Poesie d'Autore


Scritta da: Silvana Stremiz
in Poesie (Poesie d'Autore)

La quiete dopo la tempesta

Passata è la tempesta:
Odo augelli far festa, e la gallina,
Tornata in su la via,
Che ripete il suo verso. Ecco il sereno
Rompe là da ponente, alla montagna;
Sgombrasi la campagna,
E chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato
Risorge il romorio
Torna il lavoro usato.
L'artigiano a mirar l'umido cielo,
Con l'opra in man, cantando,
Fassi in su l'uscio; a prova
Vien fuor la femminetta a còr dell'acqua
Della novella piova;
E l'erbaiuol rinnova
Di sentiero in sentiero
Il grido giornaliero.
Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
Apre terrazzi e logge la famiglia:
E, dalla via corrente, odi lontano
Tintinnio di sonagli; il carro stride
Del passeggier che il suo cammin ripiglia.
Si rallegra ogni core.
Sì dolce, sì gradita
Quand'è, com'or, la vita?
Quando con tanto amore
L'uomo à suoi studi intende?
O torna all'opre? O cosa nova imprende?
Quando dè mali suoi men si ricorda?
Piacer figlio d'affanno;
Gioia vana, ch'è frutto
Del passato timore, onde si scosse
E paventò la morte
Chi la vita abborria;
Onde in lungo tormento,
Fredde, tacite, smorte,
Sudàr le genti e palpitàr, vedendo
Mossi alle nostre offese
Folgori, nembi e vento.
O natura cortese,
Son questi i doni tuoi,
Questi i diletti sono
Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
È diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
Spontaneo sorge e di piacer, quel tanto
Che per mostro e miracolo talvolta
Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana
Prole cara agli eterni! Assai felice
Se respirar ti lice
D'alcun dolor: beata
Se te d'ogni dolor morte risana.
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    Scritta da: Silvana Stremiz
    in Poesie (Poesie d'Autore)

    Il sabato del villaggio

    La donzelletta vien dalla campagna,
    In sul calar del sole,
    Col suo fascio dell'erba; e reca in mano
    Un mazzolin di rose e di viole,
    Onde, siccome suole,
    Ornare ella si appresta
    Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
    Siede con le vicine
    Su la scala a filar la vecchierella,
    Incontro là dove si perde il giorno;
    E novellando vien del suo buon tempo,
    Quando ai dì della festa ella si ornava,
    Ed ancor sana e snella
    Solea danzar la sera intra di quei
    Ch'ebbe compagni dell'età più bella.
    Già tutta l'aria imbruna,
    Torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre
    Giù dà colli e dà tetti,
    Al biancheggiar della recente luna.
    Or la squilla dà segno
    Della festa che viene;
    Ed a quel suon diresti
    Che il cor si riconforta.
    I fanciulli gridando
    Su la piazzuola in frotta,
    E qua e là saltando,
    Fanno un lieto romore:
    E intanto riede alla sua parca mensa,
    Fischiando, il zappatore,
    E seco pensa al dì del suo riposo.
    Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
    E tutto l'altro tace,
    Odi il martel picchiare, odi la sega
    Del legnaiuol, che veglia
    Nella chiusa bottega alla lucerna,
    E s'affretta, e s'adopra
    Di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.
    Questo di sette è il più gradito giorno,
    Pien di speme e di gioia:
    Diman tristezza e noia
    Recheran l'ore, ed al travaglio usato
    Ciascuno in suo pensier farà ritorno.
    Garzoncello scherzoso,
    Cotesta età fiorita
    È come un giorno d'allegrezza pieno,
    Giorno chiaro, sereno,
    Che precorre alla festa di tua vita.
    Godi, fanciullo mio; stato soave,
    Stagion lieta è cotesta.
    Altro dirti non vò; ma la tua festa
    Ch'anco tardi a venir non ti sia grave.
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      in Poesie (Poesie d'Autore)

