Fu quando la cisterna si riempí di acqua aprilina e un'algebra sottilissima inghiottiva tutti i sensi degli uomini in un punto. Occhi lunghi di gru trattenevano l'ombra sui rilievi delle felci; crescevano le ali dei merli e il bosco era come l'unghia che s'infilza con un colpo secco. Era tutto nuovo e strano, eppure un peso abituale nell'aria sequestrava la speranza.
Sei stato come certe fiorite di ginestre in autostrada che fanno invidia al sole, brevi a giugno come colpi al cuore, come fiammate di luce che aumentano le spine, senza cui niente è uguale, niente vale.
Bisogna entrare dal cancello chiuso calpestando il piccolo quadrato d'erba; poi varcare la porta della chiesa e una porticina dietro il pilastro. Fu la bella Agnes, sventurata, la piú amata da quel padre ricco. Per lei fissò il freddo della pietra e i secoli solitari che la proteggono. E io ora ti chiedo: è valso a te l'amore – quest'insistenza dei vivi – il tempo dello scultore, le gote bianche che i poveri contadini avranno toccato con tanta pietà ogni volta che tornano nelle caverne d'ombra dove una fiamma consuma la briciola di desiderio quotidiano?
Ti porto via dalla plancia di comando di questo cimitero che prende il mare. Vecchia cellula erosa abituata ai venti, ne guido l'abside di vedetta. Tu nel ponte, sottocoperta, primo mio viaggiatore amato, a cui devo l'onore del viaggio. Non ti proteggerò dal lungo buio delle notti, ma sarò lucciola perenne che brucia con la tua, sfarfallando negli anni. La terra si è ricoperta di fiori, e io guido la carica della nave su cui ti sei imbarcato senza dirmi neanche "ciao" (e lo avresti voluto, anche per essere un'ultima volta mio).
Sono già mature le mele sull'albero che Miss Coombes ci ha lasciato. L'albero è chino quasi fino a terra. Non avevo capito fino ad ora il loro peso freddo, né come si accalcano a coppie sui rami, gialle, rotonde come lanterne cinesi lungo una strada addobbata.
È il crepuscolo, e stai tornando a casa. Immagino la dinamo della tua bici tesa come una spoletta tra le strade che imbrunano, a illuminare casa nostra mentre ora, nella via, si accendono le luci – l'oro delle lampadine nelle piccole serre, i lingotti di ingresso, la camera da letto, le scale.
Viviamo qui ora, e sebbene, altrove, una ragazza si appoggi al finestrino del treno, un dito attorcigliato allo zaino zeppo di tutto ciò che possiede – questo ci basta. Siamo le luci, le luci, le luci che i treni superano nell'oscurità.
Tangibile luce della sera A punti lievi la pioggia cuce aria sul lago Rimani. Altrimenti nessuno potrà vedere quel che segue. Rimani La ghiaia scricchiola come tra i denti
Io so a che assomiglia il mio cuore dacché hai smesso di amarmi: come uno scoglio cavo cinge un piccolo stagno che gli lasciò la marea, un piccolo tiepido stagno che dai margini al centro si prosciuga
Come dicono i pompieri, non prendete mai camere oltre il quinto piano negli hotel di New York: ci sono scale che vanno piú su ma nessuno ci salirebbe. Come dice il "New York Times", l'ascensore cerca sempre da sé il piano in fiamme e si apre automaticamente e non si chiude piú. Sono questi gli avvisi che dovete dimenticare se volete uscire da voi stessi fino a catapultarvi in cielo.
Sono andata spesso oltre il quinto piano salendo a manovella, ma solo una volta andai fino in cima. Sessantesimo piano: cigni e pianticelle piegàti verso la propria tomba. Duecentesimo piano: montagne con la pazienza di un gatto, il silenzio in scarpe da tennis. Cinquecentesimo piano: messaggi e lettere millenari, uccelli da bere, una cucina di nuvole. Seicentesimo piano: le stelle, scheletri in fiamme con le braccia che cantano. E una chiave, una chiave enorme, che apre qualcosa (qualche utile uscio) da qualche parte, lassú.