Sognai, placide cose dè miei novelli anni sognai. Non più libri: la stanza dal sole di luglio affocata, rintronata da i carri rotolanti su 'l ciottolato da la città, slargossi: sorgeanmi intorno i miei colli, cari selvaggi colli che il giovane april rifioria.
Lina, brumaio torbido inclina, Ne l'aer gelido monta la sera: E a me ne l'anima fiorisce, o Lina, La primavera. In lume roseo, vedi, il nivale Fedriade vertice sorge e sfavilla, E di Castalia l'onda vocale Mormora e brilla. Delfo a' suoi tripodi chiaro sonanti Rivoca Apolline co' nuovi soli, Con i virginei peana e i canti De' rusignoli. Da gl'iperborei lidi al pio suolo Ei riede, a' lauri dal pigro gelo: Due cigni il traggono candidi a volo: Sorride il cielo. Al capo ha l'aurea benda di Giove; Ma nel crin florido l'aura sospira E con un tremito d'amor gli move In man la lira. D'intorno girano come in leggera Danza le Cicladi patria del nume, Da lungi plaudono Cipro e Citera Con bianche spume. E un lieve il séguita pe 'l grande Egeo Legno, a purpuree vele, canoro: Armato règgelo per l'onde Alceo Dal plettro d'oro. Saffo dal candido petto anelante A l'aura ambrosia che dal dio vola, Dal riso morbido, da l'ondeggiante Crin di viola, In mezzo assidesi. Lina, quieti I remi pendono: sali il naviglio. Io, de gli eolii sacri poeti Ultimo figlio, Io meco traggoti per l'aure achive: Odi le cetere tinnir: montiamo: Fuggiam le occidue macchiate rive, Dimentichiamo.
Pur da queste serene erme pendici D'altra vita al rumor ritornerò; Ma nel memore petto, o nuovi amici, Un desio dolce e mesto io porterò. Tua verde valle ed il bel colle aprico Sempre, o Bulcian, mi pungerà d'amor; Bulciano, albergo di baroni antico, Or di libere menti e d'alti cor. E tu che al cielo, Cerbaiol, riguardi Discendendo da i balzi d'Apennin, Come gigante che svegliato tardi S'affretta in caccia e interroga il mattin, Tu ancor m'arridi. E, quando a i freschi venti Di su l'aride carte anelerà L'anima stanca, a voi, poggi fiorenti, Balze austere e felici, a voi verrà. Fiume famoso il breve piano inonda; Ama la vite i colli; e, a rimirar Dolce, fra verdi querce ecco la bionda Spiga in alto a l'alpestre aura ondeggiar. De i vecchi prepotenti in su gli spaldi Pasce la vacca e mira lenta al pian; E de le torri, ostello di ribaldi, Crebbe l'utile casa al pio villan. Dove il bronzo dè frati in su la sera Solo rompeva, od accrescea, l'orror, Croscia il mulino, suona la gualchiera E la canzone del vendemmiator. Coraggio, amici. Se di vive fonti Corse, tocco dal santo, il balzo alpin, A voi saggi ed industri i patrii monti Iscaturiscan di fumoso vin: Del vin ch'edúca il forte suolo amico Di ferro e zolfo con natia virtú: Col quale io libo al padre Tebro antico, Al Tebro tolto al fin di servitù. Fiume d'Italia, a le tue sacre rive Peregrin mossi con devoto amor Il tuo nume adorando, e de le dive Memorie l'ombra mi tremava in cor. E pensai quanto i tuoi clivi Tarconte Coronato pontefice salì, E, fermo l'occhio nero a l'orizzonte, Di leggi e d'armi il popol suo partì; E quando la fatal prora d'Enea Per tanto mar la foce tua cercò, E l'aureo scudo de la madre dea In su l'attonit'onde al sol raggiò; E quando Furio e l'arator d'Arpino, Imperador plebeo, tornava a te, E coprivan l'altar capitolino Spoglie di galli e di tedeschi re. Fiume d'Italia, e tu l'origin traggi Da