Poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz

Auschwitz

Laggiù, ad Auschwitz, lontano dalla Vistola,
amore, lungo la pianura nordica,
in un campo di morte: fredda, funebre,
la pioggia sulla ruggine dei pali
e i grovigli di ferro dei recinti:
e non albero o uccelli nell'aria grigia
o su dal nostro pensiero, ma inerzia
e dolore che la memoria lascia
al suo silenzio senza ironia o ira.
Da quell'inferno aperto da una scritta
bianca: " Il lavoro vi renderà liberi "
uscì continuo il fumo
di migliaia di donne spinte fuori
all'alba dai canili contro il muro
del tiro a segno o soffocate urlando
misericordia all'acqua con la bocca
di scheletro sotto le doccie a gas.
Le troverai tu, soldato, nella tua
storia in forme di fiumi, d'animali,
o sei tu pure cenere d'Auschwitz,
medaglia di silenzio?
Restano lunghe trecce chiuse in urne
di vetro ancora strette da amuleti
e ombre infinite di piccole scarpe
e di sciarpe d'ebrei: sono reliquie
d'un tempo di saggezza, di sapienza
dell'uomo che si fa misura d'armi,
sono i miti, le nostre metamorfosi.

Sulle distese dove amore e pianto
marcirono e pietà, sotto la pioggia,
laggiù, batteva un no dentro di noi,
un no alla morte, morta ad Auschwitz,
per non ripetere, da quella buca
di cenere, la morte.
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    Al padre

    Dove sull'acque viola
    era Messina, tra fili spezzati
    e macerie tu vai lungo binari
    e scambi col tuo berretto di gallo
    isolano. Il terremoto ribolle
    da due giorni, è dicembre d'uragani
    e mare avvelenato. Le nostre notti cadono
    nei carri merci e noi bestiame infantile
    contiamo sogni polverosi con i morti
    sfondati dai ferri, mordendo mandorle
    e mele dissecate a ghirlanda. La scienza
    del dolore mise verità e lame
    nei giochi dei bassopiani di malaria
    gialla e terzana gonfia di fango.

    La tua pazienza
    triste, delicata, ci rubò la paura,
    fu lezione di giorni uniti alla morte
    tradita, al vilipendio dei ladroni
    presi fra i rottami e giustiziati al buio
    dalla fucileria degli sbarchi, un conto
    di numeri bassi che tornava esatto
    concentrico, un bilancio di vita futura.

    Il tuo berretto di sole andava su e giù
    nel poco spazio che sempre ti hanno dato.
    Anche a me misurarono ogni cosa,
    e ho portato il tuo nome
    un po' più in là dell'odio e dell'invidia.
    Quel rosso del tuo capo era una mitria,
    una corona con le ali d'aquila.
    E ora nell'aquila dei tuoi novant'anni
    ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali
    di partenza colorati dalla lanterna
    notturna, e qui da una ruota
    imperfetta del mondo,
    su una piena di muri serrati,
    lontano dai gelsomini d'Arabia
    dove ancora tu sei, per dirti
    ciò che non potevo un tempo - difficile affinità
    di pensieri - per dirti, e non ci ascoltano solo
    cicale del biviere, agavi lentischi,
    come il campiere dice al suo padrone:
    "Baciamu li mani". Questo, non altro.
    Oscuramente forte è la vita.
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      Natale

      Natale. Guardo il presepe scolpito,
      dove sono i pastori appena giunti
      alla povera stalla di Betlemme.
      Anche i Re Magi nelle lunghe vesti
      salutano il potente Re del mondo.
      Pace nella finzione e nel silenzio
      delle figure di legno: ecco i vecchi
      del villaggio e la stella che risplende,
      e l'asinello di colore azzurro.
      Pace nel cuore di Cristo in eterno;
      ma non v'è pace nel cuore dell'uomo.
      Anche con Cristo e sono venti secoli
      il fratello si scaglia sul fratello.
      Ma c'è chi ascolta il pianto del bambino
      che morirà poi in croce fra due ladri?
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        Lettera alla madre

