Passata è la tempesta: Odo augelli far festa, e la gallina, Tornata in su la via, Che ripete il suo verso. Ecco il sereno Rompe là da ponente, alla montagna; Sgombrasi la campagna, E chiaro nella valle il fiume appare. Ogni cor si rallegra, in ogni lato Risorge il romorio Torna il lavoro usato. L'artigiano a mirar l'umido cielo, Con l'opra in man, cantando, Fassi in su l'uscio; a prova Vien fuor la femminetta a còr dell'acqua Della novella piova; E l'erbaiuol rinnova Di sentiero in sentiero Il grido giornaliero. Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride Per li poggi e le ville. Apre i balconi, Apre terrazzi e logge la famiglia: E, dalla via corrente, odi lontano Tintinnio di sonagli; il carro stride Del passeggier che il suo cammin ripiglia. Si rallegra ogni core. Sì dolce, sì gradita Quand'è, com'or, la vita? Quando con tanto amore L'uomo à suoi studi intende? O torna all'opre? O cosa nova imprende? Quando dè mali suoi men si ricorda? Piacer figlio d'affanno; Gioia vana, ch'è frutto Del passato timore, onde si scosse E paventò la morte Chi la vita abborria; Onde in lungo tormento, Fredde, tacite, smorte, Sudàr le genti e palpitàr, vedendo Mossi alle nostre offese Folgori, nembi e vento. O natura cortese, Son questi i doni tuoi, Questi i diletti sono Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena È diletto fra noi. Pene tu spargi a larga mano; il duolo Spontaneo sorge e di piacer, quel tanto Che per mostro e miracolo talvolta Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana Prole cara agli eterni! Assai felice Se respirar ti lice D'alcun dolor: beata Se te d'ogni dolor morte risana.
La donzelletta vien dalla campagna, In sul calar del sole, Col suo fascio dell'erba; e reca in mano Un mazzolin di rose e di viole, Onde, siccome suole, Ornare ella si appresta Dimani, al dì di festa, il petto e il crine. Siede con le vicine Su la scala a filar la vecchierella, Incontro là dove si perde il giorno; E novellando vien del suo buon tempo, Quando ai dì della festa ella si ornava, Ed ancor sana e snella Solea danzar la sera intra di quei Ch'ebbe compagni dell'età più bella. Già tutta l'aria imbruna, Torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre Giù dà colli e dà tetti, Al biancheggiar della recente luna. Or la squilla dà segno Della festa che viene; Ed a quel suon diresti Che il cor si riconforta. I fanciulli gridando Su la piazzuola in frotta, E qua e là saltando, Fanno un lieto romore: E intanto riede alla sua parca mensa, Fischiando, il zappatore, E seco pensa al dì del suo riposo. Poi quando intorno è spenta ogni altra face, E tutto l'altro tace, Odi il martel picchiare, odi la sega Del legnaiuol, che veglia Nella chiusa bottega alla lucerna, E s'affretta, e s'adopra Di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba. Questo di sette è il più gradito giorno, Pien di speme e di gioia: Diman tristezza e noia Recheran l'ore, ed al travaglio usato Ciascuno in suo pensier farà ritorno. Garzoncello scherzoso, Cotesta età fiorita È come un giorno d'allegrezza pieno, Giorno chiaro, sereno, Che precorre alla festa di tua vita. Godi, fanciullo mio; stato soave, Stagion lieta è cotesta. Altro dirti non vò; ma la tua festa Ch'anco tardi a venir non ti sia grave.
Cara beltà che amore Lunge m'inspiri o nascondendo il viso, Fuor se nel sonno il core Ombra diva mi scuoti, O nè campi ove splenda Più vago il giorno e di natura il riso; Forse tu l'innocente Secol beasti che dall'oro ha nome, Or leve intra la gente Anima voli? O te la sorte avara Ch'a noi t'asconde, agli avvenir prepara? Viva mirarti omai Nulla spene m'avanza; S'allor non fosse, allor che ignudo e solo Per novo calle a peregrina stanza Verrà lo spirto mio. Già sul novello Aprir di mia giornata incerta e bruna, Te viatrice in questo arido suolo Io mi pensai. Ma non è cosa in terra Che ti somigli; e s'anco pari alcuna Ti fosse al volto, agli atti, alla favella, Saria, così conforme, assai men bella. Fra cotanto dolore Quanto all'umana età propose il fato, Se vera e quale il mio pensier ti pinge, Alcun t'amasse in terra, a lui pur fora Questo viver beato: E ben chiaro vegg'io siccome ancora Seguir loda e virtù qual nè prim'anni L'amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse Il ciel nullo conforto ai nostri affanni; E teco la mortal vita saria Simile a quella che nel cielo india. Per le valli, ove suona Del faticoso agricoltore il canto, Ed io seggo e mi lagno Del giovanile error che m'abbandona; E per li poggi, ov'io rimembro e piagno I perduti desiri, e la perduta Speme dè giorni miei; di te pensando, A palpitar mi sveglio. E potess'io, Nel secol tetro e in questo aer nefando, L'alta specie serbar; che dell'imago, Poi che del ver m'è tolto, assai m'appago. Se dell'eterne idee L'una sei tu, cui di sensibil forma Sdegni l'eterno senno esser vestita, E fra caduche spoglie Provar gli affanni di funerea vita; O s'altra terra nè superni giri Frà mondi innumerabili t'accoglie, E più vaga del Sol prossima stella T'irraggia, e più benigno etere spiri; Di qua dove son gli anni infausti e brevi, Questo d'ignoto amante inno ricevi.