questa Etruria ond'è ogni nostro onor; Ma, dove nasci tra gli ombrosi faggi, L'agnel ti salta e túrbati il pastor. Meglio cosí, che tra marmoree sponde Patir l'oltraggio dè chercuti re, E con l'orgoglio de le tumid'onde L'orme lambire d'un crociato piè. Volgon, fiume d'Italia, omai tropp'anni Che la vergogna dura: or via, non piú. Ecco, un grido io ti do - Morte à tiranni -; Portalo, o fiume, a Ponte Milvio, tu. Portal con suono ch'ogni suon confonda, Portal con le procelle d'Apennin, Portalo, o fiume; e un'eco ti risponda Dal gran monte plebeo, da l'Aventin. Tende l'orecchio Italia e il cenno aspetta: Allor chi fia che la vorrà infrenar ? Cento schiere di prodi a la vendetta Da le tue valli verran teco al mar. Risplendi, o fausto giorno. Ahi, se piú tardi, Romito e taumaturgo esser vorrò: Da la faccia dè rei figli codardi Ne le tombe dè padri io fuggirò. Con l'arti vò che cielo o inferno insegna Da questi monti il foco isprigionar, E fiamme in vece d'acqua a Roma indegna, Al Campidoglio vile io vò mandar.
Poi che un sereno vapor d'ambrosia da la tua coppa diffuso avvolsemi, o Ebe con passo di dea trasvolata sorridendo via; non più del tempo l'ombra o de l'algide cure su 'l capo mi sento; sentomi, o Ebe, l'ellenica vita tranquilla ne le vene fluire. E i ruinati giù pe 'l declivio de l'età mesta giorni risursero, o Ebe, nel tuo dolce lume agognanti di rinnovellare; e i novelli anni da la caligine volenterosi la fronte adergono, o Ebe, al tuo raggio che sale tremolando e roseo li saluta. A gli uni e gli altri tu ridi, nitida stella, da l'alto. Tale ne i gotici delùbri, tra candide e nere cuspidi rapide salïenti con doppia al cielo fila marmorea, sta su l'estremo pinnacol placida la dolce fanciulla di Jesse tutta avvolta di faville d'oro. Le ville e il verde piano d'argentei fiumi rigato contempla aerea, le messi ondeggianti nè campi, le raggianti sopra l'alpe nevi: a lei d'intorno le nubi volano; fuor de le nubi ride ella fulgida a l'albe di maggio fiorenti, a gli occasi di novembre mesti.
È l'alba. S'illumina il mondo come l'acqua che lascia cadere sul fondo le sue impurità. E sei tu, all'improvviso tu, mio amore, nel chiarore infinito di fronte a me.
Giorno d'inverno, senza macchia, trasparente come vetro. Addentare la polpa candida e sana d'un frutto. Amarti, mia rosa, somiglia all'aspirare l'aria in un bosco di pini.
Chi sa, forse non ci ameremmo tanto se le nostre anime non si vedessero da lontano non saremmo così vicini, chi sa, se la sorte non ci avesse divisi.
È così, mio usignolo, tra te e me c'è solo una differenza di grado: tu hai le ali e non puoi volare io ho le mani e non posso pensare.
Finito, dirà un giorno madre Natura finito di ridere e di piangere e sarà ancora la vita immensa che non vede non parla non pensa.
Non è un cuore, perdio, è un sandalo di pelle di bufalo che cammina, incessantemente, cammina senza lacerarsi va avanti su sentieri pietrosi.
Una barca passa davanti a Varna "Ohilà, figli d'argento del Mar Nero! " una barca scivola verso il Bosforo Nazim dolcemente carezza la barca e si brucia le mani.
Quella vita che fu tenuta a freno Troppo stretta e si libera, Correrà poi per sempre, con un cauto Sguardo indietro e paura delle briglie. Il cavallo che fiuta l'erba viva E a cui sorride il pascolo Sarà ripreso solo a fucilate, Se si potrà riprenderlo.