Poesie d'Autore


Scritta da: Silvana Stremiz
in Poesie (Poesie d'Autore)

La diplomazia

Naturarmente, la Dipromazzia
è una cosa che serve a la nazzione
pè conservà le bone relazzione,
cò quarche imbrojo e quarche furberia.

Se dice dipromatico pè via
che frega cò 'na certa educazzione,
cercanno de nasconne l'opinione
dietro un giochetto de fisonomia.

Presempio, s'io te dico chiaramente
ch'ho incontrato tù moje con un tale,
sarò sincero, sì, ma sò imprudente.

S'invece dico: - Abbada cò chi pratica...
Tu resti cò le corna tale e quale,
ma te l'avviso in forma dipromatica.
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    Scritta da: Silvana Stremiz
    in Poesie (Poesie d'Autore)

    L'alba meridionale

    Torno, ritrovo il fenomeno della fuga
    del capitale, l'epifenomeno (infimo)
    dell'avanguardia. La polizia tributaria
    (quasi accertamento filosofico
    sugli incartamenti di un poeta)
    fruga in quel fatto privato che sono i soldi,
    contaminati da carità, dolenti
    di inspiegabili consunzioni, e pieni
    di senso di colpa, come il corpo da ragazzi:
    però con mia gongolante leggerezza perché qua,
    non c'è da accertare nulla, se non la mia ingenuità.
    Torno, e trovo milioni di uomini occupati
    soltanto a vivere come barbari discesi
    da poco su una terra felice, estranei
    ad essa, e suoi possessori. Così nella vigilia
    della Preistoria che a tutto ciò darà senso,
    riprendo a Roma le mie abitudini
    di bestia ferita, che guarda negli occhi,
    godendo del morire, i suoi feritori….
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      in Poesie (Poesie d'Autore)

      Ballata delle madri

      Mi domando che madri avete avuto.
      Se ora vi vedessero al lavoro
      in un mondo a loro sconosciuto,
      presi in un giro mai compiuto
      d'esperienze così diverse dalle loro,
      che sguardo avrebbero negli occhi?
      Se fossero lì, mentre voi scrivete
      il vostro pezzo, conformisti e barocchi,
      o lo passate a redattori rotti
      a ogni compromesso, capirebbero chi siete?

      Madri vili, con nel viso il timore
      antico, quello che come un male
      deforma i lineamenti in un biancore
      che li annebbia, li allontana dal cuore,
      li chiude nel vecchio rifiuto morale.
      Madri vili, poverine, preoccupate
      che i figli conoscano la viltà
      per chiedere un posto, per essere pratici,
      per non offendere anime privilegiate,
      per difendersi da ogni pietà.

      Madri mediocri, che hanno imparato
      con umiltà di bambine, di noi,
      un unico, nudo significato,
      con anime in cui il mondo è dannato
      a non dare né dolore né gioia.
      Madri mediocri, che non hanno avuto
      per voi mai una parola d'amore,
      se non d'un amore sordidamente muto
      di bestia, e in esso v'hanno cresciuto,
      impotenti ai reali richiami del cuore.

      Madri servili, abituate da secoli
      a chinare senza amore la testa,
      a trasmettere al loro feto
      l'antico, vergognoso segreto
      d'accontentarsi dei resti della festa.
      Madri servili, che vi hanno insegnato
      come il servo può essere felice
      odiando chi è, come lui, legato,
      come può essere, tradendo, beato,
      e sicuro, facendo ciò che non dice.

      Madri feroci, intente a difendere
      quel poco che, borghesi, possiedono,
      la normalità e lo stipendio,
      quasi con rabbia di chi si vendichi
      o sia stretto da un assurdo assedio.
      Madri feroci, che vi hanno detto:
      Sopravvivete! Pensate a voi!
      Non provate mai pietà o rispetto
      per nessuno, covate nel petto
      la vostra integrità di avvoltoi!

      Ecco, vili, mediocri, servi,
      feroci, le vostre povere madri!
      Che non hanno vergogna a sapervi
      – nel vostro odio – addirittura superbi,
      se non è questa che una valle di lacrime.
      È così che vi appartiene questo mondo:
      fatti fratelli nelle opposte passioni,
      o le patrie nemiche, dal rifiuto profondo
      a essere diversi: a rispondere
      del selvaggio dolore di esser uomini.
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        Scritta da: Silvana Stremiz
        in Poesie (Poesie d'Autore)

        Poesie mondane

        Ci vediamo in proiezione, ed ecco
        la città, in una sua povera ora nuda,
        terrificante come ogni nudità.
        Terra incendiata il cui incendio
        spento stasera o da millenni,
        è una cerchia infinita di ruderi rosa,
        carboni e ossa biancheggianti, impalcature
        dilavate dall'acqua e poi bruciate
        da nuovo sole. La radiosa Appia
        che formicola di migliaia di insetti
        - gli uomini d'oggi - i neorealistici
        ossessi delle Cronache in volgare.
        Poi compare Testaccio, in quella luce
        di miele proiettata sulla terra
        dall'oltretomba. Forse è scoppiata,
        la Bomba, fuori dalla mia coscienza.
        Anzi, è così certamente. E la fine
        del Mondo è già accaduta: una cosa
        muta, calata nel controluce del crepuscolo.
        Ombra, chi opera in questa èra.
        Ah, sacro Novecento, regione dell'anima
        in cui l'Apocalisse è un vecchio evento!
        Il Pontormo con un operatore
        meticoloso, ha disposto cantoni
        di case giallastre, a tagliare
        questa luce friabile e molle,
        che dal cielo giallo si fa marrone
        impolverato d'oro sul mondo cittadino...
        e come piante senza radice, case e uomini,
        creano solo muti monumenti di luce
        e d'ombra, in movimento: perché
        la loro morte è nel loro moto.
        Vanno, come senza alcuna colonna sonora,
        automobili e camion, sotto gli archi,
        sull 'asfalto, contro il gasometro,
        nell'ora, d'oro, di Hiroshima,
        dopo vent'anni, sempre più dentro
        in quella loro morte gesticolante: e io
        ritardatario sulla morte, in anticipo
        sulla vita vera, bevo l'incubo
        della luce come un vino smagliante.
        Nazione senza speranze! L'Apocalisse
        esploso fuori dalle coscienze
        nella malinconia dell'Italia dei Manieristi,
        ha ucciso tutti: guardateli - ombre
        grondanti d'oro nell'oro dell'agonia.
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          Scritta da: Silvana Stremiz
          in Poesie (Poesie d'Autore)

