Ti reco questo figlio d'una notte idumea! Nera, spiumata, pallido sangue all'ala febea, Pel vetro che d'aromi fiammeggianti si dora, Per le finestre, ahimé ghiacciate e fosche ancora, L'aurora si gettò sulla lampada angelica. Palme! E quando mostrò essa quella reliquia Al padre che nemico un sorriso tentò, L'azzurra solitudine inutile tremò. O tu che culli, con la bimba e l'innocenza Dei vostri piedi freddi, accogli quest'orrenda Nascita: ed evocando clavicembalo e viola, Premerai tu col vizzo dito il seno che cola La donna in sibillina bianchezza per la bocca Dall'azzurro affamata, dall'alta aria non tocca?
Del sempiterno azzurro la serena ironia Perséguita, indolente e bella come i fiori, Il poeta impotente di genio e di follia Attraverso un deserto sterile di Dolori.
Fuggendo, gli occhi chiusi, io lo sento che scruta Intensamente, come un rimorso atterrante, L'anima vuota. Dove fuggire? E quale cupa Notte gettare a brani sul suo spregio straziante?
Nebbie, salite! Ceneri e monotoni veli Versate, ad annegare questi autunni fangosi, Lunghi cenci di bruma per i lividi cieli Ed alzate soffitti immensi e silenziosi!
E tu, esci dai morti stagni letei e porta Con te la verde melma e i pallidi canneti, Caro Tedio, per chiudere con una mano accorta I grandi buchi azzurri degli uccelli crudeli.
Ed ancora! Che senza sosta i tristi camini Fùmino, e di caligine una prigione errante Estingua nell'orrore dei suoi neri confini Il sole ormai morente giallastro all'orizzonte!
-Il cielo è morto. - A te, materia, accorro! Dammi L'oblio dell'Ideale crudele e del Peccato: Questo martire viene a divider lo strame Dove il gregge degli uomini felice è coricato.
Io voglio, poiché infine il mio cervello, vuoto Come il vaso d'unguento gettato lungo il muro, Più non sa agghindare il pensiero stentato, Lugubre sbadigliare verso un trapasso oscuro…
Invano! Ecco trionfa l'Azzurro nella gloria Delle campane. Anima, ecco, voce diventa Per più farci paura con malvagia vittoria, Ed esce azzurro angelus dal metallo vivente!
Si espande tra la nebbia, antico ed attraversa La tua agonia nativa, come un gladio sicuro: Dove andare, in rivolta inutile e perversa? Mia ossessione. Azzurro! Azzurro! Azzurro! Azzurro!
L'esangue primavera già tristemente esilia L'inverno, tempo lucido, tempo d'arte serena, E in me, dove un oscuro sangue colma ogni vena, L'impotenza si stira ed a lungo sbadiglia. Crepuscoli s'imbiancano tiepidi nella mente Che come vecchia tomba serra un cerchio di ferro, Ed inseguendo un sogno vago e bello, io erro Pei campi ove la linfa esulta immensamente. Poi procombo snervato di silvestri sentori, E scavando al mio sogno una fossa col viso, Mordendo il suolo caldo dove, sbocciano i fiori, Attendo nell'abisso che il tedio s'alzi... Oh riso Intanto dell'Azzurro sulla siepe e sui voli Degli uccelli ridesti che cinguettano al sole!
Maurizio, non piangere, non sono qui sotto il pino. L'aria profumata della primavera bisbiglia nell'erba dolce, le stelle scintillano, la civetta chiama, ma tu ti affliggi, e la mia anima si estasia nel nirvana beato della luce eterna! Và dal cuore buono che è mio marito, che medita su ciò che lui chiama la nostra colpa d'amore: - digli che il mio amore per te, e così il mio amore per lui, hanno foggiato il mio destino — che attraverso la carne raggiunsi lo spirito e attraverso lo spirito, pace. Non ci sono matrimoni in cielo, ma c'è l'amore.
La luna rossa, il vento, il tuo colore di donna del Nord, la distesa di neve... Il mio cuore è ormai su queste praterie, in queste acque annuvolate dalle nebbie. Ho dimenticato il mare, la grave conchiglia soffiata dai pastori siciliani, le cantilene dei carri lungo le strade dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie, ho dimenticato il passo degli aironi e delle gru nell'aria dei verdi altipiani per le terre e i fiumi della Lombardia. Ma l'uomo grida dovunque la sorte d'una patria. Più nessuno mi porterà nel Sud. Oh, il Sud è stanco di trascinare morti in riva alle paludi di malaria, è stanco di solitudine, stanco di catene, è stanco nella sua bocca delle bestemmie di tutte le razze che hanno urlato morte con l'eco dei suoi pozzi, che hanno bevuto il sangue del suo cuore. Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti, costringono i cavalli sotto coltri di stelle, mangiano fiori d'acacia lungo le piste nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse. Più nessuno mi porterà nel Sud. E questa sera carica d'inverno è ancora nostra, e qui ripeto a te il mio assurdo contrappunto di dolcezze e di furori, un lamento d'amore senza amore.
Il girasole piega a occidente e già precipita il giorno nel suo occhio in rovina e l'aria dell'estate s'addensa e già curva le foglie e il fumo dei cantieri. S'allontana con scorrere secco di nubi e stridere di fulmini quest'ultimo gioco del cielo. Ancora, e da anni, cara, ci ferma il mutarsi degli alberi stretti dentro la cerchia dei Navigli. Ma è sempre il nostro giorno e sempre quel sole che se ne va con il filo del suo raggio affettuoso.
Non ho più ricordi, non voglio ricordare; la memoria risale dalla morte, la vita è senza fine. Ogni giorno è nostro. Uno si fermerà per sempre, e tu con me, quando ci sembri tardi. Qui sull'argine del canale, i piedi in altalena, come di fanciulli, guardiamo l'acqua, i primi rami dentro il suo colore verde che s'oscura. E l'uomo che in silenzio s'avvicina non nasconde un coltello fra le mani, ma un fiore di geranio.
Dicevi: morte, silenzio, solitudine; come amore, vita. Parole delle nostre provvisorie immagini. E il vento s'è levato leggero ogni mattina e il tempo colore di pioggia e di ferro è passato sulle pietre, sul nostro chiuso ronzio di maledetti. Ancora la verità è lontana. E dimmi, uomo spaccato sulla croce, e tu dalle mani grosse di sangue, come risponderò a quelli che domandano? Ora, ora: prima che altro silenzio entri negli occhi, prima che altro vento salga e altra ruggine fiorisca.
Più i giorni s'allontanano dispersi e più ritornano nel cuore dei poeti. Là i campi di Polonia, la piana dì Kutno con le colline di cadaveri che bruciano in nuvole di nafta, là i reticolati per la quarantena d'Israele, il sangue tra i rifiuti, l'esantema torrido, le catene di poveri già morti da gran tempo e fulminati sulle fosse aperte dalle loro mani, là Buchenwald, la mite selva di faggi, i suoi forni maledetti; là Stalingrado, e Minsk sugli acquitrini e la neve putrefatta. I poeti non dimenticano. Oh la folla dei vili, dei vinti, dei perdonati dalla misericordia! Tutto si travolge, ma i morti non si vendono. Il mio paese è l'Italia, o nemico più straniero, e io canto il suo popolo, e anche il pianto coperto dal rumore del suo mare, il limpido lutto delle madri, canto la sua vita.
E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore, fra i morti abbandonati nelle piazze sull'erba dura di ghiaccio, al lamento d'agnello dei fanciulli, all'urlo nero della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo? Alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre cetre erano appese, oscillavano lievi al triste vento.