Poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz

Elemosina

Prendi questa borsa, Mendicante!
Tu non l'hai carezzata
vecchio poppante a una mammella avara
per distillarne soldo a soldo il tuo
rintocco funebre.

Ma cava dall'amato
metallo qualche estroso
peccato e vasto come noi, quando a manciate
lo baciamo, e soffia, che si torca!
Un'ardente fanfara.

Tutte chiese
velate dall'incenso queste case
quando ai muri cullando una bluastra
fosforescente tacito il tabacco
svolge orazioni,
e l'oppio strapotente
sbaraglia i farmachi! Anche tu,
stracci e pelle, vuoi forse lacerare
la sete e bere con la tua saliva
un'inerzia felice,
nei caffè
principeschi attendere il mattino?

Soffitti sovraccarichi di ninfe
e veli; si getta al mendicante
oltre i vetri un festino.

E quando esci
vecchio dio, tremando nel tuo sacco
d'imballaggio, l'aurora è come un lago
di vino d'oro e tu giuri d'avere
le stelle in gola!

Invece di contare
il luccicante tuo tesoro, almeno
potrai pavoneggiarti di una piuma,
accendere a completa al santo in cui
ancora credi, un certo.

Non pensate che io
dica follie: vecchi la terra s'apre
a chi crepa di fame. Odio un'altra
elemosina e voglio che mi scordi.

Soprattutto, fratello, non andare
a comprarti del pane.
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    Brindisi funebre

    O tu, fatale emblema della nostra ventura!

    Saluto di demenza e libagione oscura,
    Certo non alla magica speranza del passaggio
    Alzo la coppa in cui soffre un mostro dorato!
    La tua apparizione ormai più non mi basta:
    Poiché io stesso in luogo di porfido t'ho posto.
    Il rito è per le mani d'estinguere la face
    Contro le ferree porte del sepolcro che tace:
    E mal s'ignora, eletto per questa nostra quieta
    Festa di celebrare l'assenza del poeta,
    Che questo bel sepolcro in sé lo chiude intero.
    Eccetto che la gloria ardente del mestiere,
    Fino all'ora comune e vile della cenere,
    Pel vetro acceso d'una sera fiera di scendere,
    Ritorna verso i fuochi del puro sol mortale!

    Magnifico, totale e solitario, tale
    Esalando vacilla il falso orgoglio umano.
    Questa folla feroce! Essa annuncia: noi siamo
    La triste opacità di noi spettri futuri.
    Ma il blasone dei lutti sparso su vani muri
    D'una lacrima il lucido orrore ho disprezzato,
    Quando, sordo al mio sacro distico, né allarmato,
    Qualcuno dei passanti, superbo, cieco e muto,
    Ravvolto nel suo vago sudario, si trasmuta
    Nell'eroe intangibile della postuma attesa.
    Vasto abisso portato nelle nebbie a distesa
    Dal turbo di parole ch'egli non disse ancora,
    Il nulla a questo Uomo abolito di allora:
    "Memorie d'orizzonti, cos'è, o tu, la Terra? "
    Urla quel sogno; e, voce la cui luce si perda,
    Lo spazio ha per trastullo il grido: "Io non so! "

    Il Maestro, col grave occhio, pacificò
    Sui suoi passi dell'eden l'inquieta meraviglia
    Il cui finale brivido, sol con la voce, sveglia
    Il mistero d'un nome per il Giglio e la Rosa.
    Resta, di questa sorte, resta mai qualche cosa?
    Una oscura credenza, o voi tutti, v'ingombra.
    Il genio luminoso eterno non ha ombra.
    Io voglio, pensieroso di voi, voglio vedere
    A chi si dileguò, ieri, dentro il dovere
    Ideale che sono i parchi di quest'astro
    Restare per l'onore del tranquillo disastro
    Una solenne, vasta agitazione in cielo
    Di parole, ebbra porpora, calice sullo stelo,
    Che quel diafano sguardo, diamante, acqua d'aurora,
    Rimasto là sui fiori di cui nessuno muore,
    Alza solo tra l'ora ed il raggio del giorno!

