Prendi questa borsa, Mendicante! Tu non l'hai carezzata vecchio poppante a una mammella avara per distillarne soldo a soldo il tuo rintocco funebre.
Ma cava dall'amato metallo qualche estroso peccato e vasto come noi, quando a manciate lo baciamo, e soffia, che si torca! Un'ardente fanfara.
Tutte chiese velate dall'incenso queste case quando ai muri cullando una bluastra fosforescente tacito il tabacco svolge orazioni, e l'oppio strapotente sbaraglia i farmachi! Anche tu, stracci e pelle, vuoi forse lacerare la sete e bere con la tua saliva un'inerzia felice, nei caffè principeschi attendere il mattino?
Soffitti sovraccarichi di ninfe e veli; si getta al mendicante oltre i vetri un festino.
E quando esci vecchio dio, tremando nel tuo sacco d'imballaggio, l'aurora è come un lago di vino d'oro e tu giuri d'avere le stelle in gola!
Invece di contare il luccicante tuo tesoro, almeno potrai pavoneggiarti di una piuma, accendere a completa al santo in cui ancora credi, un certo.
Non pensate che io dica follie: vecchi la terra s'apre a chi crepa di fame. Odio un'altra elemosina e voglio che mi scordi.
Soprattutto, fratello, non andare a comprarti del pane.
Saluto di demenza e libagione oscura, Certo non alla magica speranza del passaggio Alzo la coppa in cui soffre un mostro dorato! La tua apparizione ormai più non mi basta: Poiché io stesso in luogo di porfido t'ho posto. Il rito è per le mani d'estinguere la face Contro le ferree porte del sepolcro che tace: E mal s'ignora, eletto per questa nostra quieta Festa di celebrare l'assenza del poeta, Che questo bel sepolcro in sé lo chiude intero. Eccetto che la gloria ardente del mestiere, Fino all'ora comune e vile della cenere, Pel vetro acceso d'una sera fiera di scendere, Ritorna verso i fuochi del puro sol mortale!
Magnifico, totale e solitario, tale Esalando vacilla il falso orgoglio umano. Questa folla feroce! Essa annuncia: noi siamo La triste opacità di noi spettri futuri. Ma il blasone dei lutti sparso su vani muri D'una lacrima il lucido orrore ho disprezzato, Quando, sordo al mio sacro distico, né allarmato, Qualcuno dei passanti, superbo, cieco e muto, Ravvolto nel suo vago sudario, si trasmuta Nell'eroe intangibile della postuma attesa. Vasto abisso portato nelle nebbie a distesa Dal turbo di parole ch'egli non disse ancora, Il nulla a questo Uomo abolito di allora: "Memorie d'orizzonti, cos'è, o tu, la Terra? " Urla quel sogno; e, voce la cui luce si perda, Lo spazio ha per trastullo il grido: "Io non so! "
Il Maestro, col grave occhio, pacificò Sui suoi passi dell'eden l'inquieta meraviglia Il cui finale brivido, sol con la voce, sveglia Il mistero d'un nome per il Giglio e la Rosa. Resta, di questa sorte, resta mai qualche cosa? Una oscura credenza, o voi tutti, v'ingombra. Il genio luminoso eterno non ha ombra. Io voglio, pensieroso di voi, voglio vedere A chi si dileguò, ieri, dentro il dovere Ideale che sono i parchi di quest'astro Restare per l'onore del tranquillo disastro Una solenne, vasta agitazione in cielo Di parole, ebbra porpora, calice sullo stelo, Che quel diafano sguardo, diamante, acqua d'aurora, Rimasto là sui fiori di cui nessuno muore, Alza solo tra l'ora ed il raggio del giorno!
Dei nostri veri parchi è già tutto il soggiorno, Dove il poeta puro, col gesto largo e mite Al sogno, del suo còmpito nemico, lo interdice; Affinché nel mattino del suo riposo altero Sorga, ornamento al bianco viale del cimitero, Quando l'antica morte è come per Gautier Di non aprire i sacri occhi e tacere in sé, Il solido sepolcro che tutti i danni inghiotte, E l'avaro silenzio e la pesante notte.
