Bimbo, la corrente del respiro ha sei giorni. Piccola nocca t'accoccoli sul letto bianco, piccolo e forte, come una chiocciola rattratto ti rannicchi al seno. Le labbra sono animali, sei nutrito con amore. All'inizio la fame non è errore. Tentennano le cuffiette le infermiere, su ceste a rotelle sei pascolato con la nidiata dei senza nido, lungo corridoi inamidati. La tua testa al mio tocco s'inclina, vacilla piano come una tazzina. Senti l'appartenenza. Ma questo è un letto istituzionale. Non farai per molto la mia conoscenza.
I dottori sono smaltati. Vogliono sapere i fatti. Si chiedono dell'uomo che mi ha lasciato, un'anima pendolo che viene e che va e come sempre ti lascia piena di bambino. Ma la nostra cartella clinica rimane vuota. Ti ho lasciato crescere, non ho fatto altro. Ora siamo qui, guardati da tutto il reparto. Hanno pensato che fossi strana Anche se non ho detto una parola. Sono esplosa e svuotandomi di te ti ho lasciato imparare cos'è l'aria. I dottori fanno grafici d'indovinelli. Volgo la testa altrove. Io non lo so.
È tua la sola faccia che riconosco. Ossa da ossa mi bevi le risposte. Sei volte al giorno soddisfo il tuo bisogno, le tue labbra animali, il tepore della pelle che si fa paffuta. Vedo schiudersi le tendine degli occhi. Sono pietre blu, il muschio va sparendo. Sbatti le palpebre stupito, e mi chiedo cosa vedi strano parente che turbi il mio silenzio. Sono un riparo di menzogne. Dovrei di nuovo imparare a parlare, o senza speranza di salute mentale potrò toccare un viso che riconosco?
Nel corridoio ritornano le ceste. Le mie braccia ti calzano a pennello, avvolgono le lanose infiorescenze dei tuoi salici piangenti, l'arnia ronzante d'api dei tuoi nervi, i muscoli e le grinze dei primi giorni. La tua faccia da vecchino disarma le infermiere. I dottori mi rimproverano ancora. Parlo allora. È a te che il mio silenzio nuoce. Dovevo saperlo. Devo far scrivere qualcosa. La voce s'allarma nella gola: "Nome del padre: nessuno". Ti tengo fra le braccia e ti nomino bastardo.
E anche questa è fatta. Non ho più niente da dire, niente da perdere. Altre hanno già trafficato vita e non potevano parlare. Mi rattrappisco per evitare i tuoi occhi gufigni, mio fragile ospite. Sfioro le tue guance come fiori. Al contatto illividisci. Ci disconosciamo. Sono l'insenatura che t'accoglie, lo scoglio contro cui ti frangi. Ti stacchi. Scelgo l'unica via per te, piccolo erede, e ti do via, squassando i noi stessi che perdiamo. Và bimbo che non sei nulla più d'un mio peccato.
Certe donne sposano una casa. Altre pelle, altro cuore altra bocca, altro fegato altra peristalsi. Altre pareti: incarnato stabilmente roseo. Guarda come sta carponi tutto il giorno a strofinar per fedeltà a se stessa. Gli uomini c'entrano per forza, risucchiati come Giona in questa madre ben in carne. Una donna È sua madre. Questo conta.