        "Mater dolcissima, ora scendono le nebbie,
        il Naviglio urta confusamente sulle dighe,
        gli alberi si gonfiano d'acqua, bruciano di neve;
        non sono triste nel Nord: non sono
        in pace con me, ma non aspetto
        perdono da nessuno, molti mi devono lacrime
        da uomo a uomo. So che non stai bene, che vivi
        come tutte le madri dei poeti, povera
        e giusta nella misura d'amore
        per i figli lontani. Oggi sono io
        che ti scrivo. " - Finalmente, dirai, due parole
        di quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto
        e alcuni versi in tasca. Povero, così pronto di cuore
        lo uccideranno un giorno in qualche luogo. -
        "Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo
        di treni lenti che portavano mandorle e arance,
        alla foce dell'Imera, il fiume pieno di gazze,
        di sale, d'eucalyptus. Ma ora ti ringrazio,
        questo voglio, dell'ironia che hai messo
        sul mio labbro, mite come la tua.
        Quel sorriso m'ha salvato da pianti e da dolori.
        E non importa se ora ho qualche lacrima per te,
        per tutti quelli che come te aspettano,
        e non sanno che cosa. Ah, gentile morte,
        non toccare l'orologio in cucina che batte sopra il muro
        tutta la mia infanzia è passata sullo smalto
        del suo quadrante, su quei fiori dipinti:
        non toccare le mani, il cuore dei vecchi.
        Ma forse qualcuno risponde? O morte di pietà,
        morte di pudore. Addio, cara, addio, mia dolcissima mater."
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Povero Catullo

          Povero Catullo, smetti di vaneggiare,
          e quello che vedi  perduto, consideralo perduto.
          Brillarono un tempo per te giorni luminosi,
          quando andavi dovunque ti conduceva lei,
          amata da noi quanto non sarà amata mai nessuna.
          Lì allora si facevano quei tanti giochi d'amore,
          che tu volevi e a cui lei non si negava.
          Brillarono davvero per te un tempo giorno luminosi.
          Ora lei non vuole più: Anche tu non volere, benché incapace di dominarti.
          Non correre dietro a chi fugge, e non essere infelice,
          ma con cuore risoluto resisti, non cedere.
          Addio, fanciulla, ormai Catullo resiste,
          non ti verrà a cercare, non pregherà più te che non vuoi;
          ma tu ti dorrai se non sarai cercata.
          Sciagurata, povera te! Che vita ti aspetta?
          Chi verrà da te ora? Chi ti vedrà bella?
          Chi amerai ? Di chi dirai di essere?
          Chi bacerai? A chi morderai le labbra?
          Ma tu , Catullo, resisti, non cedere.
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            Quegli mi appare esser proprio un dio

            Quegli mi appare esser proprio un dio,
            anzi, se fosse lecito, egli è sopra un dio,
            perché seduto in fronte a te,
            lui se ne sta tranquillo a guardarti e ascoltarti,
            mentre sorridi dolce:
            e invece a me, infelice, svelli del tutto i sentimenti.
            Ché non appena ti vedo, Lesbia, non mi sopravvive un filo di voce.
            Ma s'intorpida la lingua, e una fiamma sottile mi scorre entro le membra,
            le orecchie dentro mi ronzano cupe, e la notte ricopre entrambi i miei lumi.
            Catullo, il tempo libero è la tua rovina, ché troppo ti esalta e ti eccita.
            L'ozio ha distrutto anche re e città un tempo felici.
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              Per l'Anno dei Folli (preghiera)

              O Maria, fragile madre,
              ascoltami, ascoltami adesso
              anche se non so le tue parole.
              Ho in mano il nero rosario, con il suo Cristo d'argento,
              non è prediletto da Dio
              perché io sono l'infedele.
              Ciascuno dei grani è tondo e duro tra le mie dita,
              è un piccolo angelo nero.
              O Maria, concedimi questa grazia,
              concedimi di cambiare,
              sebbene io sia brutta,
              sommersa dal mio stesso passato,
              dalla mia stessa follia.
              Anche se ci sono delle sedie
              io sono sdraiata sul pavimento.
              Solo le mie mani sono salve
              toccando i grani del rosario.
              Una parola dopo l'altra, ci incespico dentro.
              Una principiante, sento la tua bocca toccare la mia.