      Alla sua donna

      Cara beltà che amore
      Lunge m'inspiri o nascondendo il viso,
      Fuor se nel sonno il core
      Ombra diva mi scuoti,
      O nè campi ove splenda
      Più vago il giorno e di natura il riso;
      Forse tu l'innocente
      Secol beasti che dall'oro ha nome,
      Or leve intra la gente
      Anima voli? O te la sorte avara
      Ch'a noi t'asconde, agli avvenir prepara?
      Viva mirarti omai
      Nulla spene m'avanza;
      S'allor non fosse, allor che ignudo e solo
      Per novo calle a peregrina stanza
      Verrà lo spirto mio. Già sul novello
      Aprir di mia giornata incerta e bruna,
      Te viatrice in questo arido suolo
      Io mi pensai. Ma non è cosa in terra
      Che ti somigli; e s'anco pari alcuna
      Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
      Saria, così conforme, assai men bella.
      Fra cotanto dolore
      Quanto all'umana età propose il fato,
      Se vera e quale il mio pensier ti pinge,
      Alcun t'amasse in terra, a lui pur fora
      Questo viver beato:
      E ben chiaro vegg'io siccome ancora
      Seguir loda e virtù qual nè prim'anni
      L'amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse
      Il ciel nullo conforto ai nostri affanni;
      E teco la mortal vita saria
      Simile a quella che nel cielo india.
      Per le valli, ove suona
      Del faticoso agricoltore il canto,
      Ed io seggo e mi lagno
      Del giovanile error che m'abbandona;
      E per li poggi, ov'io rimembro e piagno
      I perduti desiri, e la perduta
      Speme dè giorni miei; di te pensando,
      A palpitar mi sveglio. E potess'io,
      Nel secol tetro e in questo aer nefando,
      L'alta specie serbar; che dell'imago,
      Poi che del ver m'è tolto, assai m'appago.
      Se dell'eterne idee
      L'una sei tu, cui di sensibil forma
      Sdegni l'eterno senno esser vestita,
      E fra caduche spoglie
      Provar gli affanni di funerea vita;
      O s'altra terra nè superni giri
      Frà mondi innumerabili t'accoglie,
      E più vaga del Sol prossima stella
      T'irraggia, e più benigno etere spiri;
      Di qua dove son gli anni infausti e brevi,
      Questo d'ignoto amante inno ricevi.
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        Scritta da: Silvana Stremiz
        in Poesie (Poesie d'Autore)

        Passero solitario

        D'in su la vetta della torre antica,
        Passero solitario, alla campagna
        Cantando vai finché non more il giorno;
        Ed erra l'armonia per questa valle.
        Primavera dintorno
        Brilla nell'aria, e per li campi esulta,
        Sì ch'a mirarla intenerisce il core.
        Odi greggi belar, muggire armenti;
        Gli altri augelli contenti, a gara insieme
        Per lo libero ciel fan mille giri,
        Pur festeggiando il lor tempo migliore:
        Tu pensoso in disparte il tutto miri;
        Non compagni, non voli,
        Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi;
        Canti, e così trapassi
        Dell'anno e di tua vita il più bel fiore.
        Oimè, quanto somiglia
        Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
        Della novella età dolce famiglia,
        E te german di giovinezza, amore,
        Sospiro acerbo dè provetti giorni,
        Non curo, io non so come; anzi da loro
        Quasi fuggo lontano;
        Quasi romito, e strano
        Al mio loco natio,
        Passo del viver mio la primavera.
        Questo giorno ch'omai cede alla sera,
        Festeggiar si costuma al nostro borgo.
        Odi per lo sereno un suon di squilla,
        Odi spesso un tonar di ferree canne,
        Che rimbomba lontan di villa in villa.
        Tutta vestita a festa
        La gioventù del loco
        Lascia le case, e per le vie si spande;
        E mira ed è mirata, e in cor s'allegra.
        Io solitario in questa
        Rimota parte alla campagna uscendo,
        Ogni diletto e gioco
        Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
        Steso nell'aria aprica
        Mi fere il Sol che tra lontani monti,
        Dopo il giorno sereno,
        Cadendo si dilegua, e par che dica
        Che la beata gioventù vien meno.
        Tu, solingo augellin, venuto a sera
        Del viver che daranno a te le stelle,
        Certo del tuo costume
        Non ti dorrai; che di natura è frutto
        Ogni vostra vaghezza.
        A me, se di vecchiezza
        La detestata soglia
        Evitar non impetro,
        Quando muti questi occhi all'altrui core,
        E lor fia vòto il mondo, e il dì futuro
        Del dì presente più noioso e tetro,
        Che parrà di tal voglia?
        Che di quest'anni miei? Che di me stesso?
        Ahi pentirommi, e spesso,
        Ma sconsolato, volgerommi indietro.
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          Scritta da: Silvana Stremiz
          in Poesie (Poesie d'Autore)

