Poesie d'Autore


Scritta da: Silvana Stremiz
in Poesie (Poesie d'Autore)

Advertencia

Yo no permito que nadie me diga
que no comprende los antipoemas
todos deben reir a carcajadas.

Para eso me rompo la cabeza
para llegar al alma del lector.

Déjense de preguntas.
En el lecho de muerte
cada uno se rasca con sus uñas.

Además una cosa:
yo no tengo ningún inconveniente
en meterme en camisa de once varas.
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    Scritta da: Silvana Stremiz
    in Poesie (Poesie d'Autore)
    Non come volse Pinabello avvenne
    de l'innocente giovane la sorte;
    perché, giù diroccando a ferir venne
    prima nel fondo il ramo saldo e forte.
    Ben si spezzò, ma tanto la sostenne,
    che 'l suo favor la liberò da morte.
    Giacque stordita la donzella alquanto,
    come io vi seguirò ne l'altro canto.
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      in Poesie (Poesie d'Autore)
      Dove è tagliato, in man lo raccomanda
      a Pinabello, e poscia a quel s'apprende:
      prima giù i piedi ne la tana manda,
      e su le braccia tutta si suspende.
      Sorride Pinabello, e le domanda
      come ella salti; e le man apre e stende,
      dicendole: - Qui fosser teco insieme
      tutti li tuoi, ch'io ne spegnessi il seme! -.
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        Scritta da: Silvana Stremiz
        in Poesie (Poesie d'Autore)
        Bradamante, che come era animosa,
        così mal cauta, a Pinabel diè fede;
        e d'aiutar la donna, disiosa,
        si pensa come por colà giù il piede.
        Ecco d'un olmo alla cima frondosa
        volgendo gli occhi, un lungo ramo vede;
        e con la spada quel subito tronca,
        e lo declina giù ne la spelonca.
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          Scritta da: Silvana Stremiz
          in Poesie (Poesie d'Autore)

          Tedio invernale

          Ma ci fu dunque un giorno
          Su questa terra il sole?
          Ci fur rose e viole,
          Luce, sorriso, ardor?
          Ma ci fu dunque un giorno
          La dolce giovinezza,
          La gloria e la bellezza,
          Fede, virtude, amor?
          Ciò forse avvenne a i tempi
          D'Omero e di Valmichi:
          Ma quei son tempi antichi,
          Il sole or non è più.
          E questa ov'io m'avvolgo
          Nebbia di verno immondo
          È il cenere d'un mondo
          Che forse un giorno fu.
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            Scritta da: Silvana Stremiz
            in Poesie (Poesie d'Autore)

            Avanti! Avanti!

            I
            Avanti, avanti, o sauro destrier de la canzone!
            L'aspra tua chioma porgimi, ch'io salti anche in arcione
            Indomito destrier.
            A noi la polve e l'ansia del corso, e i rotti venti,
            E il lampo de le selici percosse, e de i torrenti
            L'urlo solingo e fier.
            I bei ginnetti italici han pettinati crini,
            Le constellate e morbide aiuole dè giardini
            Sono il lor dolce agon:
            Ivi essi caracollano in faccia a i loro amori,
            La giuba a tempo fluttua vaga tra i nastri e i fiori
            De le fanfare al suon;
            E, se lungi la polvere scorgon del nostro corso,
            Il picciol collo inarcano e masticando il morso
            Par che rignino - Ohibò! -
            Ma l'alfana che strascica su l'orlo de la via
            Sotto gualdrappe e cingoli la lunga anatomia
            D'un corpo che invecchiò,
            Ripensando gli scalpiti dè corteggi e le stalle
            Dè tepid'ozi e l'adipe de la pasciuta valle,
            Guarda con muto orror.
            E noi corriamo à torridi soli, à cieli stellati,
            Per note plaghe e incognite, quai cavalier fatati,
            Dietro un velato amor.
            Avanti, avanti, o sauro destrier, mio forte amico!
            Non vedi tu le parie forme del tempo antico
            Accennarne colà ?
            Non vedi tu d'Angelica ridente, o amico, il velo
            Solcar come una candida nube l'estremo cielo?
            Oh gloria, oh libertà!