              Conto i grani come se fossero onde
              che mi martellano contro,
              saperne il numero mi fa ammalare,
              afflitta, afflitta nel cuore dell'estate
              e la finestra sopra di me
              è la sola che mi ascolta, il mio essere goffo.
              Dà in abbondanza, è rilassante.
              L'elargitrice del respiro
              lei, mormora,
              i suoi polmoni esalano come quelli di un enorme pesce.

              Sempre più vicina
              è l'ora della mia morte
              mentre mi risistemo il volto, divento come prima,
              come prima dello sviluppo, con i capelli diritti.
              Tutto ciò è morte.
              Nella mente vi è un esile vicolo chiamato morte
              ed io mi muovo lungo di esso come
              nuotando nell'acqua.
              Il mio corpo è inutile.
              È disteso, accucciato come un cane su un tappeto.
              Si è arreso.
              Qui non ci sono parole se non quelle apprese a metà,
              l'Ave Maria e piena di grazia.
              Ora sono entrata nell'anno senza parole.
              Noto la strana entrata e l'esatto voltaggio.
              Esistono senza parole.
              Senza parole una può toccare il pane
              e riceverlo
              senza emettere alcun suono.

              O Maria, tenero medico, vieni con polveri ed erbe
              perché sono nel centro.
              È veramente piccolo e l'aria è grigia
              come in una casa a vapore.
              Mi porgono del vino come a un bambino si porge del latte.
              Appare in un bicchiere di delicata fattura,
              con la boccia circolare e l'orlo sottile.
              Il vino ha un colore denso, muffa e segreto.
              Il bicchiere si solleva da solo tendendo verso la mia bocca
              e me ne accorgo e lo capisco
              soltanto perché è successo.

              Io ho questa paura di tossire
              ma non parlo,
              la paura della pioggia, la paura del cavaliere
              che arriva galoppando nella mia bocca.
              Il bicchiere si inclina da solo
              e io prendo fuoco.
              Vedo due sottili righe che mi bruciano rapide giù per il mento.
              Mi vedo come se mi vedesse un altro.
              Sono stata tagliata in due.

              O Maria, apri le tue palpebre,
              io sono nel dominio del silenzio,
              nel regno della pazzia e del sonno.
              C'è sangue qui
              ed io l'ho mangiato.
              O madre del grembo,
              sono venuta soltanto per il sangue?
              O piccola madre
              Sono dentro i miei pensieri.
              Sono rinchiusa nella casa sbagliata.
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                Scritta da: Silvana Stremiz
                Altri mai foco, stral, prigione o nodo
                sì vivo e acuto, e sì aspra e sì stretto
                non arse, impiagò, tenne e strinse il petto,
                quanto 'l mì ardente, acuto, acerba e sodo.
                Né qual io moro e nasco, e peno e godo,
                mor'altra e nasce, e pena ed ha diletto,
                per fermo e vario e bello e crudo aspetto,
                che 'n voci e 'n carte spesso accuso e lodo.
                Né fûro ad altrui mai le gioie care,
                quanto è a me, quando mi doglio e sfaccio,
                mirando a le mie luci or fosche or chiare.
                Mi dorrà sol, se mi trarrà d'impaccio,
                fin che potrò e viver ed amare,
                lo stral e 'l foco e la prigione e 'l laccio.
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                  Scritta da: Silvana Stremiz
                  Arbor felice, aventuroso e chiaro.
                  Onde i due rami sono al mondo nati,
                  che vanno in alto, e son già tanto alzati,
                  quanto raro altri rami unqua s'alzâro:
                  rami che vanno ai grandi Scipi a paro,
                  o s'altri fûr di lor mai più lodati
                  (ben lo sanno i miei occhi fortunati,
                  che per bearsi in un d'essi miraro),
                  a te, tronco, a voi rami, sempre il cielo
                  piova rugiada, sì che non v'offenda
                  per avversa stagion caldo, né gelo.
                  La chioma vostra e l'ombra s'apra e stenda
                  verde per tutto; e d'onorato zelo
                  odor, fior, frutti a tutt'Italia renda.
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