          L'Infinito

          Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
          e questa siepe, che da tanta parte
          dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
          Ma sedendo e mirando, interminati
          spazi di là da quella, e sovrumani
          silenzi, e profondissima quiete
          io nel pensier mi fingo; ove per poco
          il cor non si spaura. E come il vento
          odo stormir tra queste piante, io quello
          infinito silenzio a questa voce
          vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
          e le morte stagioni, e la presente
          e viva, e il suon di lei. Così tra questa
          immensità s'annega il pensier mio:
          e il naufragar m'è dolce in questo mare.
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            Scritta da: Silvana Stremiz
            in Poesie (Poesie d'Autore)

            A Silvia

            Silvia, rimembri ancora
            quel tempo della tua vita mortale,
            quando beltà splendea
            negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
            e tu, lieta e pensosa, il limitare
            di gioventù salivi?

            Sonavan le quiete
            stanze, e le vie dintorno,
            al tuo perpetuo canto,
            allor che all'opre femminili intenta
            sedevi, assai contenta
            di quel vago avvenir che in mente avevi.
            Era il maggio odoroso: e tu solevi
            così menare il giorno.

            Io gli studi leggiadri
            talor lasciando e le sudate carte,
            ove il tempo mio primo
            e di me si spendea la miglior parte,
            d'in su i veroni del paterno ostello
            porgea gli orecchi al suon della tua voce,
            ed alla man veloce
            che percorrea la faticosa tela.
            Mirava il ciel sereno,
            le vie dorate e gli orti,
            e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
            Lingua mortal non dice
            quel ch'io sentiva in seno.

            Che pensieri soavi,
            che speranze, che cori, o Silvia mia!
            Quale allor ci apparia
            la vita umana e il fato!
            Quando sovviemmi di cotanta speme,
            un affetto mi preme
            acerbo e sconsolato,
            e tornami a doler di mia sventura.
            O natura, o natura,
            perché non rendi poi
            quel che prometti allor? Perché di tanto
            inganni i figli tuoi?

            Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
            da chiuso morbo combattuta e vinta,
            perivi, o tenerella. E non vedevi
            il fior degli anni tuoi;
            non ti molceva il core
            la dolce lode or delle negre chiome,
            or degli sguardi innamorati e schivi;
            né teco le compagne ai dì festivi
            ragionavan d'amore.

            Anche peria tra poco
            la speranza mia dolce: agli anni miei
            anche negaro i fati
            la giovanezza. Ahi come,
            come passata sei,
            cara compagna dell'età mia nova,
            mia lacrimata speme!
            Questo è quel mondo? Questi
            i diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
            onde cotanto ragionammo insieme?
            Questa la sorte dell'umane genti?
            All'apparir del vero
            tu, misera, cadesti: e con la mano
            la fredda morte ed una tomba ignuda
            mostravi di lontano.
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              Scritta da: Silvana Stremiz
              in Poesie (Poesie d'Autore)

              Fanciulletta bella

              Di giovinezza, Fanciulletta bella,
              Dal tuo bel petto spira fresco odore,
              E da quei labbri con gentil favella
              Sol parla Amore.
                   Vaga è tua mano; ma più vaga allora
              Che a puro bacio facile s'arrende,
              E allor ch'ai crini della gaja Flora
              Cinge le bende.
                   Questi mi detta dolci carmi Apollo,
              Se mai t'ascolta, Fanciulletta bella,
              Sparger di canti con la cetra al collo
              Iblea favella.
                   Canta, deh! canta; scenderan da Paffo
              Ad ascoltarti con l'orecchie amanti
              Quei stessi Amor che della mesta Saffo
              Pianser ai canti.
                   Io son, diceva, bella Dea di Gnido,
              La giovinetta cui Faon non cura,
              Per lui sol piango, mentre in ogni lido
              Ride natura.
                   Madre del riso, dal beante seno,
              Me ch'al tuo nume sempre altari alzai,
              Me ch'arsi incenso d'inni e laudi pieno,
              Or traggo guai.
                   Siegui di Lesbo la soave Musa,
              Ma scherza, e fuggi lagrimose note,
              Giacché domarti l'almo Dio ricusa,
              Perché nol puote.
                   Che val sui fogli con cipiglio tristo
              Perdere i giorni che tornar non ponno,
              E violare per un vano acquisto
              I dritti al sonno?
                   Nata agli Amori, le scïeuti carte
              Abbandonando, sol la cetra tocca:
              Chè di bei carmi la difficil arte
              Ti siede in bocca.
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                Scritta da: Silvana Stremiz
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                Vassi rapido il tempo