Stanco del triste ospizio e del fetore oscuro Che sale tra il biancore banale delle tende Verso il gran crocifisso tediato al nudo muro, Sornione un vecchio dorso vi raddrizza il morente:
Trascina il pelo bianco e l'ossa magre, lento, Alle vetrate che un raggio chiaro indora, Meno per riscaldare il suo disfacimento Che per vedere il sole sopra le piere ancora.
E la bocca, febbrile e d'azzurro assetata, (Essa così aspirava, giovane, il suo tesoro, Un corpo verginale e d'allora) ha lordato D'un lungo amaro bacio il caldo vetro d'oro.
Ebbro, vive, ed oblia la condanna del letto, L'orologio, la tosse, le fiale, l'ora estrema, E allorquando la sera sanguina sopra il tetto, Con l'occhio all'orizzonte, nella luce serena,
Vede galere d'oro, splendide come cigni, Dormire sopra un fiume di porpora e d'essenze, Cullando il fulvo e ricco lampo dei lor profili, Ricolme di ricordo, di vasta indifferenza!
Così, colto da nausea dell'uomo, anima dura, Che s'imbraga felice, per gli appetiti soli Mangiando, ed ostinato cerca questa lordura Per offrirla alla donna che gli allatta figliuoli,
Io fuggo e mi attacco a tutte le vetrate Dove si volge il dorso alla vita e al destino, E nel vetro, lavato dall'eterne rugiade, Che l'Infinito indora col suo casto mattino,
Mi contemplo e mi vedo angelo! E muoio, e torno -Che il cristallo sia l'arte o la mistica ebbrezza- A nascer, col mio sogno diadema al capo intorno, Dove, in cieli anteriori, fiorisce la Bellezza.
Ma ahimè il Quaggiù impera: fino a questo sicuro Rifugio esso perviene talora a nausearmi, E la Stupidità, col suo vomito impuro, Mi fa turar le nari innanzi ai cieli calmi.
Non tenteremo, o Me che sai amare pene, D'infrangere il cristallo cui insulta l'Averno, E di fuggire infine, mie ali senza penne, A volo con il rischio di cadere in eterno?
Non vengo questa sera per il tuo corpo, o bestia Che i peccati d'un popolo accogli, né a scavare Nei tuoi capelli impuri una triste tempesta Sotto il tedio incurabile che versa il mio baciare: Chiedo al tuo letto il sonno pesante, senza sogni, Librato sotto il velo segreto dei rimorsi, E che tu puoi gustare dopo le tue menzogne Nere, tu che del nulla conosci più che i morti. Poi che il Vizio, rodendomi l'antica nobiltà, M'ha come te segnato di sua sterilità; Ma mentre nel tuo seno di pietra abita un cuore Che crimine o rimorso mai potrà divorare, Io pallido, disfatto, fuggo col mio sudario, Sgomento di morire se dormo solitario.
A novembre compio trent'anni. Sei ancora piccola, hai solo tre anni. Guardiamo le foglie gialle, sono stremate, turbinano nella pioggia d'inverno, cadono e s'acquattano. Ed io ricordo i tre autunni che non hai passato qui. Hanno detto che mai ti avrei riavuto. Ti dico quel che mai saprai davvero: le congetture mediche che spiegano il cervello non saranno mai reali quanto queste foglie abbattute.
Io, che ho tentato due volte d'ammazzarmi, ti avevo dato un nomignolo appena arrivata, nei mesi del piagnucolare; poi una febbre t'è rantolata in gola ed io mi muovevo come una pantomima attorno al tuo capino. Angeli brutti mi hanno parlato. La colpa, dicevano, era mia. Facevano gli spioni come streghe verdi versando nella testa la rovina come un rubinetto rotto; come se la rovina avesse allagato la pancia e sommerso la culla, un vecchio debito che dovevo accollarmi.
