri feroci, che vi hanno detto: Sopravvivete! Pensate a voi! Non provate mai pietà o rispetto per nessuno, covate nel petto la vostra integrità di avvoltoi!
Ecco, vili, mediocri, servi, feroci, le vostre povere madri! Che non hanno vergogna a sapervi – nel vostro odio – addirittura superbi, se non è questa che una valle di lacrime. È così che vi appartiene questo mondo: fatti fratelli nelle opposte passioni, o le patrie nemiche, dal rifiuto profondo a essere diversi: a rispondere del selvaggio dolore di esser uomini.
Ci vediamo in proiezione, ed ecco la città, in una sua povera ora nuda, terrificante come ogni nudità. Terra incendiata il cui incendio spento stasera o da millenni, è una cerchia infinita di ruderi rosa, carboni e ossa biancheggianti, impalcature dilavate dall'acqua e poi bruciate da nuovo sole. La radiosa Appia che formicola di migliaia di insetti - gli uomini d'oggi - i neorealistici ossessi delle Cronache in volgare. Poi compare Testaccio, in quella luce di miele proiettata sulla terra dall'oltretomba. Forse è scoppiata, la Bomba, fuori dalla mia coscienza. Anzi, è così certamente. E la fine del Mondo è già accaduta: una cosa muta, calata nel controluce del crepuscolo. Ombra, chi opera in questa èra. Ah, sacro Novecento, regione dell'anima in cui l'Apocalisse è un vecchio evento! Il Pontormo con un operatore meticoloso, ha disposto cantoni di case giallastre, a tagliare questa luce friabile e molle, che dal cielo giallo si fa marrone impolverato d'oro sul mondo cittadino... e come piante senza radice, case e uomini, creano solo muti monumenti di luce e d'ombra, in movimento: perché la loro morte è nel loro moto. Vanno, come senza alcuna colonna sonora, automobili e camion, sotto gli archi, sull 'asfalto, contro il gasometro, nell'ora, d'oro, di Hiroshima, dopo vent'anni, sempre più dentro in quella loro morte gesticolante: e io ritardatario sulla morte, in anticipo sulla vita vera, bevo l'incubo della luce come un vino smagliante. Nazione senza speranze! L'Apocalisse esploso fuori dalle coscienze nella malinconia dell'Italia dei Manieristi, ha ucciso tutti: guardateli - ombre grondanti d'oro nell'oro dell'agonia.
Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico ma nazione vivente, ma nazione europea: e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti, governanti impiegati di agrari, prefetti codini, avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi, funzionari liberali carogne come gli zii bigotti, una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino! Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti, tra case coloniali scrostate ormai come chiese. Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti, proprio perché fosti cosciente, sei incosciente. E solo perché sei cattolica, non puoi pensare che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male. Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.
Per chi conosce solo il tuo colore, bandiera rossa, tu devi realmente esistere, perché lui esista: chi era coperto di croste è coperto di piaghe, il bracciante diventa mendicante, il napoletano calabrese, il calabrese africano, l'analfabeta una bufala o un cane. Chi conosceva appena il tuo colore, bandiera rossa, sta per non conoscerti più, neanche coi sensi: tu che già vanti tante glorie borghesi e operaie, ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli.
"Era un mattino in cui sognava ignara nei ròsi orizzonti una luce di mare: ogni filo d'erba come cresciuto a stento era un filo di quello splendore opaco e immenso.
Venivamo in silenzio per il nascosto argine lungo la ferrovia, leggeri e ancora caldi
del nostro ultimo sonno in comune nel nudo granaio tra i campi ch'era il nostro rifugio.
In fondo Casarsa biancheggiva esanime nel terrore dell'ultimo proclama di Graziani;
e, colpita dal solo contro l'ombra dei monti, la stazione era vuota: oltre i radi tronchi
dei gelsi e gli sterpi, solo sopra l'erba del binario, attendeva il treno per Spilimbergo...
L'ho visto allontanarsi con la sua valigetta, dove dentro un libro di Montale era stretta
tra pochi panni, la sua rivoltella, nel bianco colore dell'aria e della terra.
Le spalle un po' strette dentro la giacchetta ch'era stata mia, la nuca giovinetta... ".
È difficile dire con parole di figlio ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio. Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore. Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere: è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia. Sei insostituibile. Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai data. E non voglio esser solo. Ho un'infinita fame d'amore, dell'amore di corpi senza anima. Perché l'anima è in te, sei tu, ma tu sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù: ho passato l'infanzia schiavo di questo senso alto, irrimediabile, di un impegno immenso. Era l'unico modo per sentire la vita, l'unica tinta, l'unica forma: ora è finita. Sopravviviamo: ed è la confusione di una vita rinata fuori dalla ragione. Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire. Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile….
Non è Amore. Ma in che misura è mia colpa il non fare dei miei affetti Amore? Molta colpa, sia pure, se potrei d'una pazza purezza, d'una cieca pietà vivere giorno per giorno... Dare scandalo di mitezza. Ma la violenza in cui mi frastorno, dei sensi, dell'intelletto, da anni, era la sola strada. Intorno a me alle origini c'era, degli inganni istituiti, delle dovute illusioni, solo la Lingua: che i primi affanni di un bambino, le preumane passioni, già impure, non esprimeva. E poi quando adolescente nella nazione conobbi altro che non fosse la gioia del vivere infantile - in una patria provinciale, ma per me assoluta, eroica - fu l'anarchia. Nella nuova e già grama borghesia d'una provincia senza purezza, il primo apparire dell'Europa fu per me apprendistato all'uso più puro dell'espressione, che la scarsezza della fede d'una classe morente risarcisse con la follia ed i tòpoi dell'eleganza: fosse l'indecente chiarezza d'una lingua che evidenzia la volontà a non essere, incosciente, e la cosciente volontà a sussistere nel privilegio e nella libertà che per Grazia appartengono allo stile.
Ancora i valzer del cielo non avevano sposato il gelsomino e la neve, né i venti riflettuto la possibile musica dei tuoi capelli, né decretato il re che la violetta fosse sepolta in un libro.
No.
Era l'età nella quale viaggiava la rondine senza le nostre iniziali nel becco. Quando convolvoli e campanule morivano senza balconi da scalare né stelle.
L'età nella quale sull'omero di un uccello non c'era fiore che posasse il capo.
Allora, dietro al tuo ventaglio, la nostra prima luna.