    Dei nostri veri parchi è già tutto il soggiorno,
    Dove il poeta puro, col gesto largo e mite
    Al sogno, del suo còmpito nemico, lo interdice;
    Affinché nel mattino del suo riposo altero
    Sorga, ornamento al bianco viale del cimitero,
    Quando l'antica morte è come per Gautier
    Di non aprire i sacri occhi e tacere in sé,
    Il solido sepolcro che tutti i danni inghiotte,
    E l'avaro silenzio e la pesante notte.
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      Le Finestre

      Stanco del triste ospizio e del fetore oscuro
      Che sale tra il biancore banale delle tende
      Verso il gran crocifisso tediato al nudo muro,
      Sornione un vecchio dorso vi raddrizza il morente:

      Trascina il pelo bianco e l'ossa magre, lento,
      Alle vetrate che un raggio chiaro indora,
      Meno per riscaldare il suo disfacimento
      Che per vedere il sole sopra le piere ancora.

      E la bocca, febbrile e d'azzurro assetata,
      (Essa così aspirava, giovane, il suo tesoro,
      Un corpo verginale e d'allora) ha lordato
      D'un lungo amaro bacio il caldo vetro d'oro.

      Ebbro, vive, ed oblia la condanna del letto,
      L'orologio, la tosse, le fiale, l'ora estrema,
      E allorquando la sera sanguina sopra il tetto,
      Con l'occhio all'orizzonte, nella luce serena,

      Vede galere d'oro, splendide come cigni,
      Dormire sopra un fiume di porpora e d'essenze,
      Cullando il fulvo e ricco lampo dei lor profili,
      Ricolme di ricordo, di vasta indifferenza!

      Così, colto da nausea dell'uomo, anima dura,
      Che s'imbraga felice, per gli appetiti soli
      Mangiando, ed ostinato cerca questa lordura
      Per offrirla alla donna che gli allatta figliuoli,

      Io fuggo e mi attacco a tutte le vetrate
      Dove si volge il dorso alla vita e al destino,
      E nel vetro, lavato dall'eterne rugiade,
      Che l'Infinito indora col suo casto mattino,

      Mi contemplo e mi vedo angelo! E muoio, e torno
      -Che il cristallo sia l'arte o la mistica ebbrezza-
      A nascer, col mio sogno diadema al capo intorno,
      Dove, in cieli anteriori, fiorisce la Bellezza.

      Ma ahimè il Quaggiù impera: fino a questo sicuro
      Rifugio esso perviene talora a nausearmi,
      E la Stupidità, col suo vomito impuro,
      Mi fa turar le nari innanzi ai cieli calmi.

      Non tenteremo, o Me che sai amare pene,
      D'infrangere il cristallo cui insulta l'Averno,
      E di fuggire infine, mie ali senza penne,
      A volo con il rischio di cadere in eterno?
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        Angoscia

        Non vengo questa sera per il tuo corpo, o bestia
        Che i peccati d'un popolo accogli, né a scavare
        Nei tuoi capelli impuri una triste tempesta
        Sotto il tedio incurabile che versa il mio baciare:
        Chiedo al tuo letto il sonno pesante, senza sogni,
        Librato sotto il velo segreto dei rimorsi,
        E che tu puoi gustare dopo le tue menzogne
        Nere, tu che del nulla conosci più che i morti.
        Poi che il Vizio, rodendomi l'antica nobiltà,
        M'ha come te segnato di sua sterilità;
        Ma mentre nel tuo seno di pietra abita un cuore
        Che crimine o rimorso mai potrà divorare,
        Io pallido, disfatto, fuggo col mio sudario,
        Sgomento di morire se dormo solitario.
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          La Doppia Immagine

          A novembre compio trent'anni.
          Sei ancora piccola, hai solo tre anni.
          Guardiamo le foglie gialle, sono stremate,
          turbinano nella pioggia d'inverno,
          cadono e s'acquattano. Ed io ricordo
          i tre autunni che non hai passato qui.
          Hanno detto che mai ti avrei riavuto.
          Ti dico quel che mai saprai davvero:
          le congetture mediche
          che spiegano il cervello non saranno mai reali
          quanto queste foglie abbattute.