La morte era più semplice di quanto credessi. Il giorno che la vita t'ha restituito sana e salva Ho lasciato le streghe rapire la mia anima in colpa. Ho finto d'esser morta finché uomini bianchi m'hanno spompato il veleno, m'hanno messo senza braccia e slavata nella manfrina di scatole parlanti e letti elettrici. Ridevo a vedermi messa ai ferri in quell'hotel. Oggi le foglie gialle sono stremate. Mi chiedi dove vanno. Ti dico che l'oggi ha creduto in se stesso, altrimenti cedeva.
Oggi, piccina mia, Gioia, ama il tuo essere dove adesso vive. Non esiste un Dio speciale cui rivolgersi; o se c'è, allora perché t'ho fatto crescere altrove. Tu non riconoscevi la mia voce quando tornavo a casa a trovarti. Tutti i superlativi di alberi di Natale e vischi del futuro non ti aiuteranno a sapere le feste che hai perduto. Nel tempo che non amai me stessa venni in visita a te su marciapiedi spalati, mi tenevi per un guanto. Dopo questo fu di nuovo neve.
2.
Mi hanno spedito lettere con tue notizie e io cucivo mocassini che non avrei mai usato. Quando cominciai a sopportarmi andai a stare con la mamma. Troppo tardi, troppo tardi, dissero le streghe, per stare con la mamma. Non me ne sono andata. Ma un ritratto mi son fatto.
Dal manicomio nel parziale ritorno venni alla casa di mia madre a Gloucester. Ed ecco come venni ad abbrancarla, ed ecco come venni a perderla. Mia madre disse, per il suicidio io non posso dar perdono. Non l'hai mai potuto. Ma un ritratto lei m'ha fatto.
Ho vissuto da ospite rabbioso, parzialmente rammendata, bimba esorbitante. Ricordo che mia madre faceva del suo meglio. Mi portò a Boston per farmi cambiare il taglio. Sorridi come tua madre, disse il capocciante. Non mi pareva interessante. Ma un ritratto mi son fatto.
C'era una chiesa là dove sono cresciuta, là in bianchi armadi fummo inchiavati come coro di marinai, o puritani, irreggimentati. Mio padre passava col piattino per la questua. Dissero le streghe, troppo tardi per esser perdonata. E non fui propriamente perdonata. Ma un ritratto m'hanno fatto.
3.
Quell'estate gettiti irrigui s'inarcavano a pioggia sull'erba rivierasca. Parlavamo di siccità mentre il prato corroso dal salmastro nuovamente raddolciva. Per passare il tempo falciavo l'erba e la mattina mi facevo fare il ritratto, fissando il sorriso nella formalità. Ti ho spedito il disegnino di un coniglio, e una cartolina col Motif number one come se fosse normale essere madre ed essersene andata.
Hanno appeso il ritratto nella fredda luce del lato nord, che bene mi si addice, per farmi stare bene. Soltanto mia madre s'ammalò. Mi volse le spalle, come se la morte contagiasse, come se la morte si riflettesse, come se il mio morire l'avesse corrosa. Ad agosto avevi due anni, ma era dubbio il calcolo dei giorni. Il primo settembre mi guardò in faccia e mi disse che le avevo attaccato il cancro. Le mozzarono le colline dolci e ancora non avevo la risposta.
4.
Quell'inverno lei tornò parziale ritorno alla sterile suite di medici, nauseante crociera di raggi X, l'aritmetica delle cellule impazzita. Parziale intervento, braccio grasso, prognosi infausta, li ho sentiti dire.
Durante le burrasche marine lei si fece fare il ritratto. Caverna di uno specchio, appeso al lato sud; una coppia di sorrisi, una copia di lineamenti. E tu mi assomigliavi sconosciuto viso mio, tu lo indossavi. Dopotutto eri mia.
Ho svernato a Boston, sposa senza figli, niente di dolce da spartire, con le streghe a fianco. Ho perduto la tua infanzia, tentato un altro suicidio, subito il secondo hotel dei sigilli. M'hai fatto un Pesce d'Aprile. Abbiamo riso insieme, fu cosa buona.