Una donna che scrive è troppo sensibile e sensuale, quali estasi e portenti! Come se mestrui bimbi ed isole non fossero abbastanza, come se iettatori e pettegoli e ortaggi non fossero abbastanza. Crede di poter prevedere gli astri. Nell'essenza una scrittrice è una spia. Amore mio, così io son ragazza. Un uomo che scrive è troppo colto e cerebrale, quali fatture e feticci! Come se erezioni congressi e merci non fossero abbastanza; come se macchine galeoni e guerre non fossero già abbastanza. Come un mobile usato costruisce un albero. Nell'essenza uno scrittore è un ladro. Amore mio, tu maschio sei così. Mai amando noi stessi, odiando anche le nostre scarpe, i nostri cappelli, ci amiamo preziosa, prezioso. Le nostre mani sono azzurre e gentili, gli occhi pieni di tremende confessioni. Ma quando ci sposiamo ci abbandoniamo ai figli, disgustati. Il cibo è troppo e nessuno è restato a mangiare l'estrosa abbondanza. "
"Rosa fresca aulentis[s]ima, - c'apari inver la state le donne ti disïano - pulzell'e maritate; tra[ji]mi de ste focora - se t'este a bolontate; per te non aio abento notte e dia, penzando pur di voi, madonna mia". "Se di mevi trabagliti, - follia lo ti fa fare, lo mar potresti arompere, - avanti, a semenare, l'abere de sto secolo - tut[t]o quanto asembrare, avereme non poteri a esto monno, avanti li cavelli m'aritonno". "Se li cavelli arton[n]iti, - avanti foss'io morto, [donna], c'aisì mi perdera - lo sol[l]acc[i]o e 'l diporto. Quando ci passo e veioti, - rosa fresca de l'orto, bono conforto donimi tut[t]ore: poniamo che s'aiunga il nostro amore". "Che 'l nostro amore aiungasi - non boglio m'atalenti. Se ci ti trova paremo - co gli altri miei parenti! Guarda non s'ar[i]colgano - questi forti cor[r]enti! Como ti seppe bona la venuta, consiglio che ti guardi a la partuta". "Se i tuoi parenti trova[n]mi, - e che mi pozon fari? Una difensa met[t]oci - di dumilì agostari: non mi toc[c]àra pàdreto - per quanto avere ambari. Viva lo 'mperadore graz[i]' a Deo ! Intendi, bella, che ti dico eo? " "Tu me no lasci vivere - nè sera, nè maitino. Donna mi son di perperi - d'auro massamotino. Se tanto aver donassemi - quanto à lo Saladino e per aiunta quant'à lo Soldano toc[c]areme non poteri a la mano". "Molte sono le fem[m]ine - c'ànno dura la testa, e l'omo con parabole - l'adimina e amonesta, tanto intorno procaz[z]ale - fin che l'à in sua podesta. Fem[m]ina d'omo non si può tenere: guardati, bella, pur de ripentere". "Ch'eo ne [ri]pentesseme? - Davanti foss'io aucisa! Ca nulla bona fem[m]ina - per me fosse riprisa. [A]ersera passastici - cor[r]enno a la distisa. Aquetiti, riposa, canzoneri, tue parabole a me non pìa[c]ion gueri". "Quante sono le schiantora - che m'à[i] mis'a lo core! E solo purpenzannome - la dia quanno vo fore, fem[m]ina de sto secolo - tanto no amai ancore quant'amo teve, rosa invidïata. Ben credo che mi fosti distinata". "Se distinata fosseti, - caderia de l'alteze, ché male messe forano - in teve mie belleze. Se tut[t]o adivenissemi, tagliarami le treze e consore m'arenno a una magione avanti che m'artoc[c]hi 'n la persone". "Se tu consore arenneti, - donna col viso cleri, a lo mostero venoci - e rennomi confleri: per tanta prova vencerti - faralo volonteri. Con teco stao la sera e lo maitino; besogn'è ch'io ti tegna al meo dimino". "Boimé, tapina misera, - com'ao reo distinato! Gieso Cristo l'altissimo - del tut[t]o m'è airato: concepistimi a abattere - in omo blestiemato. Cerca la terra ch'este gran[n]e assai, chiù bella donna di me troverai". Cercat'aio Calabr[ï]a, - Toscana e Lombardia, Puglia, Costantinopoli, - Genova, Pisa e Soria, Lamagna e Babilonïa - [e] tut[t]a Barberia: donna non [ci] trovai tanto cortese, per che sovrana di meve te p[r]ese". "Poi tanto trabagliasti[ti], - fac[c]ioti meo pregheri che tu vadi adoman[n]imi - a mia mare e a mon peri. Se dare mi ti degnano, - menami a lo mosteri e sposami davanti da la jenti; e poi farò li tuò comannamenti". "Di cio che dici, vitama, - neiente non ti bale, ca de le tuo parabole - fatto n'ò ponti e scale. Penne penzasti met[t]ere, - sonti cadute l'ale, e dato t'aio la botta sot[t]ana; dunque, se po[t]i, teniti, villana". "En paura non met[t]ermi - di nullo manganiello: istomi 