          Io, che ho tentato due volte d'ammazzarmi,
          ti avevo dato un nomignolo
          appena arrivata, nei mesi del piagnucolare;
          poi una febbre t'è rantolata in gola
          ed io mi muovevo come una pantomima
          attorno al tuo capino.
          Angeli brutti mi hanno parlato. La colpa,
          dicevano, era mia. Facevano gli spioni
          come streghe verdi versando nella testa la rovina
          come un rubinetto rotto;
          come se la rovina avesse allagato la pancia e sommerso la culla,
          un vecchio debito che dovevo accollarmi.

          La morte era più semplice di quanto credessi.
          Il giorno che la vita t'ha restituito sana e salva
          Ho lasciato le streghe rapire la mia anima in colpa.
          Ho finto d'esser morta
          finché uomini bianchi m'hanno spompato il veleno,
          m'hanno messo senza braccia e slavata
          nella manfrina di scatole parlanti e letti elettrici.
          Ridevo a vedermi messa ai ferri in quell'hotel.
          Oggi le foglie gialle
          sono stremate. Mi chiedi dove vanno.
          Ti dico che l'oggi ha creduto in se stesso, altrimenti cedeva.

          Oggi, piccina mia, Gioia,
          ama il tuo essere dove adesso vive.
          Non esiste un Dio speciale cui rivolgersi; o se c'è,
          allora perché t'ho fatto crescere altrove.
          Tu non riconoscevi la mia voce
          quando tornavo a casa a trovarti.
          Tutti i superlativi
          di alberi di Natale e vischi del futuro
          non ti aiuteranno a sapere le feste che hai perduto.
          Nel tempo che non amai me stessa
          venni in visita a te su marciapiedi spalati,
          mi tenevi per un guanto.
          Dopo questo fu di nuovo neve.

          2.

          Mi hanno spedito lettere con tue notizie
          e io cucivo mocassini che non avrei mai usato.
          Quando cominciai a sopportarmi
          andai a stare con la mamma. Troppo tardi,
          troppo tardi, dissero le streghe, per stare con la mamma.
          Non me ne sono andata.
          Ma un ritratto mi son fatto.

          Dal manicomio nel parziale ritorno
          venni alla casa di mia madre a Gloucester.
          Ed ecco come venni ad abbrancarla,
          ed ecco come venni a perderla.
          Mia madre disse, per il suicidio io non posso dar perdono.
          Non l'hai mai potuto.
          Ma un ritratto lei m'ha fatto.

          Ho vissuto da ospite rabbioso,
          parzialmente rammendata, bimba esorbitante.
          Ricordo che mia madre faceva del suo meglio.
          Mi portò a Boston per farmi cambiare il taglio.
          Sorridi come tua madre, disse il capocciante.
          Non mi pareva interessante.
          Ma un ritratto mi son fatto.

          C'era una chiesa là dove sono cresciuta,
          là in bianchi armadi fummo inchiavati
          come coro di marinai, o puritani, irreggimentati.
          Mio padre passava col piattino per la questua.
          Dissero le streghe, troppo tardi per esser perdonata.
          E non fui propriamente perdonata.
          Ma un ritratto m'hanno fatto.

          3.

          Quell'estate gettiti irrigui s'inarcavano
          a pioggia sull'erba rivierasca.
          Parlavamo di siccità
          mentre il prato corroso dal salmastro
          nuovamente raddolciva.
          Per passare il tempo falciavo l'erba
          e la mattina mi facevo fare il ritratto,
          fissando il sorriso nella formalità.
          Ti ho spedito il disegnino di un coniglio,
          e una cartolina col Motif number one
          come se fosse normale
          essere madre ed essersene andata.

