Laggiù, ad Auschwitz, lontano dalla Vistola, amore, lungo la pianura nordica, in un campo di morte: fredda, funebre, la pioggia sulla ruggine dei pali e i grovigli di ferro dei recinti: e non albero o uccelli nell'aria grigia o su dal nostro pensiero, ma inerzia e dolore che la memoria lascia al suo silenzio senza ironia o ira. Da quell'inferno aperto da una scritta bianca: " Il lavoro vi renderà liberi " uscì continuo il fumo di migliaia di donne spinte fuori all'alba dai canili contro il muro del tiro a segno o soffocate urlando misericordia all'acqua con la bocca di scheletro sotto le doccie a gas. Le troverai tu, soldato, nella tua storia in forme di fiumi, d'animali, o sei tu pure cenere d'Auschwitz, medaglia di silenzio? Restano lunghe trecce chiuse in urne di vetro ancora strette da amuleti e ombre infinite di piccole scarpe e di sciarpe d'ebrei: sono reliquie d'un tempo di saggezza, di sapienza dell'uomo che si fa misura d'armi, sono i miti, le nostre metamorfosi.
Sulle distese dove amore e pianto marcirono e pietà, sotto la pioggia, laggiù, batteva un no dentro di noi, un no alla morte, morta ad Auschwitz, per non ripetere, da quella buca di cenere, la morte.
Dove sull'acque viola era Messina, tra fili spezzati e macerie tu vai lungo binari e scambi col tuo berretto di gallo isolano. Il terremoto ribolle da due giorni, è dicembre d'uragani e mare avvelenato. Le nostre notti cadono nei carri merci e noi bestiame infantile contiamo sogni polverosi con i morti sfondati dai ferri, mordendo mandorle e mele dissecate a ghirlanda. La scienza del dolore mise verità e lame nei giochi dei bassopiani di malaria gialla e terzana gonfia di fango.
La tua pazienza triste, delicata, ci rubò la paura, fu lezione di giorni uniti alla morte tradita, al vilipendio dei ladroni presi fra i rottami e giustiziati al buio dalla fucileria degli sbarchi, un conto di numeri bassi che tornava esatto concentrico, un bilancio di vita futura.
Il tuo berretto di sole andava su e giù nel poco spazio che sempre ti hanno dato. Anche a me misurarono ogni cosa, e ho portato il tuo nome un po' più in là dell'odio e dell'invidia. Quel rosso del tuo capo era una mitria, una corona con le ali d'aquila. E ora nell'aquila dei tuoi novant'anni ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali di partenza colorati dalla lanterna notturna, e qui da una ruota imperfetta del mondo, su una piena di muri serrati, lontano dai gelsomini d'Arabia dove ancora tu sei, per dirti ciò che non potevo un tempo - difficile affinità di pensieri - per dirti, e non ci ascoltano solo cicale del biviere, agavi lentischi, come il campiere dice al suo padrone: "Baciamu li mani". Questo, non altro. Oscuramente forte è la vita.
Natale. Guardo il presepe scolpito, dove sono i pastori appena giunti alla povera stalla di Betlemme. Anche i Re Magi nelle lunghe vesti salutano il potente Re del mondo. Pace nella finzione e nel silenzio delle figure di legno: ecco i vecchi del villaggio e la stella che risplende, e l'asinello di colore azzurro. Pace nel cuore di Cristo in eterno; ma non v'è pace nel cuore dell'uomo. Anche con Cristo e sono venti secoli il fratello si scaglia sul fratello. Ma c'è chi ascolta il pianto del bambino che morirà poi in croce fra due ladri?
"Mater dolcissima, ora scendono le nebbie, il Naviglio urta confusamente sulle dighe, gli alberi si gonfiano d'acqua, bruciano di neve; non sono triste nel Nord: non sono in pace con me, ma non aspetto perdono da nessuno, molti mi devono lacrime da uomo a uomo. So che non stai bene, che vivi come tutte le madri dei poeti, povera e giusta nella misura d'amore per i figli lontani. Oggi sono io che ti scrivo. " - Finalmente, dirai, due parole di quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto e alcuni versi in tasca. Povero, così pronto di cuore lo uccideranno un giorno in qualche luogo. - "Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo di treni lenti che portavano mandorle e arance, alla foce dell'Imera, il fiume pieno di gazze, di sale, d'eucalyptus. Ma ora ti ringrazio, questo voglio, dell'ironia che hai messo sul mio labbro, mite come la tua. Quel sorriso m'ha salvato da pianti e da dolori. E non importa se ora ho qualche lacrima per te, per tutti quelli che come te aspettano, e non sanno che cosa. Ah, gentile morte, non toccare l'orologio in cucina che batte sopra il muro tutta la mia infanzia è passata sullo smalto del suo quadrante, su quei fiori dipinti: non toccare le mani, il cuore dei vecchi. Ma forse qualcuno risponde? O morte di pietà, morte di pudore. Addio, cara, addio, mia dolcissima mater."
Mia Lesbia sei stata amata da me in modo così totale che in modo uguale amata non c'è donna e non ci sarà. Non si vedrà mai più in amorosi legami tanto rigore di fedeltà quanto si vide in me nell'amore che ti portai.