5.
Per l'ultima volta m'hanno dimesso il primo maggio; laureata in casi mentali, con l'assenso dell'analista, un libro finito di versi, la macchina da scrivere e le borse.
Quell'estate imparai a rimettere vita nelle mie sette stanze, andavo su barchette a cigno, al mercato, rispondevo al telefono, da brava moglie offrivo da bere, facevo l'amore fra crinoline e abbronzature d'agosto.
E tu venivi ogni weekend. No, mento. Venivi di rado. Fingevo che c'eri bimba farfalla, porcellina guance di gelatina, tre anni di disobbedienza, ma splendida sconosciuta.
E dovevo imparare perché volevo morire invece che amare, perché mi faceva male la tua innocenza, e perché accumulo le colpe come un giovane internista rivela i sintomi e la certa evidenza.
Quel giorno d'ottobre che andammo a Gloucester le colline rosse mi ricordavano la pelliccia di volpe rossa sdrucita in cui giocavo da bambina, immobile come un orso, una tenda, una gran caverna che ride, pelliccia di volpe rossa.
Oltrepassammo il vivaio dei pesci, il baracchino dove vendono l'esca, Pigeon Cove, lo Yacht Club, Squall Hill, verso la casa in attesa ancora, la casa sul mare. E due ritratti sono appesi su opposte pareti.
6.
Al lato nord il mio sorriso al suo posto è fissato, risalta nell'ombra il mio viso ossuto. Mentre posavo lì cosa avevo sognato tutta me negli occhi in attesa, il giovane viso, la zona del sorriso, trappola per volpi.
Al lato sud il suo sorriso al suo posto è fissato, le guance vizze come orchidee appassite; mio specchio beffardo, mio amore spodestato, mia immagine prima. Mi occhieggia dal ritratto quella testa di morte impietrita che avevo sopraffatto.
L'artista ci fissò alla svolta; si sorrideva inquadrate nelle tele prima di scegliere strade da prima separate. La pelliccia di volpe rossa doveva esser bruciata. Mi decompongo sulla parete come Dorian Grey.
E questa fu caverna di uno specchio, una donna sdoppiata che si fissa come se il tempo l'avesse impietrita - due signore in terra d'ombra assise - Hai dato un bacio alla nonna, e lei ha pianto.
7.
Non potevo tenerti tranne il weekend. Ogni volta venivi stringendo il disegnino del coniglio che ti avevo spedito. Per l'ultima volta disfo i tuoi bagagli. Ci tocchiamo senza un contatto. La prima volta hai chiesto il mio nome. Ora rimani per sempre. Dimenticherò che sbalzavamo cozzandoci come marionette appese a fili. Non era l'amore ridursi al weekend. Ti sbucci le ginocchia, impari il mio nome, traballando sul marciapiede piangi e chiami. Mi chiami mamma e ricordo ancora mia madre, che altrove, nei dintorni di Boston, muore.
Ricordo che ti chiamammo Gioia per poterti chiamare gioia. Arrivasti come un ospite imbarazzato allora, tutta fasciata umida meraviglia alla mia mammella pesante. Avevo bisogno di te. Non volevo un maschio, solo una femmina, un topino lattoso di bimba, da sempre amata, da sempre esuberante nella casa di se stessa. Ti chiamammo Gioia. Io, che non fui mai certa d'esser femmina, avevo bisogno di un'altra vita, di un'altra immagine per ricordarmi. E fu questa la mia più grave colpa; tu non potevi curarla o lenirla. Ti ho fatta per trovarmi.
La mia fede è un carico enorme appeso a un filo sottile, proprio come un ragno appende i suoi piccoli a una tela fine, proprio come dalla vite, esile e rigida, pendono grappoli come occhi, come molti angeli danzano su una capocchia di spillo.