          Hanno appeso il ritratto nella fredda luce
          del lato nord, che bene mi si addice,
          per farmi stare bene.
          Soltanto mia madre s'ammalò.
          Mi volse le spalle, come se la morte contagiasse,
          come se la morte si riflettesse,
          come se il mio morire l'avesse corrosa.
          Ad agosto avevi due anni, ma era dubbio il calcolo dei giorni.
          Il primo settembre mi guardò in faccia
          e mi disse che le avevo attaccato il cancro.
          Le mozzarono le colline dolci
          e ancora non avevo la risposta.

          4.

          Quell'inverno lei tornò
          parziale ritorno
          alla sterile suite
          di medici, nauseante
          crociera di raggi X,
          l'aritmetica delle cellule impazzita.
          Parziale intervento,
          braccio grasso, prognosi infausta,
          li ho sentiti dire.

          Durante le burrasche marine
          lei si fece fare il ritratto.
          Caverna di uno specchio,
          appeso al lato sud;
          una coppia di sorrisi, una copia di lineamenti.
          E tu mi assomigliavi sconosciuto
          viso mio, tu lo indossavi.
          Dopotutto eri mia.

          Ho svernato a Boston,
          sposa senza figli,
          niente di dolce da spartire,
          con le streghe a fianco.
          Ho perduto la tua infanzia,
          tentato un altro suicidio,
          subito il secondo hotel dei sigilli.
          M'hai fatto un Pesce d'Aprile.
          Abbiamo riso insieme, fu cosa buona.

          5.

          Per l'ultima volta m'hanno dimesso
          il primo maggio;
          laureata in casi mentali,
          con l'assenso dell'analista,
          un libro finito di versi,
          la macchina da scrivere e le borse.

          Quell'estate imparai a rimettere vita
          nelle mie sette stanze,
          andavo su barchette a cigno, al mercato,
          rispondevo al telefono,
          da brava moglie offrivo da bere,
          facevo l'amore fra crinoline e abbronzature d'agosto.

          E tu venivi ogni weekend. No, mento.
          Venivi di rado. Fingevo che c'eri
          bimba farfalla, porcellina
          guance di gelatina,
          tre anni di disobbedienza,
          ma splendida sconosciuta.

          E dovevo imparare
          perché volevo morire invece che amare,
          perché mi faceva male la tua innocenza,
          e perché accumulo le colpe
          come un giovane internista
          rivela i sintomi e la certa evidenza.

          Quel giorno d'ottobre che andammo a Gloucester
          le colline rosse mi ricordavano
          la pelliccia di volpe rossa sdrucita
          in cui giocavo da bambina,
          immobile come un orso, una tenda,
          una gran caverna che ride, pelliccia di volpe rossa.

          Oltrepassammo il vivaio dei pesci,
          il baracchino dove vendono l'esca,
          Pigeon Cove, lo Yacht Club,
          Squall Hill, verso la casa in attesa
          ancora, la casa sul mare.
          E due ritratti sono appesi su opposte pareti.

          6.

          Al lato nord il mio sorriso al suo posto è fissato,
          risalta nell'ombra il mio viso ossuto.
          Mentre posavo lì cosa avevo sognato
          tutta me negli occhi in attesa,
          il giovane viso, la zona del sorriso,
          trappola per volpi.

          Al lato sud il suo sorriso al suo posto è fissato,
          le guance vizze come orchidee appassite;
          mio specchio beffardo, mio amore spodestato,
          mia immagine prima. Mi occhieggia dal ritratto
          quella testa di morte impietrita
          che avevo sopraffatto.

          L'artista ci fissò alla svolta;
          si sorrideva inquadrate nelle tele
          prima di scegliere strade da prima separate.
          La pelliccia di volpe rossa doveva esser bruciata.
          Mi decompongo sulla parete
          come Dorian Grey.

          E questa fu caverna di uno specchio,
          una donna sdoppiata che si fissa
          come se il tempo l'avesse impietrita
          - due signore in terra d'ombra assise -
          Hai dato un bacio alla nonna,
          e lei ha pianto.

          7.