            II
            Ahi, dà prim'anni, o gloria, nascosi del mio cuore
            Nè superbi silenzii il tuo superbo amore.
            Le fronti alte del lauro nel pensoso splendor
            Mi sfolgorar dà gelidi marmi nel petto un raggio,
            Ed obliai le vergini danzanti al sol di maggio
            E i lampi dè bianchi omeri sotto le chiome d'òr.
            E tutto ciò che facile allor prometton gli anni
            Io 'l diedi per un impeto lacrimoso d'affanni,
            Per un amplesso aereo in faccia a l'avvenir.
            O immane statua bronzea su dirupato monte,
            Solo i grandi t'aggiungono, per declinar la fronte
            Fredda su 'l tuo fredd'omero e lassi ivi morir.
            A più frequente palpito di umani odii e d'amori
            Meglio il petto m'accesero nè lor severi ardori
            Ultime dee superstiti giustizia e libertà;
            E uscir credeami italico vate a la nuova etade,
            Le cui strofe al ciel vibrano come rugghianti spade,
            E il canto, ala d'incendio, divora i boschi e va.
            Ahi, lieve i duri muscoli sfiora la rima alata!
            Co 'l tuon de l'arma ferrea nel destro pugno arcata,
            Gentil leopardo lanciasi Camillo Demulèn,
            E cade la Bastiglia. Solo Danton dislaccia,
            Per rivelarti à popoli, con le taurine braccia,
            repubblica vergine, l'amazonio tuo sen.
            A noi le pugne inutili. Tu cadevi, o Mameli,
            Con la pupilla cerula fisa a gli aperti cieli
            Tra un inno e una battaglia cadevi; e come un fior
            Ti rideva da l'anima la fede allor che il bello
            E biondo capo languido chinavi, e te, fratello,
            Copria l'ombra siderea di Roma e i tre color;
            Ed al fuggir de l'anima su la pallida faccia
            Protendea la repubblica santa le aperte braccia
            Diritta in fra i romulei colli e l'occiduo sol.
            Ma io d'intorno premere veggo schiavi e tiranni,
            Ma io su 'l capo stridere m'odo fuggenti gli anni
            —Che mai canta, susurrano, costui torbido e sol?
            Ei canta e culla i queruli mostri de la sua mente,
            E quel che vive e s'agita nel mondo egli non sente.—
            O popolo d'Italia, vita del mio pensier,
            O popolo d'Italia, vecchio titano ignavo,
            Vile io ti dissi in faccia, tu mi gridasti: Bravo;
            E dè miei versi funebri t'incoroni il bicchier.