          Alla mia nazione

          Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico
          ma nazione vivente, ma nazione europea:
          e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
          governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
          avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
          funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
          una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
          Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
          pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
          tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
          Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
          proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
          E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
          che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male.
          Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.
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            Scritta da: Silvana Stremiz
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            Alla bandiera rossa

            Per chi conosce solo il tuo colore,
            bandiera rossa,
            tu devi realmente esistere, perché lui
            esista:
            chi era coperto di croste è coperto di
            piaghe,
            il bracciante diventa mendicante,
            il napoletano calabrese, il calabrese
            africano,
            l'analfabeta una bufala o un cane.
            Chi conosceva appena il tuo colore,
            bandiera rossa,
            sta per non conoscerti più, neanche coi
            sensi:
            tu che già vanti tante glorie borghesi e
            operaie,
            ridiventa straccio, e il più povero ti
            sventoli.
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              Scritta da: Silvana Stremiz
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              A un ragazzo

              "Era un mattino in cui sognava ignara
              nei ròsi orizzonti una luce di mare:
              ogni filo d'erba come cresciuto a stento
              era un filo di quello splendore opaco e immenso.

              Venivamo in silenzio per il nascosto argine
              lungo la ferrovia, leggeri e ancora caldi

              del nostro ultimo sonno in comune nel nudo
              granaio tra i campi ch'era il nostro rifugio.

              In fondo Casarsa biancheggiva esanime
              nel terrore dell'ultimo proclama di Graziani;

              e, colpita dal solo contro l'ombra dei monti,
              la stazione era vuota: oltre i radi tronchi

              dei gelsi e gli sterpi, solo sopra l'erba
              del binario, attendeva il treno per Spilimbergo...

              L'ho visto allontanarsi con la sua valigetta,
              dove dentro un libro di Montale era stretta

              tra pochi panni, la sua rivoltella,
              nel bianco colore dell'aria e della terra.

              Le spalle un po' strette dentro la giacchetta
              ch'era stata mia, la nuca giovinetta... ".
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                Scritta da: Silvana Stremiz
                in Poesie (Poesie d'Autore)

                Supplica a mia madre

                È difficile dire con parole di figlio
                ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
                Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
                ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore.
                Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere:
                è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
                Sei insostituibile. Per questo è dannata
                alla solitudine la vita che mi hai data.
                E non voglio esser solo. Ho un'infinita fame
                d'amore, dell'amore di corpi senza anima.
                Perché l'anima è in te, sei tu, ma tu
                sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
                ho passato l'infanzia schiavo di questo senso
                alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
                Era l'unico modo per sentire la vita,
                l'unica tinta, l'unica forma: ora è finita.
                Sopravviviamo: ed è la confusione
                di una vita rinata fuori dalla ragione.
                Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
                Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile….
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                  Scritta da: Silvana Stremiz
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                  Non è amore

                  Non è Amore. Ma in che misura è mia
                  colpa il non fare dei miei affetti
                  Amore? Molta colpa, sia
                  pure, se potrei d'una pazza purezza,
                  d'una cieca pietà vivere giorno
                  per giorno... Dare scandalo di mitezza.
                  Ma la violenza in cui mi frastorno,
                  dei sensi, dell'intelletto, da anni,
                  era la sola strada. Intorno
                  a me alle origini c'era, degli inganni
                  istituiti, delle dovute illusioni,
                  solo la Lingua: che i primi affanni
                  di un bambino, le preumane passioni,
                  già impure, non esprimeva. E poi
                  quando adolescente nella nazione
                  conobbi altro che non fosse la gioia
                  del vivere infantile - in una patria
                  provinciale, ma per me assoluta, eroica -
                  fu l'anarchia. Nella nuova e già grama
                  borghesia d'una provincia senza purezza,
                  il primo apparire dell'Europa
                  fu per me apprendistato all'uso più
                  puro dell'espressione, che la scarsezza
                  della fede d'una classe morente
                  risarcisse con la follia ed i tòpoi
                  dell'eleganza: fosse l'indecente
                  chiarezza d'una lingua che evidenzia
                  la volontà a non essere, incosciente,
                  e la cosciente volontà a sussistere
                  nel privilegio e nella libertà
                  che per Grazia appartengono allo stile.
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                    Scritta da: Silvana Stremiz
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                    Terzo ricordo

                    Ancora i valzer del cielo non avevano sposato il gelsomino e la neve,
                    né i venti riflettuto la possibile musica dei tuoi capelli,
                    né decretato il re che la violetta fosse sepolta in un libro.

                    No.

                    Era l'età nella quale viaggiava la rondine
                    senza le nostre iniziali nel becco.
                    Quando convolvoli e campanule
                    morivano senza balconi da scalare né stelle.

                    L'età
                    nella quale sull'omero di un uccello non c'era fiore che posasse il capo.

                    Allora, dietro al tuo ventaglio, la nostra prima luna.
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