          Non potevo tenerti
          tranne il weekend. Ogni volta venivi
          stringendo il disegnino del coniglio
          che ti avevo spedito. Per l'ultima volta
          disfo i tuoi bagagli. Ci tocchiamo senza un contatto.
          La prima volta hai chiesto il mio nome.
          Ora rimani per sempre. Dimenticherò
          che sbalzavamo cozzandoci come marionette
          appese a fili. Non era l'amore
          ridursi al weekend.
          Ti sbucci le ginocchia, impari il mio nome,
          traballando sul marciapiede piangi e chiami.
          Mi chiami mamma e ricordo ancora mia madre,
          che altrove, nei dintorni di Boston, muore.

          Ricordo che ti chiamammo Gioia
          per poterti chiamare gioia.
          Arrivasti come un ospite imbarazzato
          allora, tutta fasciata umida meraviglia
          alla mia mammella pesante.
          Avevo bisogno di te. Non volevo un maschio,
          solo una femmina, un topino lattoso di bimba,
          da sempre amata, da sempre esuberante
          nella casa di se stessa. Ti chiamammo Gioia.
          Io, che non fui mai certa d'esser femmina,
          avevo bisogno di un'altra vita,
          di un'altra immagine per ricordarmi.
          E fu questa la mia più grave colpa;
          tu non potevi curarla o lenirla.
          Ti ho fatta per trovarmi.
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            Filo sottile

            La mia fede
            è un carico enorme
            appeso a un filo sottile,
            proprio come un ragno
            appende i suoi piccoli a una tela fine,
            proprio come dalla vite,
            esile e rigida,
            pendono grappoli
            come occhi,
            come molti angeli
            danzano su una capocchia di spillo.

            Dio non chiede troppo filo
            per restare qui;
            solo una venuzza
            e sangue che vi scorra
            e un po' d'amore.
            Come qualcuno ha detto:
            l'amore e la tosse
            non si possono nascondere.
            Neppure un colpetto di tosse
            neppure un amore minimo.
            Perciò se hai solo un filo sottile
            a Dio non importa:
            Lui te lo troverai tra le mani facilmente
            proprio come una volta con dieci centesimi
            ti potevi prendere una Coca.
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              Notte stellata

              La città non esiste
              se non dove un albero dai capelli
              neri scivola via, come una donna
              annegata nel cielo caldo. Tace,
              la città. Bolle la notte, con dieci
              e una stella. Oh notte stellata,
              stellata notte! È così che voglio
              morire.

              Si muove. Sono tutti quanti vivi.
              Quando la luna rompe le catene
              arancioni che la legano e spruzza
              bambini dai suoi occhi, come un dio,
              il vecchio serpente, senza esser visto
              divora le stelle. Oh stellata notte,
              notte stellata! È così che voglio
              morire:

              in questa strisciante bestia notturna,
              risucchiata tutta dentro nel grande
              drago, separata
              dalla mia vita senza una bandiera,
              senza pancia
              né grido.
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                Scritta da: Silvana Stremiz

                Il Natale del 1833

                Sì che Tu sei terribile!
                Sì che in quei lini ascoso,
                In braccio a quella Vergine,
                Sovra quel sen pietoso,
                Come da sopra i turbini
                Regni, o Fanciul severo!
                E fato il tuo pensiero,
                È legge il tuo vagir.

                Vedi le nostre lagrime,
                Intendi i nostri gridi;
                Il voler nostro interroghi,
                E a tuo voler decidi.
                Mentre a stornar la folgore
                Trepido il prego ascende
                Sorda la folgor scende
                Dove tu vuoi ferir.

                Ma tu pur nasci a piangere,
                Ma da quel cor ferito
                Sorgerà pure un gemito,
                Un prego inesaudito:
                E questa tua fra gli uomini
                Unicamente amata,
                Nel guardo tuo beata,
                Ebra del tuo respir,

                Vezzi or ti fa; ti supplica
                Suo pargolo, suo Dio,
                Ti stringe al cor, che attonito
                Va ripetendo: è mio!
                Un dì con altro palpito,
                Un dì con altra fronte,
                Ti seguirà sul monte.
                E ti vedrà morir.