Povero Catullo, smetti di vaneggiare, e quello che vedi perduto, consideralo perduto. Brillarono un tempo per te giorni luminosi, quando andavi dovunque ti conduceva lei, amata da noi quanto non sarà amata mai nessuna. Lì allora si facevano quei tanti giochi d'amore, che tu volevi e a cui lei non si negava. Brillarono davvero per te un tempo giorno luminosi. Ora lei non vuole più: Anche tu non volere, benché incapace di dominarti. Non correre dietro a chi fugge, e non essere infelice, ma con cuore risoluto resisti, non cedere. Addio, fanciulla, ormai Catullo resiste, non ti verrà a cercare, non pregherà più te che non vuoi; ma tu ti dorrai se non sarai cercata. Sciagurata, povera te! Che vita ti aspetta? Chi verrà da te ora? Chi ti vedrà bella? Chi amerai ? Di chi dirai di essere? Chi bacerai? A chi morderai le labbra? Ma tu , Catullo, resisti, non cedere.
Quegli mi appare esser proprio un dio, anzi, se fosse lecito, egli è sopra un dio, perché seduto in fronte a te, lui se ne sta tranquillo a guardarti e ascoltarti, mentre sorridi dolce: e invece a me, infelice, svelli del tutto i sentimenti. Ché non appena ti vedo, Lesbia, non mi sopravvive un filo di voce. Ma s'intorpida la lingua, e una fiamma sottile mi scorre entro le membra, le orecchie dentro mi ronzano cupe, e la notte ricopre entrambi i miei lumi. Catullo, il tempo libero è la tua rovina, ché troppo ti esalta e ti eccita. L'ozio ha distrutto anche re e città un tempo felici.
O Maria, fragile madre, ascoltami, ascoltami adesso anche se non so le tue parole. Ho in mano il nero rosario, con il suo Cristo d'argento, non è prediletto da Dio perché io sono l'infedele. Ciascuno dei grani è tondo e duro tra le mie dita, è un piccolo angelo nero. O Maria, concedimi questa grazia, concedimi di cambiare, sebbene io sia brutta, sommersa dal mio stesso passato, dalla mia stessa follia. Anche se ci sono delle sedie io sono sdraiata sul pavimento. Solo le mie mani sono salve toccando i grani del rosario. Una parola dopo l'altra, ci incespico dentro. Una principiante, sento la tua bocca toccare la mia.
Conto i grani come se fossero onde che mi martellano contro, saperne il numero mi fa ammalare, afflitta, afflitta nel cuore dell'estate e la finestra sopra di me è la sola che mi ascolta, il mio essere goffo. Dà in abbondanza, è rilassante. L'elargitrice del respiro lei, mormora, i suoi polmoni esalano come quelli di un enorme pesce.
Sempre più vicina è l'ora della mia morte mentre mi risistemo il volto, divento come prima, come prima dello sviluppo, con i capelli diritti. Tutto ciò è morte. Nella mente vi è un esile vicolo chiamato morte ed io mi muovo lungo di esso come nuotando nell'acqua. Il mio corpo è inutile. È disteso, accucciato come un cane su un tappeto. Si è arreso. Qui non ci sono parole se non quelle apprese a metà, l'Ave Maria e piena di grazia. Ora sono entrata nell'anno senza parole. Noto la strana entrata e l'esatto voltaggio. Esistono senza parole. Senza parole una può toccare il pane e riceverlo senza emettere alcun suono.
O Maria, tenero medico, vieni con polveri ed erbe perché sono nel centro. È veramente piccolo e l'aria è grigia come in una casa a vapore. Mi porgono del vino come a un bambino si porge del latte. Appare in un bicchiere di delicata fattura, con la boccia circolare e l'orlo sottile. Il vino ha un colore denso, muffa e segreto. Il bicchiere si solleva da solo tendendo verso la mia bocca e me ne accorgo e lo capisco soltanto perché è successo.
Io ho questa paura di tossire ma non parlo, la paura della pioggia, la paura del cavaliere che arriva galoppando nella mia bocca. Il bicchiere si inclina da solo e io prendo fuoco. Vedo due sottili righe che mi bruciano rapide giù per il mento. Mi vedo come se mi vedesse un altro. Sono stata tagliata in due.
O Maria, apri le tue palpebre, io sono nel dominio del silenzio, nel regno della pazzia e del sonno. C'è sangue qui ed io l'ho mangiato. O madre del grembo, sono venuta soltanto per il sangue? O piccola madre Sono dentro i miei pensieri. Sono rinchiusa nella casa sbagliata.
Altri mai foco, stral, prigione o nodo sì vivo e acuto, e sì aspra e sì stretto non arse, impiagò, tenne e strinse il petto, quanto 'l mì ardente, acuto, acerba e sodo. Né qual io moro e nasco, e peno e godo, mor'altra e nasce, e pena ed ha diletto, per fermo e vario e bello e crudo aspetto, che 'n voci e 'n carte spesso accuso e lodo. Né fûro ad altrui mai le gioie care, quanto è a me, quando mi doglio e sfaccio, mirando a le mie luci or fosche or chiare. Mi dorrà sol, se mi trarrà d'impaccio, fin che potrò e viver ed amare, lo stral e 'l foco e la prigione e 'l laccio.
Arbor felice, aventuroso e chiaro. Onde i due rami sono al mondo nati, che vanno in alto, e son già tanto alzati, quanto raro altri rami unqua s'alzâro: rami che vanno ai grandi Scipi a paro, o s'altri fûr di lor mai più lodati (ben lo sanno i miei occhi fortunati, che per bearsi in un d'essi miraro), a te, tronco, a voi rami, sempre il cielo piova rugiada, sì che non v'offenda per avversa stagion caldo, né gelo. La chioma vostra e l'ombra s'apra e stenda verde per tutto; e d'onorato zelo odor, fior, frutti a tutt'Italia renda.