Se così come sono abietta e vile donna, posso portar sì alto foco, perché non debbo aver almeno un poco di ritraggerlo al mondo e vena e stile? S'Amor con novo, insolito focile, ov'io non potea gir, m'alzò a tal loco, perché non può non con usato gioco far la pena e la penna in me simìle? E, se non può per forza di natura, puollo almen per miracolo, che spesso vince, trapassa e rompe ogni misura. Come ciò sia non posso dir espresso; io provo ben che per mia gran ventura mi sento il cor di novo stile impresso.
Deh, perché così tardo gli occhi apersi nel divin, non umano amato volto, ond'io scorgo, mirando, impresso e scolto un mar d'alti miracoli e diversi? Non avrei, lassa, gli occhi indarno aspersi d'inutil pianto in questo viver stolto, né l'alma avria, com'ha, poco né molto di Fortuna o d'Amore onde dolersi. E sarei forse di sì chiaro grido, che, mercé de lo stil, ch'indi m'è dato, risoneria fors'Adria oggi, e 'l suo lido. Ond'io sol piango il mio tempo passato, mirando altrove; e forse anche mi fido di far in parte il foco mio lodato.
Chi vuol conoscer, donne, il mio signore, miri un signor di vago e dolce aspetto, giovane d'anni e vecchio d'intelletto, imagin de la gloria e del valore: di pelo biondo, e di vivo colore, di persona alta e spazioso petto, e finalmente in ogni opra perfetto, fuor ch'un poco (oimè lassa! ) empio in amore. E chi vuol poi conoscer me, rimiri una donna in effetti ed in sembiante imagin de la morte e dè martiri, un albergo di fé salda e costante, una, che, perché pianga, arda e sospiri, non fa pietoso il suo crudel amante.
Voi, che 'n marmi, in colori, in bronzo, in cera imitate e vincete la natura, formando questa e quell'altra figura, che poi somigli a la sua forma vera, venite tutti in graziosa schiera a formar la più bella creatura, che facesse giamai la prima cura, poi che con le sue man fè la primiera. Ritraggete il mio conte, e siavi a mente qual è dentro ritrarlo, e qual è fore; sì che a tanta opra non manchi niente. Fategli solamente doppio il core, come vedrete ch'egli ha veramente il suo e 'l mio, che gli ha donato Amore.
Quando i' veggio apparir il mio bel raggio, parmi veder il sol, quand'esce fòra; quando fa meco poi dolce dimora, assembra il sol che faccia suo viaggio. E tanta nel cor gioia e vigor aggio, tanta ne mostro nel sembiante allora, quanto l'erba, che pinge il sol ancora a mezzo giorno nel più vago maggio. Quando poi parte il mio sol finalmente, parmi l'altro veder, che scolorita lasci la terra andando in occidente. Ma l'altro torna e rende luce e vita; e del mio chiaro e lucido oriente è 'l tornar dubbio e certa la partita.
Chiaro e famoso mare, sovra 'l cui nobil dosso si posò 'l mio signor, mentre Amor volle; rive onorate e care (con sospir dir lo posso), che 'l petto mio vedeste spesso molle; soave lido e colle, che con fiato amoroso udisti le mie note, d'ira e di sdegno vòte, colme d'ogni diletto e di riposo; udite tutti intenti il suon or degli acerbi miei lamenti. Ì dico che dal giorno che fece dipartita l'idolo, ond'avean pace i miei sospiri, tolti mi fûr d'attorno tutti i ben d'esta vita; e restai preda eterna dè martìri: e, perch'io pur m'adiri e chiami Amor ingrato, che m'involò sì tosto il ben ch'or sta discosto, non per questo a pietade è mai tornato; e tien l'usate tempre, perch'io mi sfaccia e mi lamenti sempre. Deh fosse men lontano almen chi move il pianto, e chi move le giuste mie querele! Ché forse non invano m'affligerei cotanto, e chiamerei Amor empio e crudele, ch'amaro assenzio e fele dopo quel dolce cibo mi fè, lassa, gustare in tempre aspre ed amare. O duro tòsco, che 'n amor delibo, perché fai sì dogliosa la vita mia, che fu già sì gioiosa? Almen, poi che m'è lunge il mio terrestre dio, che sì lontano ancor m'apporta guai, il duol che sì mi punge non mandasse in oblio, e l'udisse ei, per cui piansi e cantai: men acerbi i miei lai, men cruda la mia pena, men fiero il mio tormento, che giorno e notte sento, fôra per la sua luce alma e serena; e sariami 'l dispetto dolce sovra ogni dolce alto diletto. S'egli è pur la mia stella, e se s'accorda il cielo, ch'io moia per cagion così gradita, venga Morte, e con ella Amor, e questo velo tolgan, ed esca fuor l'alma smarrita; che, da suo albergo uscita, volerà lieta in parte, dove s'avrà mercede de la sua viva fede, fede d'esser cantata in mille carte. Ma, lassa, a che non torna chi le tenebre mie con gli occhi adorna? Se tu fossi contenta, canzon, come sei mesta, n'andresti chiara in quella parte e 'n questa.