Dio non chiede troppo filo per restare qui; solo una venuzza e sangue che vi scorra e un po' d'amore. Come qualcuno ha detto: l'amore e la tosse non si possono nascondere. Neppure un colpetto di tosse neppure un amore minimo. Perciò se hai solo un filo sottile a Dio non importa: Lui te lo troverai tra le mani facilmente proprio come una volta con dieci centesimi ti potevi prendere una Coca.
La città non esiste se non dove un albero dai capelli neri scivola via, come una donna annegata nel cielo caldo. Tace, la città. Bolle la notte, con dieci e una stella. Oh notte stellata, stellata notte! È così che voglio morire.
Si muove. Sono tutti quanti vivi. Quando la luna rompe le catene arancioni che la legano e spruzza bambini dai suoi occhi, come un dio, il vecchio serpente, senza esser visto divora le stelle. Oh stellata notte, notte stellata! È così che voglio morire:
in questa strisciante bestia notturna, risucchiata tutta dentro nel grande drago, separata dalla mia vita senza una bandiera, senza pancia né grido.
Sì che Tu sei terribile! Sì che in quei lini ascoso, In braccio a quella Vergine, Sovra quel sen pietoso, Come da sopra i turbini Regni, o Fanciul severo! E fato il tuo pensiero, È legge il tuo vagir.
Vedi le nostre lagrime, Intendi i nostri gridi; Il voler nostro interroghi, E a tuo voler decidi. Mentre a stornar la folgore Trepido il prego ascende Sorda la folgor scende Dove tu vuoi ferir.
Ma tu pur nasci a piangere, Ma da quel cor ferito Sorgerà pure un gemito, Un prego inesaudito: E questa tua fra gli uomini Unicamente amata, Nel guardo tuo beata, Ebra del tuo respir,
Vezzi or ti fa; ti supplica Suo pargolo, suo Dio, Ti stringe al cor, che attonito Va ripetendo: è mio! Un dì con altro palpito, Un dì con altra fronte, Ti seguirà sul monte. E ti vedrà morir.
Qual masso che dal vertice Di lunga erta montana, Abbandonato all'impeto Di rumorosa frana, Per lo scheggiato calle Precipitando a valle, Batte sul fondo e sta; Là dove cadde, immobile Giace in sua lenta mole; Né, per mutar di secoli, Fia che riveda il sole Della sua cima antica, Se una virtude amica In alto nol trarrà: Tal si giaceva il misero Figliol del fallo primo, Dal dì che un'ineffabile Ira promessa all'imo D'ogni malor gravollo, Donde il superbo collo Più non potea levar. Qual mai tra i nati all'odio Quale era mai persona Che al Santo inaccessibile Potesse dir: perdona? Far novo patto eterno? Al vincitore inferno La preda sua strappar? Ecco ci è nato un Pargolo, Ci fu largito un Figlio: Le avverse forze tremano Al mover del suo ciglio: All'uom la mano Ei porge, Che si ravviva, e sorge Oltre l'antico onor. Dalle magioni eteree Sgorga una fonte, e scende E nel borron dè triboli Vivida si distende: Stillano mele i tronchi; Dove copriano i bronchi, Ivi germoglia il fior. O Figlio, o Tu cui genera L'Eterno, eterno seco; Qual ti può dir dè secoli: Tu cominciasti meco? Tu sei: del vasto empiro Non ti comprende il giro: La tua parola il fè. E Tu degnasti assumere Questa creata argilla? Qual merto suo, qual grazia A tanto onor sortilla? Se in suo consiglio ascoso Vince il perdon, pietoso Immensamente Egli è. Oggi Egli è nato: ad Efrata, Vaticinato ostello, Ascese un'alma Vergine, La gloria d'Israello, Grave di tal portato: Da cui promise è nato, Donde era atteso uscì. La mira Madre in poveri. Panni il Figliol compose, E nell'umil presepio Soavemente il pose; E l'adorò: beata! Innanzi al Dio prostrata Che il puro sen le aprì. L'Angel del cielo, agli uomini Nunzio di tanta sorte, Non dè potenti volgesi Alle vegliate porte; Ma tra i pastor devoti, Al duro mondo ignoti, Subito in luce appar. E intorno a lui per l'ampia Notte calati a stuolo, Mille celesti strinsero Il fiammeggiante volo; E accesi in dolce zelo, Come si canta in cielo, A Dio gloria cantar. L'allegro inno seguirono, Tornando al firmamento: Tra le varcate nuvole Allontanossi, e lento Il suon sacrato ascese, Fin che più nulla intese La compagnia fedel. Senza indugiar, cercarono L'albergo poveretto Què fortunati, e videro, Siccome a lor fu detto, Videro in panni avvolto, In un presepe accolto, Vagire il Re del Ciel. Dormi, o Fanciul; non piangere; Dormi, o Fanciul celeste: Sovra il tuo capo stridere Non osin le tempeste, Use sull'empia terra, Come cavalli in guerra, Correr davanti a Te. Dormi, o Celeste: i popoli Chi nato sia non sanno; Ma il dì verrà che nobile Retaggio tuo saranno; Che in quell'umil riposo, Che nella polve ascoso, Conosceranno il Re.