                Onnipotente….
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                  Scritta da: Silvana Stremiz

                  Il Natale

                  Qual masso che dal vertice
                  Di lunga erta montana,
                  Abbandonato all'impeto
                  Di rumorosa frana,
                  Per lo scheggiato calle
                  Precipitando a valle,
                  Batte sul fondo e sta;
                  Là dove cadde, immobile
                  Giace in sua lenta mole;
                  Né, per mutar di secoli,
                  Fia che riveda il sole
                  Della sua cima antica,
                  Se una virtude amica
                  In alto nol trarrà:
                  Tal si giaceva il misero
                  Figliol del fallo primo,
                  Dal dì che un'ineffabile
                  Ira promessa all'imo
                  D'ogni malor gravollo,
                  Donde il superbo collo
                  Più non potea levar.
                  Qual mai tra i nati all'odio
                  Quale era mai persona
                  Che al Santo inaccessibile
                  Potesse dir: perdona?
                  Far novo patto eterno?
                  Al vincitore inferno
                  La preda sua strappar?
                  Ecco ci è nato un Pargolo,
                  Ci fu largito un Figlio:
                  Le avverse forze tremano
                  Al mover del suo ciglio:
                  All'uom la mano Ei porge,
                  Che si ravviva, e sorge
                  Oltre l'antico onor.
                  Dalle magioni eteree
                  Sgorga una fonte, e scende
                  E nel borron dè triboli
                  Vivida si distende:
                  Stillano mele i tronchi;
                  Dove copriano i bronchi,
                  Ivi germoglia il fior.
                  O Figlio, o Tu cui genera
                  L'Eterno, eterno seco;
                  Qual ti può dir dè secoli:
                  Tu cominciasti meco?
                  Tu sei: del vasto empiro
                  Non ti comprende il giro:
                  La tua parola il fè.
                  E Tu degnasti assumere
                  Questa creata argilla?
                  Qual merto suo, qual grazia
                  A tanto onor sortilla?
                  Se in suo consiglio ascoso
                  Vince il perdon, pietoso
                  Immensamente Egli è.
                  Oggi Egli è nato: ad Efrata,
                  Vaticinato ostello,
                  Ascese un'alma Vergine,
                  La gloria d'Israello,
                  Grave di tal portato:
                  Da cui promise è nato,
                  Donde era atteso uscì.
                  La mira Madre in poveri.
                  Panni il Figliol compose,
                  E nell'umil presepio
                  Soavemente il pose;
                  E l'adorò: beata!
                  Innanzi al Dio prostrata
                  Che il puro sen le aprì.
                  L'Angel del cielo, agli uomini
                  Nunzio di tanta sorte,
                  Non dè potenti volgesi
                  Alle vegliate porte;
                  Ma tra i pastor devoti,
                  Al duro mondo ignoti,
                  Subito in luce appar.
                  E intorno a lui per l'ampia
                  Notte calati a stuolo,
                  Mille celesti strinsero
                  Il fiammeggiante volo;
                  E accesi in dolce zelo,
                  Come si canta in cielo,
                  A Dio gloria cantar.
                  L'allegro inno seguirono,
                  Tornando al firmamento:
                  Tra le varcate nuvole
                  Allontanossi, e lento
                  Il suon sacrato ascese,
                  Fin che più nulla intese
                  La compagnia fedel.
                  Senza indugiar, cercarono
                  L'albergo poveretto
                  Què fortunati, e videro,
                  Siccome a lor fu detto,
                  Videro in panni avvolto,
                  In un presepe accolto,
                  Vagire il Re del Ciel.
                  Dormi, o Fanciul; non piangere;
                  Dormi, o Fanciul celeste:
                  Sovra il tuo capo stridere
                  Non osin le tempeste,
                  Use sull'empia terra,
                  Come cavalli in guerra,
                  Correr davanti a Te.
                  Dormi, o Celeste: i popoli
                  Chi nato sia non sanno;
                  Ma il dì verrà che nobile
                  Retaggio tuo saranno;
                  Che in quell'umil riposo,
                  Che nella polve ascoso,
                  Conosceranno il Re.
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                    Scritta da: Silvana Stremiz