D'in su la vetta della torre antica, Passero solitario, alla campagna Cantando vai finché non more il giorno; Ed erra l'armonia per questa valle. Primavera dintorno Brilla nell'aria, e per li campi esulta, Sì ch'a mirarla intenerisce il core. Odi greggi belar, muggire armenti; Gli altri augelli contenti, a gara insieme Per lo libero ciel fan mille giri, Pur festeggiando il lor tempo migliore: Tu pensoso in disparte il tutto miri; Non compagni, non voli, Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi; Canti, e così trapassi Dell'anno e di tua vita il più bel fiore. Oimè, quanto somiglia Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso, Della novella età dolce famiglia, E te german di giovinezza, amore, Sospiro acerbo dè provetti giorni, Non curo, io non so come; anzi da loro Quasi fuggo lontano; Quasi romito, e strano Al mio loco natio, Passo del viver mio la primavera. Questo giorno ch'omai cede alla sera, Festeggiar si costuma al nostro borgo. Odi per lo sereno un suon di squilla, Odi spesso un tonar di ferree canne, Che rimbomba lontan di villa in villa. Tutta vestita a festa La gioventù del loco Lascia le case, e per le vie si spande; E mira ed è mirata, e in cor s'allegra. Io solitario in questa Rimota parte alla campagna uscendo, Ogni diletto e gioco Indugio in altro tempo: e intanto il guardo Steso nell'aria aprica Mi fere il Sol che tra lontani monti, Dopo il giorno sereno, Cadendo si dilegua, e par che dica Che la beata gioventù vien meno. Tu, solingo augellin, venuto a sera Del viver che daranno a te le stelle, Certo del tuo costume Non ti dorrai; che di natura è frutto Ogni vostra vaghezza. A me, se di vecchiezza La detestata soglia Evitar non impetro, Quando muti questi occhi all'altrui core, E lor fia vòto il mondo, e il dì futuro Del dì presente più noioso e tetro, Che parrà di tal voglia? Che di quest'anni miei? Che di me stesso? Ahi pentirommi, e spesso, Ma sconsolato, volgerommi indietro.
Sempre caro mi fu quest'ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo; ove per poco il cor non si spaura. E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l'eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa immensità s'annega il pensier mio: e il naufragar m'è dolce in questo mare.
Silvia, rimembri ancora quel tempo della tua vita mortale, quando beltà splendea negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, e tu, lieta e pensosa, il limitare di gioventù salivi?
Sonavan le quiete stanze, e le vie dintorno, al tuo perpetuo canto, allor che all'opre femminili intenta sedevi, assai contenta di quel vago avvenir che in mente avevi. Era il maggio odoroso: e tu solevi così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri talor lasciando e le sudate carte, ove il tempo mio primo e di me si spendea la miglior parte, d'in su i veroni del paterno ostello porgea gli orecchi al suon della tua voce, ed alla man veloce che percorrea la faticosa tela. Mirava il ciel sereno, le vie dorate e gli orti, e quinci il mar da lungi, e quindi il monte. Lingua mortal non dice quel ch'io sentiva in seno.
Che pensieri soavi, che speranze, che cori, o Silvia mia! Quale allor ci apparia la vita umana e il fato! Quando sovviemmi di cotanta speme, un affetto mi preme acerbo e sconsolato, e tornami a doler di mia sventura. O natura, o natura, perché non rendi poi quel che prometti allor? Perché di tanto inganni i figli tuoi?
Tu pria che l'erbe inaridisse il verno, da chiuso morbo combattuta e vinta, perivi, o tenerella. E non vedevi il fior degli anni tuoi; non ti molceva il core la dolce lode or delle negre chiome, or degli sguardi innamorati e schivi; né teco le compagne ai dì festivi ragionavan d'amore.