                Vassi rapido il tempo, e al tempo il duolo
                Della cadente età tosto succede;
                Godiamo, amici: de' piacer lo stuolo
                Passa e non riede.
                     Assisi a umili ma contenti deschi
                Colmiam le tazze di soave vino;
                Altri fra l'armi follemente treschi
                Col suo destino.
                     Audace troppo dell'iniqua corte
                Nell'onde si scatena il nembo fosco;
                Da noi si cerchi più beata sorte
                In mezzo a un bosco.
                     Se piange un infelice, il mesto pianto
                Tosto da noi si asciughi e si consoli;
                Chi non esulta delle Muso al canto
                A noi s'involi.
                     Bell'è l'Amor, egli al piacer c'invita;
                Dunque Ninfa che agli occhi e all'alma piace
                Sia della nostra fuggitiva vita
                Conforto e pace.
                     Vassi rapido il tempo, e al tempo il duolo
                Della cadente età tosto succede;
                Godiamo, amici: de' piacer lo stuolo
                Passa e non riede.
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                  Irene candida

                  Irene candida, lascia le piume,
                  T'affretta a cogliere leggiadri fiori
                  Or ch'Alba fulgida spande il suo lume
                  Co' nuovi albori.
                       In mezzo agli alberi d'accanto il fonte
                  Vedrai tu sorgere bei gelsomini;
                  Li cogli, e adornati del vago fronte
                  i vaghi crini.
                       Mentre innoltravasi col gajo aprile
                  Soave Zefiro là fur piantati,
                  Da me alla morbida tua man gentile
                  Poscia serbati.
                       Il graziosissimo tuo cestellino
                  Empi di mammole e di viole;
                  Ma, bene badami, sfiora il giardino
                  Prima del Sol
                       Indi, sovvengati, Fanciulla mia,
                  Che voglio un bacio al tuo ritorno,
                  Nè vo' che al solito tu me lo dia
                  Un altro giorno.
                       Chè questo amabile giorno mai viene,
                  E se anche in seguito così faremo,
                  Gli anni andran rapidi, nè un giorno, o Irene,
                  Goduto avremo.
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                    Scritta da: Silvana Stremiz
                    in Poesie (Poesie d'Autore)

                    Fra soavissimi fioretti

                    Fra soavissimi fioretti un giorno
                    Giaceano Amore e Venere,
                    E mille Genii stavan d'intorno
                    E mille Grazie tenere.
                         Io con l'eburnea mia cetra al collo,
                    Scarco di cure torbide,
                    Passai con l'alma piena di Apollo
                    Per quelle sedi morbide.
                         A sè chiamatomi la gaja Diva,
                    Con fiamma al labbro e al ciglio,
                    Disse: Tua cetera canti giuliva
                    La possa del mio figlio.
                         Io pria con giubilo cantai d'Amore
                    Su gli altri Dii le glorie;
                    Soggiunsi poscia quai sul mio core
                    Ei riportò vittorie.
                         Si attente stavano le Grazie al canto,
                    E que' Amorini amabili,
                    Che s'obliarono d'essere accanto
                    A' loro giochi instabili.
                         Giuro per l'aurea chioma febea,
                    Che più dell'onda livida
                    Di Stigo io venero, vidi la Dea
                    Farsi al cantar più vivida.
                         E tu, o Licoride, non mai ti pieghi
                    De' carmi al suon sensibile,
                    Invan fra lagrime io canto e prieghi,
                    Chè sempre so, inflessibile.
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