                    Il Cinque Maggio

                    Ei fu. Siccome immobile,
                    dato il mortal sospiro,
                    stette la spoglia immemore
                    orba di tanto spiro,
                    così percossa, attonita
                    la terra al nunzio sta,
                    muta pensando all'ultima
                    ora dell'uom fatale;
                    né sa quando una simile
                    orma di piè mortale
                    la sua cruenta polvere
                    a calpestar verrà.
                    Lui folgorante in solio
                    vide il mio genio e tacque;
                    quando, con vece assidua,
                    cadde, risorse e giacque,
                    di mille voci al sònito
                    mista la sua non ha:
                    vergin di servo encomio
                    e di codardo oltraggio,
                    sorge or commosso al sùbito
                    sparir di tanto raggio;
                    e scioglie all'urna un cantico
                    che forse non morrà.
                    Dall'Alpi alle Piramidi,
                    dal Manzanarre al Reno,
                    di quel securo il fulmine
                    tenea dietro al baleno;
                    scoppiò da Scilla al Tanai,
                    dall'uno all'altro mar.
                    Fu vera gloria? Ai posteri
                    l'ardua sentenza: nui
                    chiniam la fronte al Massimo
                    Fattor, che volle in lui
                    del creator suo spirito
                    più vasta orma stampar.
                    La procellosa e trepida
                    gioia d'un gran disegno,
                    l'ansia d'un cor che indocile
                    serve, pensando al regno;
                    e il giunge, e tiene un premio
                    ch'era follia sperar;
                    tutto ei provò: la gloria
                    maggior dopo il periglio,
                    la fuga e la vittoria,
                    la reggia e il tristo esiglio;
                    due volte nella polvere,
                    due volte sull'altar.
                    Ei si nomò: due secoli,
                    l'un contro l'altro armato,
                    sommessi a lui si volsero,
                    come aspettando il fato;
                    ei fè silenzio, ed arbitro
                    s'assise in mezzo a lor.
                    E sparve, e i dì nell'ozio
                    chiuse in sì breve sponda,
                    segno d'immensa invidia
                    e di pietà profonda,
                    d'inestinguibil odio
                    e d'indomato amor.
                    Come sul capo al naufrago
                    l'onda s'avvolve e pesa,
                    l'onda su cui del misero,
                    alta pur dianzi e tesa,
                    scorrea la vista a scernere
                    prode remote invan;
                    tal su quell'alma il cumulo
                    delle memorie scese.
                    Oh quante volte ai posteri
                    narrar se stesso imprese,
                    e sull'eterne pagine
                    cadde la stanca man!
                    Oh quante volte, al tacito
                    morir d'un giorno inerte,
                    chinati i rai fulminei,
                    le braccia al sen conserte,
                    stette, e dei dì che furono
                    l'assalse il sovvenir!
                    E ripensò le mobili
                    tende, e i percossi valli,
                    e il lampo dè manipoli,
                    e l'onda dei cavalli,
                    e il concitato imperio
                    e il celere ubbidir.
                    Ahi! Forse a tanto strazio
                    cadde lo spirto anelo,
                    e disperò; ma valida
                    venne una man dal cielo,
                    e in più spirabil aere
                    pietosa il trasportò;
                    e l'avviò, pei floridi
                    sentier della speranza,
                    ai campi eterni, al premio
                    che i desideri avanza,
                    dov'è silenzio e tenebre
                    la gloria che passò.
                    Bella Immortal! Benefica
                    Fede ai trionfi avvezza!
                    Scrivi ancor questo, allegrati;
                    ché più superba altezza
                    al disonor del Gòlgota
                    giammai non si chinò.
                    Tu dalle stanche ceneri
                    sperdi ogni ria parola:
                    il Dio che atterra e suscita,
                    che affanna e che consola,
                    sulla deserta coltrice
                    accanto a lui posò.
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