Anche peria tra poco la speranza mia dolce: agli anni miei anche negaro i fati la giovanezza. Ahi come, come passata sei, cara compagna dell'età mia nova, mia lacrimata speme! Questo è quel mondo? Questi i diletti, l'amor, l'opre, gli eventi onde cotanto ragionammo insieme? Questa la sorte dell'umane genti? All'apparir del vero tu, misera, cadesti: e con la mano la fredda morte ed una tomba ignuda mostravi di lontano.
Di giovinezza, Fanciulletta bella, Dal tuo bel petto spira fresco odore, E da quei labbri con gentil favella Sol parla Amore. Vaga è tua mano; ma più vaga allora Che a puro bacio facile s'arrende, E allor ch'ai crini della gaja Flora Cinge le bende. Questi mi detta dolci carmi Apollo, Se mai t'ascolta, Fanciulletta bella, Sparger di canti con la cetra al collo Iblea favella. Canta, deh! canta; scenderan da Paffo Ad ascoltarti con l'orecchie amanti Quei stessi Amor che della mesta Saffo Pianser ai canti. Io son, diceva, bella Dea di Gnido, La giovinetta cui Faon non cura, Per lui sol piango, mentre in ogni lido Ride natura. Madre del riso, dal beante seno, Me ch'al tuo nume sempre altari alzai, Me ch'arsi incenso d'inni e laudi pieno, Or traggo guai. Siegui di Lesbo la soave Musa, Ma scherza, e fuggi lagrimose note, Giacché domarti l'almo Dio ricusa, Perché nol puote. Che val sui fogli con cipiglio tristo Perdere i giorni che tornar non ponno, E violare per un vano acquisto I dritti al sonno? Nata agli Amori, le scïeuti carte Abbandonando, sol la cetra tocca: Chè di bei carmi la difficil arte Ti siede in bocca.
Vassi rapido il tempo, e al tempo il duolo Della cadente età tosto succede; Godiamo, amici: de' piacer lo stuolo Passa e non riede. Assisi a umili ma contenti deschi Colmiam le tazze di soave vino; Altri fra l'armi follemente treschi Col suo destino. Audace troppo dell'iniqua corte Nell'onde si scatena il nembo fosco; Da noi si cerchi più beata sorte In mezzo a un bosco. Se piange un infelice, il mesto pianto Tosto da noi si asciughi e si consoli; Chi non esulta delle Muso al canto A noi s'involi. Bell'è l'Amor, egli al piacer c'invita; Dunque Ninfa che agli occhi e all'alma piace Sia della nostra fuggitiva vita Conforto e pace. Vassi rapido il tempo, e al tempo il duolo Della cadente età tosto succede; Godiamo, amici: de' piacer lo stuolo Passa e non riede.
Irene candida, lascia le piume, T'affretta a cogliere leggiadri fiori Or ch'Alba fulgida spande il suo lume Co' nuovi albori. In mezzo agli alberi d'accanto il fonte Vedrai tu sorgere bei gelsomini; Li cogli, e adornati del vago fronte i vaghi crini. Mentre innoltravasi col gajo aprile Soave Zefiro là fur piantati, Da me alla morbida tua man gentile Poscia serbati. Il graziosissimo tuo cestellino Empi di mammole e di viole; Ma, bene badami, sfiora il giardino Prima del Sol Indi, sovvengati, Fanciulla mia, Che voglio un bacio al tuo ritorno, Nè vo' che al solito tu me lo dia Un altro giorno. Chè questo amabile giorno mai viene, E se anche in seguito così faremo, Gli anni andran rapidi, nè un giorno, o Irene, Goduto avremo.
Fra soavissimi fioretti un giorno Giaceano Amore e Venere, E mille Genii stavan d'intorno E mille Grazie tenere. Io con l'eburnea mia cetra al collo, Scarco di cure torbide, Passai con l'alma piena di Apollo Per quelle sedi morbide. A sè chiamatomi la gaja Diva, Con fiamma al labbro e al ciglio, Disse: Tua cetera canti giuliva La possa del mio figlio. Io pria con giubilo cantai d'Amore Su gli altri Dii le glorie; Soggiunsi poscia quai sul mio core Ei riportò vittorie. Si attente stavano le Grazie al canto, E que' Amorini amabili, Che s'obliarono d'essere accanto A' loro giochi instabili. Giuro per l'aurea chioma febea, Che più dell'onda livida Di Stigo io venero, vidi la Dea Farsi al cantar più vivida. E tu, o Licoride, non mai ti pieghi De' carmi al suon sensibile, Invan fra lagrime io canto e prieghi, Chè sempre so, inflessibile.