Ei fu. Siccome immobile, dato il mortal sospiro, stette la spoglia immemore orba di tanto spiro, così percossa, attonita la terra al nunzio sta, muta pensando all'ultima ora dell'uom fatale; né sa quando una simile orma di piè mortale la sua cruenta polvere a calpestar verrà. Lui folgorante in solio vide il mio genio e tacque; quando, con vece assidua, cadde, risorse e giacque, di mille voci al sònito mista la sua non ha: vergin di servo encomio e di codardo oltraggio, sorge or commosso al sùbito sparir di tanto raggio; e scioglie all'urna un cantico che forse non morrà. Dall'Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno, di quel securo il fulmine tenea dietro al baleno; scoppiò da Scilla al Tanai, dall'uno all'altro mar. Fu vera gloria? Ai posteri l'ardua sentenza: nui chiniam la fronte al Massimo Fattor, che volle in lui del creator suo spirito più vasta orma stampar. La procellosa e trepida gioia d'un gran disegno, l'ansia d'un cor che indocile serve, pensando al regno; e il giunge, e tiene un premio ch'era follia sperar; tutto ei provò: la gloria maggior dopo il periglio, la fuga e la vittoria, la reggia e il tristo esiglio; due volte nella polvere, due volte sull'altar. Ei si nomò: due secoli, l'un contro l'altro armato, sommessi a lui si volsero, come aspettando il fato; ei fè silenzio, ed arbitro s'assise in mezzo a lor. E sparve, e i dì nell'ozio chiuse in sì breve sponda, segno d'immensa invidia e di pietà profonda, d'inestinguibil odio e d'indomato amor. Come sul capo al naufrago l'onda s'avvolve e pesa, l'onda su cui del misero, alta pur dianzi e tesa, scorrea la vista a scernere prode remote invan; tal su quell'alma il cumulo delle memorie scese. Oh quante volte ai posteri narrar se stesso imprese, e sull'eterne pagine cadde la stanca man! Oh quante volte, al tacito morir d'un giorno inerte, chinati i rai fulminei, le braccia al sen conserte, stette, e dei dì che furono l'assalse il sovvenir! E ripensò le mobili tende, e i percossi valli, e il lampo dè manipoli, e l'onda dei cavalli, e il concitato imperio e il celere ubbidir. Ahi! Forse a tanto strazio cadde lo spirto anelo, e disperò; ma valida venne una man dal cielo, e in più spirabil aere pietosa il trasportò; e l'avviò, pei floridi sentier della speranza, ai campi eterni, al premio che i desideri avanza, dov'è silenzio e tenebre la gloria che passò. Bella Immortal! Benefica Fede ai trionfi avvezza! Scrivi ancor questo, allegrati; ché più superba altezza al disonor del Gòlgota giammai non si chinò. Tu dalle stanche ceneri sperdi ogni ria parola: il Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola, sulla deserta coltrice accanto a lui posò.