'n esta grorïa - de sto forte castiello; prezo le tuo parabole - meno che d'un zitello. Se tu no levi e vàtine di quaci, se tu ci fosse morto, ben mi chiaci". Dunque vor[r]esti, vitama, - ca per te fosse strutto? Se morto essere deboci - od intagliato tut[t]o, di quaci non mi mosera - se no ai[o] de lo frutto, lo quale staci ne lo tuo jardino: disïolo la sera e lo matino". "Di quello frutto no ab[b]ero - conti, nè cabalieri; molto lo disïa[ro]no - marchesi e justizieri, avere no nde pottero - gironde molto feri. Intendi bene ciò che bol[e] dire? Men'este di mill'onze lo tuo abire". Molti son li garofani, - ma non che salma nd'ài; bella, non dispregiaremi - s'avanti non m'assai. Se vento in proda girasi - e giungeti a le prai, a rimembrare t'ao ste parole, ca de[n]tra sta animella assai mi dole! " "Macari se doles[s]eti - che cadesse angosciato! La gente ci cor[r]es[s]oro - da traverso e da lato, tut[t]'a meve dicessono - "ac[c]or[r]i a sto malnato! " non ti degnara porgere la mano per quanto avere à 'l Papa e lo Soldano". "Deo lo volesse, vitama, - te fosse morto in casa! L'arma n'anderia consola, - ca dì e notte pantasa. La jente ti chiamarano: - "Oi periura malvasa, c'à[i] morto l'omo in casata, traita! " Sanz'onni colpa levimi la vita". "Se tu no levi e vatine - co la maladizione, li frati miei ti trovano - dentro chissa magione [ .. ] ben lo mi sofero - perdici la persone; c'a meve sè venuto a sormonare, parente o amico non t'ave aitare". "A meve non aitano - amici, nè parenti; istrani[u] mi son, carama, - enfra esta bona jenti. Or fa un anno, vitama, - che 'ntrata mi sè '[n] menti; di canno ti vestisti lo maiuto, bella, da quello jorno son feruto". "Ai, tando 'namorastiti, - [oi] Iuda lo traito? Como se fosse porpore, - iscarlat[t]o o sciamito! S'a le Va[n]gele iurimi - che mi sia a marito, avereme non poter'a sto monno, avanti in mare [j]it[t]omi al perfonno". "Se tu nel mare git[t]iti, - donna cortese e fina, dereto mi ti misera - per tut[t]a la marina, [ e, da ] poi ca 'n[n]egas[t]eti, - trobareti a la rina, solo per questa cosa ad impretare: con teco m'aio agiungere a pec[c]are". "Segnomi in Patre e 'n Filio - ed i[n] Santo Mat[t]eo! So ca non sè tu retico - [o] figlio di giudeo, e cotale parabole - non udì' dire anch'eo! Morta si [è] la fem[m]ina a lo 'ntutto, perdeci lo saboro e lo disdutto". "Bene lo saccio, carama: - altro non poz[z]o fare. Se quisso non arcomplimi, - lassone lo cantare. Fallo, mia donna, plaz[z]ati, - che bene lo puoi fare. Ancora tu no m'ami, molto t'amo sì m'ài preso come lo pesce a l'amo". "Saz[z]o che m'ami, [e] amoti - di core paladino. Levati suso e vat[t]ene, - tornaci a lo matino. Se ciò che dico facemi, - di bon cor t'amo e fino: [eo] quisso ti 'mprometto sanza faglia, tè la mia fede che m'ài in tua baglia". "Per zo che dici, carama, - neiente non mi movo; inanti prenni e scannami, - tolli esto cortel novo. Sto fatto fare potesi - inanti scalfi un uovo. Arcompli mì talento, [a]mica be]la, che l'arma co lo core mi si 'nfella". "Ben saz[z]o l'arma doleti - com'omo c'ave arsura. Sto fatto [far] non potesi - per null'altra misura se non a le Vangel[ï]e - che mo ti dico iura, avereme non puoi in tua podesta; inanti, prenni e tagliami la testa". "Le Vangel[ï]e, carama? - ch'io le porto in sino! A lo mostero presile, - non ci era lo patrino. Sovr'esto libro iuroti - mai non ti vegno mino. Arcompli mì talento in caritate, che l'arma me ne sta in sut[t]ilitate". "Meo sire, poi iurastimi, - eo tut[t]a quanta incenno; sono a la tua presenz[ï]a, - da voi non mi difenno. S'eo minespriso ajoti, - merzè, a voi m'arenno. A lo letto ne gimo a la bon'ura, ché chissà cosa n'è data in ventura".
Solo, fra i mesti miei pensieri, in riva al mar là dove il tosco fiume ha foce, con Fido il mio destrier pian pian men giva; e muggìan l'onde irate in suon feroce.
Quell'ermo lido, e il gran fragor mi empiva il cuor (cui fiamma inestinguibil cuoce) d'alta malinconia; ma grata, e priva di quel suo pianger, che pur tanto nuoce.
Dolce oblio di mie pene e di me stesso nella pacata fantasia piovea; e senza affanno sospirava io spesso:
quella, ch'io sempre bramo, anco parea cavalcando venirne a me dappresso... Nullo error mai felice al par mi fea.