            III
            Avanti, avanti, o indomito destrier de gl'inni alato !
            Obliar vò nel rapido corso l'inerte fato,
            I gravi e oscuri dí.
            Ricordi tu, bel sauro, quando al tuo primo salto
            I falchi salutarono augurando ne l'alto
            E il bufolo muggí?
            Ricordi tu le vedove piagge del mar toscano,
            Ove china su 'l nubilo inseminato piano
            La torre feudal
            Con lunga ombra di tedio da i colli arsicci e foschi
            Veglia de le rasenie cittadi in mezzo à boschi
            Il sonno sepolcral,
            Mentre tormenta languido sirocco gli assetati
            Caprifichi che ondeggiano su i gran massi quadrati
            Verdi tra il cielo e il mar,
            Su i gran massi cui vigile il mercator tirreno
            Saliva, le fenicie rosse vele nel seno
            Azzurro ad aspettar?
            Ricordi Populonia, e Roselle, e la fiera
            Torre di Donoratico a la cui porta nera
            Conte Ugolin bussò
            Con lo scudo e con l'aquile a la Meloria infrante,
            Il grand'elmo togliendosi da la fronte che Dante
            Ne l'inferno ammirò?
            Or (dolce a la memoria) una quercia su 'l ponte
            Levatoio verdeggia e bisbiglia, e del conte
            Novella il cacciator
            Quando al purpureo vespero su la bertesca infida
            I falchetti famelici empiono il ciel di strida
            E il can guarda al clamor.
            Là tu crescesti, o sauro destrier de gl'inni, meco;
            E la pietra pelasgica ed il tirreno speco
            Furo il mio solo altar
            E con me nel silenzio meridian fulgente
            I lucumoni e gli àuguri de la mia prima gente
            Veniano a conversar.
            E tu pascevi, o alivolo corridore, la biada
            Che nè solchi de i secoli aperti con la spada
            Del console roman
            Dante, etrusco pontefice redivivo, gettava;
            Onde al cielo il tuo florido terzo maggio esultava,
            Comune italian,
            Tra le germane faide e i salmi nazareni
            Esultava nel libero lavoro e ne i sereni
            Canti dè mietitor.
            Chi di quell'orzo il pascesi, o nobile corsiero,
            Ha forti nervi e muscoli, ha gentile ed intero
            Nel sano petto il cor.
            Dammi or dunque, apollinea fiera, l'alato dorso:
            Ecco, tutte le redini io ti libero al corso:
            Corriam, fiera gentil.
            Corriam de gli avversarii sovra le teste e i petti,
            Dè mostri il sangue imporpori i tuoi ferrei garetti;
            E a noi rida l'april,
            L'april dè colli italici vaghi di mèssi e fiori,
            L'april santo de l'anima piena di nuovi amori,
            L'aprile del pensier.
            Voliam, sin che la folgore di Giove tra la rotta
            Nube ci arda e purifichi, o che il torrente inghiotta
            Cavallo e cavalier,
            O ch'io discenda placido dal tuo stellante arcione,
            Con l'occhio ancora gravido di luce e visione,
            Su 'l toscano mio suol,
            Ed al fraterno tumolo posi da la fatica,
            Gustando tu il trifoglio da una bell'urna antica
            Verso il morente sol.
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              Scritta da: Silvana Stremiz
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              An die Melancholie / Alla malinconia

              Zum Wein, zu Freunden bin ich dir entflohn,
              Da mir vor deinem dunklen Auge graute,
              In Liebesarmen und beim Kiang der Laute
              Vergaß ich dich, dein ungetreuer Sohn.

              Du aber gingest mir verschwiegen nach
              Und warst im Wein, den ich verzweifelt zechte,
              Warst in der Schwüle meiner Liebesnächte
              Und warest noch im Hohn, den ich dir sprach.

              Nun kühlst du die erschöpften Glieder mir
              Und hast mein Haupt in deinen Schoß genommen,
              Da ich von meinen Fahrten heimgekommen:
              Denn all mein Irren war ein Weg zu dir.


              Fuggendo da te mi sono dato ad amici e vino,
              perché dei tuoi occhi oscuri avevo paura,
              e nelle braccia dell'amore ed ascoltando il liuto
              ti dimenticai, io tuo figlio infedele.

              Tu però in silenzio mi seguivi,
              ed eri nel vino che disperato bevevo,
              ed eri nel calore delle mie notti d'amore,
              ed eri anche nello scherno, che t'esprimevo.

              Ora mi rinfreschi le mie membra sfinite
              ed accolto hai nel tuo grembo il mio capo,
              ora che dai miei viaggi son tornato:
              tutto il mio vagare dunque era un cammino verso di te.
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                Scritta da: Silvana Stremiz
                in Poesie (Poesie d'Autore)

                Contusione

                Colore inonda la macchia, porpora cupo.
                Tutto slavato è il resto del corpo,
                ha colore di perla.

                In un anfratto di rupe
                risucchia il mare ossesivamente,
                un solo vuoto è perno di tutto il mare.

                Non più grande che una mosca
                il marchio funesto
                striscia giù per il muro.

                Il cuore si chiude,
                il mare cala,
                gli occhi sono schermati.
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