In alto, in alto, nel çiel, Dove una volta ai me veci, E anca ai tui, Franco Lattes!, Se mostrava el Signor, Vola una cagna. [...] Alegri, dunque, compagni, Alegro, Lattes!, El progresso trionfa. Vardando, o pensando, a una cagna, Nò coremo quei ris-ci.
Ascolto Istanbul ad occhi chiusi Spira una leggera brezza dapprima Lentamente oscillano Le foglie sugli alberi Da lontano, molto lontano I perenni trilli degli acquaioli Ascolto Istanbul ad occhi chiusi.
Ascolto Istanbul ad occhi chiusi E mentre passano gli uccelli A stormi e stridii dall'alto Le reti si ritirano dalle chiuse I piedi di una donna sfiorano l'acqua Ascolto Istanbul ad occhi chiusi.
Ascolto Istanbul ad occhi chiusi Sono freschi i bazar Allegro Mahmut pascià Pieni di colombi i cortili Pervengono battiti di martello dai bacini Dalla dolce brezza primaverile odori di sudore Ascolto Istanbul ad occhi chiusi.
Ascolto Istanbul ad occhi chiusi Ebbra di passati favori Una villa dalle darsena buie Fra il mugghio dell'acquietato scirocco Ascolto Istanbul ad occhi chiusi.
Ascolto Istanbul ad occhi chiusi Passa una fraschetta sul marciapiede Imprecazioni, motivetti, canzoni, frizzi Dalla sua mano cade qualcosa sul selciato Dev'essere una rosa Ascolto Istanbul ad occhi chiusi.
Ascolto Istanbul ad occhi chiusi Ai suoi piedi si dibatte un uccello Non so se la tua fronte scotti o no Non so se le tue labbra siano umide o no Dietro i pistacchi nasce una luna candida Lo percepisco dai battiti del tuo cuore Ascolto Istanbul.
Affascinate, cieli, con la vostra purezza queste notti d'inverno e siate perfetti! Volate più vive nel buio di fuoco, silenziose meteore, e sparite. Tu, luna, sii lenta a tramontare, questa è la tua pienezza!
Le quattro bianche strade se ne vanno in silenzio verso i quattro lati dell'universo stellato. Il tempo cade, come manna, agli angoli della terra invernale.
Noi siamo diventati più umili delle rocce, più attenti delle pazienti colline.
Affascinate con la vostra purezza queste notti di Avvento, o sante sfere, mentre le menti, docili come bestie, stanno vicine, al riparo, nel dolce fieno, e gli intelletti sono più tranquilli delle greggi che pascolano alla luce delle stelle.
Oh, versate, cieli il vostro buio e la vostra luce sulle nostre Solenni vallate; e tu, viaggia come la Vergine gentile verso il maestoso tramonto dei pianeti, o bianca luna piena, silente come Betlemme!
O Betlemme, città del Natale, dunque è ritornato il tempo in cui devi tu rallegrare il nuovo il mondo, il mondo universo. Quei che credono e quei che non vogliono battere la via angusta della croce, si trovano insieme, comunque, a Betlemme.
Ahi, forse il Verbo di Verità è per certuni soltanto una bella, una vecchia leggenda! Eppure quella prima notte, quel primo Natale negli anni remoti di Erode, torna a loro nella mente ogni anno, quando le campane suonano per Natale, e debbono anche loro guardare indietro, nei secoli.
Ancorché pene e fatiche e vanità e bugie riempiano l'andar lento dei giorni vien pure alla fine una notte santa, una notte che sorge in un altro mondo; e quando l'anno declina tardo, giunge come la neve di Dio, una neve di pace sulla terra.
O neve natalizia di Betlemme, cadi soavemente in morbide falde, e semina il grano che deve germinare nei campi dell'eternità. Fà cadere in silenzio candidi semi nei cuori oscuri e freddi, intirizziti dal freddo della notte.
O Bambino Gesù, sulla paglia del presepio fà tacere le voci del mondo. Non c'è luogo nel mondo dove abiterei più contento: portami via dai rischi e dalle cadute, dammi casa a Betlemme, presso di te, santa Maria.