Noi sedemmo sull'orlo della fontana nella vigna d'oro. Sedemmo lacrimosi in silenzio. Le palpebre della mia dolce amica si gonfiavano dietro le lagrime come due vele dietro una leggera brezza marina. Il nostro dolore non era dolore d'amore né dolore di nostalgia né dolore carnale. Noi morivamo tutti i giorni cercando una causa divina il mio dolce bene ed io.
Ma quel giorno già vanía e la causa della nostra morte non era stata rivenuta.
E calò la sera su la vigna d'oro e tanto essa era oscura che alle nostre anime apparve una nevicata di stelle.
Assaporammo tutta la notte i meravigliosi grappoli. Bevemmo l'acqua d'oro, e l'alba ci trovò seduti sull'orlo della fontana nella vigna non piú d'oro.
O dolce mio amore, confessa al viandante che non abbiamo saputo morire negandoci il frutto saporoso e l'acqua d'oro, come la luna.
E aggiungi che non morremo piú e che andremo per la vita errando per sempre.
Io porto tanto amore a una crocetta d'oro che s'apre sul mio cuore. È un tenue lavoro, non è un ricordo, no; come l'ebbi ignoro. Io l'amo poiché so che croce fu dolore, e assai ne spasimò un mio dolce Signore.
Perché tu mi dici: poeta? Io non sono un poeta. Io non sono che un piccolo fanciullo che piange. Vedi: non ha che le lagrime da offrire al Silenzio. Perché tu mi dici: poeta? Le mie tristezze sono povere tristezze comuni. Le mie gioie furono semplici, sempilci così, che se io dovessi confessarle a te arrossirei. Oggi io penso a morire. Io voglio morire, solamente perché sono stanco; solamente perché i grandi angioli su le vetrate delle cattedrali mi fanno tremare d'amore e di angoscia; solamente perché, io sono, oramai, rassegnato come uno specchio, come un povero specchio melanconico. Vedi che io non sono un poeta: sono un fanciullo triste che ha voglia di morire. Oh, non meravigliarti della mia tristezza! E non domandarmi; io non saprei dirti che parole così vane, Dio mio così vane, che mi verrebbe da piangere come se fossi per morire. Le mie lagrime avrebbero l'aria di sgranare un rosario di tristezza davanti alla mia anima sette volte dolente ma io non sarei un poeta; sarei semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme. Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù. E i sacerdoti del silenzio sono i romori, poiché senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio. Questa notte ho dormito con le mani in croce. Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo dimenticato da tutti gli umani, povera tenera preda del primo venuto; e desiderai di essere venduto, di essere battuto di essere costretto a digiunare per potermi mettere a piangere tutto tutto solo, disperatamente triste, in un angolo oscuro. Io amo la vita semolice delle cose. Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco, per ogni cosa che se ne andava! Ma tu non mi comprendi e sorridi. E pensi che io sia malato. Oh, io sono veramente malato! E muoio, un poco, ogni giorno. Vedi: come le cose. Non sono, dunque, un poeta: io so che per esser detto: poeta, conviene viver ben altra vita! Io non so, Dio mio, che morire. Amen.
Sbattuto dalle onde. E in Salmidesso, nudo, lo accolgano benevolmente i Traci dall'alto ciuffo - di molti mali, qui, colmerà la misura, mangiando il pane della schiavitù - lui, irrigidito dal gelo. E fuor della schiuma sia tutto coperto di alghe, e batta i denti, come un cane giacendo bocconi per lo sfinimento lungo la battigia. Questi mali vorrei incontrasse chi m'offese, chi calpestò i giuramenti, l'amico d'un tempo.
Lo avrai camerata Kesserling il monumento che pretendi da noi italiani ma con che pietra si costruirà a deciderlo tocca a noi non con i sassi affumicati dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio non con la terra dei cimiteri dove i nostri compagni giovinetti riposano in serenità non con la neve inviolata delle montagne che per due inverni ti sfidarono non con la primavera di queste valli che ti vide fuggire ma soltanto con il silenzio dei torturati più duro d'ogni macigno soltanto con la roccia di questo patto giurato fra uomini liberi che volontari si adunarono per dignità non per odio decisi a riscattare la vergogna e il terrore del mondo su queste strade se vorrai tornare ai nostri posti ci ritroverai morti e vivi con lo stesso impegno popolo serrato intorno al monumento che si chiama ora e sempre Resistenza.