Poeti estinti, filosofi, preti, martiri, artisti, inventori, governi d'un tempo, forgiatori di lingue su altre rive, nazioni un tempo potenti e ora indebolite, contratte o desolate, io non oso procedere finché non v'abbia rispettosamente dato credito di quanto avete lasciato sparso quaggiù, io l'ho esaminato, riconosco che è ammirevole, (essendovi passato in mezzo, ) penso che mai nulla potrà essere più grande, nulla potrà mai meritare più di quanto esso meriti, mentre lo contemplo con attenzione, a lungo, e poi lo congedo, io sto al mio posto coi miei giorni qui.
Qui terre femminili e maschie, qui eredi e ereditiere del mondo, qui la fiamma della materia, qui la spiritualità mediatrice, apertamente riconosciuta, sempre protesa, il risultato delle forme visibili, colei che soddisfa ed ora avanza dopo la debita attesa, sì, ecco avanzare la mia signora, l'anima.
Canto il se stesso, la semplice singola persona, tuttavia pronuncio la parola Democratico, la parola In-Massa.
L'organismo da capo a piedi io canto, nè la fisionomia nè il cervello sono degni da soli della Musa, io dico che la forma completa è di gran lunga più degna, e la Femmina canto come il Maschio.
Canto la vita immensa nella sua passione, impulso e forza, felice per le azioni più libere sotto le leggi divine, canto l'Uomo Moderno.
Nulla è mai veramente perduto, o può essere perduto, nessuna nascita, forma, identità - nessun oggetto del mondo, né vita, né forza, né alcuna cosa visibile; l'apparenza non deve ingannare, né l'ambito mutato confonderti il cervello. Vasti sono il tempo e lo spazio - vasti i campi della Natura. Il corpo lento, invecchiato, freddo - le ceneri rimaste dai fuochi di un tempo, la luce degli occhi divenuta tenue, tornerà puntualmente a risplendere; il sole ora basso a occidente sorge costante per mattini e meriggi; alle zolle gelate sempre ritorna la legge invisibile della primavera, con l'erba e i fiori e i frutti estivi e il grano.
... La grande città di Priamo Dardanide, ricca e famosa, distrussero, partiti da Argo, per volere del grande Zeus; e per la bellezza della bionda Elena sostennero una lotta molto celebrata, in una guerra luttuosa; e la sventura salì su Pergamo misera a causa di Cipride chioma dorata. Ma non desidero ora cantare né Paride ingannatore degli ospiti, né Cassandra caviglie sottili, né gli altri figli di Priamo, né il giorno inglorioso della conquista di Troia dalle alte porte; né... la virtù superba degli eroi che navi concave dai molti chiodi trasportarono - sciagura per Troia -, nobili eroi. Agamennone potente li comandava, il re discendente da Plistene, condottiero di uomini, figlio del nobile Atreo. Queste gesta solo le Muse Eliconie esperte potrebbero rievocare nel canto; un uomo mortale, vivente, non saprebbe narrare i singoli casi: il gran numero delle navi che da Aulide attraverso il mare Egeo vennero da Argo a Troia che nutre cavalli; e in esse gli eroi dagli scudi di bronzo, figli degli Achei, tra i quali, il più valente nella lancia, Achille veloce nei piedi, e il grande, valoroso Aiace Telamonio. ... (E venne anche colui) che Hyllis dalla cintura d'oro generò: e a lui Troiani e Danai ritenevano simile Troilo nell'aspetto amabile, come oro tre volte cotto all'oricalco. Insieme a loro, avrai anche tu, Policrate, una fama indistruttibile di bellezza per quanto sta al mio canto e alla mia fama.
In primavera, i meli cidoni irrorati dalle correnti dei fiumi, là dov'è il giardino incontaminato delle Vergini - e i fiori della vite, che crescono sotto i tralci ombrosi, ricchi di gemme, germogliano. Per me Eros in nessuna stagione si posa: ma come il tracio Borea, avvampante di folgore, balza dal fianco di Cipride con brucianti follie e tenebroso, intrepido, custodisce con forza, saldamente, il mio cuore.
Il pugno stretto intorno al mio cuore si allenta un poco, e io respiro ansioso luce; ma già preme di nuovo. Quando mai non ho amato la pena d'amore? Ma questa si è spinta
oltre l'amore fino alla mania. Questa ha la forte stretta del demente, questa si aggrappa alla cornice della non-ragione, prima di sprofondare urlando nell'abisso.
Il bimbo guarda fra le dieci dita la bella mela che vi tiene stretta; e indugia - tanto è lucida e perfetta - a dar coi denti quella gran ferita.
Ma dato il morso primo ecco s'affretta: e quel che morde par cosa scipita per l'occhio intento al morso che l'aspetta... E già la mela è per metà finita.
Il bimbo morde ancora - e ad ogni morso sempre è lo sguardo che precede il dente - fin che s'arresta al torso che già tocca.
"Non sentii quasi il gusto e giungo al torso! " Pensa il bambino... Le pupille intente ogni piacere tolsero alla bocca.