Poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz
Nella sala d'attesa del cuore
ci sono spade di seta
una luna che copre il contorno dei sogni

e ho occhi come more d'estate
una lacrima persa sull'ultimo amore

e offro fiori ai miraggi
disegnando orme su pagine di sole
cercando spirali di fuoco
nelle aurore appaganti di nuovi giorni da vivere

e riconsegnando a un cielo di stelle
labbra ubriache di vita.
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    Canto d'autunno

    Ora l'autunno ha brividi
    nel gambo della rosa.
    Alte e lontane scale
    s'appoggiano tra i frutti.

    L'autunno ora s'arrampica
    sull'intrecciata trama
    e la rosa ricorda la polvere
    da cui fu generata.

    Piú lucente del fiore
    sul cespuglio di rosa
    è la bacca arancione,
    ora avvizzita, amara;

    in ozio la bellezza non sa stare;
    tutto accade in suo nome;
    ma la rosa ricorda la polvere
    da cui fu generata.
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      Fu quando la cisterna si riempí
      di acqua aprilina
      e un'algebra sottilissima inghiottiva
      tutti i sensi degli uomini in un punto.
      Occhi lunghi di gru trattenevano
      l'ombra
      sui rilievi delle felci;
      crescevano le ali dei merli
      e il bosco era come l'unghia che
      s'infilza
      con un colpo secco. Era tutto
      nuovo e strano,
      eppure un peso abituale
      nell'aria sequestrava la speranza.
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        Tomba abbandonata

        Bisogna entrare dal cancello chiuso
        calpestando il piccolo quadrato d'erba;
        poi varcare la porta della chiesa
        e una porticina dietro il pilastro.
        Fu la bella Agnes, sventurata,
        la piú amata da quel padre ricco.
        Per lei fissò il freddo della pietra
        e i secoli solitari che la proteggono.
        E io ora ti chiedo: è valso a te l'amore –
        quest'insistenza dei vivi –
        il tempo dello scultore, le gote bianche
        che i poveri contadini avranno toccato
        con tanta pietà ogni volta che tornano
        nelle caverne d'ombra dove una fiamma
        consuma
        la briciola di desiderio quotidiano?
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          Scritta da: Silvana Stremiz
          Ti porto via
          dalla plancia di comando
          di questo cimitero
          che prende il mare.
          Vecchia cellula erosa
          abituata ai venti,
          ne guido l'abside di vedetta.
          Tu nel ponte, sottocoperta, primo
          mio viaggiatore amato,
          a cui devo l'onore del viaggio.
          Non ti proteggerò dal lungo buio
          delle notti,
          ma sarò lucciola perenne che brucia
          con la tua,
          sfarfallando negli anni.
          La terra si è ricoperta di fiori,
          e io guido la carica della nave
          su cui ti sei imbarcato senza dirmi
          neanche "ciao" (e lo avresti voluto,
          anche per essere un'ultima volta mio).
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            L’albero

            Sono già mature le mele
            sull'albero che Miss Coombes
            ci ha lasciato.
            L'albero è chino quasi fino a terra.
            Non avevo capito fino ad ora
            il loro peso freddo, né come
            si accalcano a coppie sui rami,
            gialle, rotonde come lanterne cinesi
            lungo una strada addobbata.

            È il crepuscolo, e stai tornando a casa.
            Immagino la dinamo della tua bici
            tesa come una spoletta tra le strade
            che imbrunano, a illuminare
            casa nostra mentre ora, nella via,
            si accendono le luci – l'oro
            delle lampadine nelle piccole serre,
            i lingotti
            di ingresso, la camera da letto, le scale.

            Viviamo qui ora, e sebbene,
            altrove, una ragazza si appoggi
            al finestrino del treno, un dito
            attorcigliato allo zaino zeppo
            di tutto ciò che possiede –
            questo ci basta. Siamo
            le luci, le luci, le luci
            che i treni superano nell'oscurità.
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              In ascensore fino al cielo

              Come dicono i pompieri,
              non prendete mai camere oltre
              il quinto piano
              negli hotel di New York:
              ci sono scale che vanno piú su
              ma nessuno ci salirebbe.
              Come dice il "New York Times",
              l'ascensore cerca sempre da sé
              il piano in fiamme
              e si apre automaticamente
              e non si chiude piú.
              Sono questi gli avvisi
              che dovete dimenticare
              se volete uscire da voi stessi
              fino a catapultarvi in cielo.

              Sono andata spesso oltre
              il quinto piano
              salendo a manovella,
              ma solo una volta
              andai fino in cima.
              Sessantesimo piano:
              cigni e pianticelle piegàti
              verso la propria tomba.
              Duecentesimo piano:
              montagne con la pazienza di un gatto,
              il silenzio in scarpe da tennis.
              Cinquecentesimo piano:
              messaggi e lettere millenari,
              uccelli da bere,
              una cucina di nuvole.
              Seicentesimo piano:
              le stelle,
              scheletri in fiamme
              con le braccia che cantano.
              E una chiave,
              una chiave enorme,
              che apre qualcosa
              (qualche utile uscio)
              da qualche parte,
              lassú.
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