Poesie d'Autore


Scritta da: Silvana Stremiz
in Poesie (Poesie d'Autore)

Il Risorgimento

Credei ch'al tutto fossero
In me, sul fior degli anni,
Mancati i dolci affanni
Della mia prima età:
I dolci affanni, i teneri
Moti del cor profondo,
Qualunque cosa al mondo
Grato il sentir ci fa.

Quante querele e lacrime
Sparsi nel novo stato,
Quando al mio cor gelato
Prima il dolor mancò!
Mancàr gli usati palpiti,
L'amor mi venne meno,
E irrigidito il seno
Di sospirar cessò!

Piansi spogliata, esanime
Fatta per me la vita
La terra inaridita,
Chiusa in eterno gel;
Deserto il dì; la tacita
Notte più sola e bruna;
Spenta per me la luna,
Spente le stelle in ciel.

Pur di quel pianto origine
Era l'antico affetto:
Nell'intimo del petto
Ancor viveva il cor.
Chiedea l'usate immagini
La stanca fantasia;
E la tristezza mia
Era dolore ancor.

Fra poco in me quell'ultimo
Dolore anco fu spento,
E di più far lamento
Valor non mi restò.
Giacqui: insensato, attonito,
Non dimandai conforto:
Quasi perduto e morto,
Il cor s'abbandonò.

Qual fui! Quanto dissimile
Da quel che tanto ardore,
Che sì beato errore
Nutrii nell'alma un dì!
La rondinella vigile,
Alle finestre intorno
Cantando al novo giorno,
Il cor non mi ferì:

Non all'autunno pallido
In solitaria villa,
La vespertina squilla,
Il fuggitivo Sol.
Invan brillare il vespero
Vidi per muto calle,
Invan sonò la valle
Del flebile usignol.

E voi, pupille tenere,
Sguardi furtivi, erranti,
Voi dè gentili amanti
Primo, immortale amor,
Ed alla mano offertami
Candida ignuda mano,
Foste voi pure invano
Al duro mio sopor.

D'ogni dolcezza vedovo,
Tristo; ma non turbato,
Ma placido il mio stato,
Il volto era seren.
Desiderato il termine
Avrei del viver mio;
Ma spento era il desio
Nello spossato sen.

Qual dell'età decrepita
L'avanzo ignudo e vile,
Io conducea l'aprile
Degli anni miei così:
Così quegl'ineffabili
Giorni, o mio cor, traevi,
Che sì fugaci e brevi
Il cielo a noi sortì.

Chi dalla grave, immemore
Quiete or mi ridesta?
Che virtù nova è questa,
Questa che sento in me?
Moti soavi, immagini,
Palpiti, error beato,
Per sempre a voi negato
Questo mio cor non è?

Siete pur voi quell'unica
Luce dè giorni miei?
Gli affetti ch'io perdei
Nella novella età?
Se al ciel, s'ai verdi margini,
Ovunque il guardo mira,
Tutto un dolor mi spira,
Tutto un piacer mi dà.

Meco ritorna a vivere
La piaggia, il bosco, il monte;
Parla al mio core il fonte,
Meco favella il mar.
Chi mi ridona il piangere
Dopo cotanto obblio?
E come al guardo mio
Cangiato il mondo appar?

Forse la speme, o povero
Mio cor, ti volse un riso?
Ahi della speme il viso
Io non vedrò mai più.
Proprii mi diede i palpiti,
Natura, e i dolci inganni.
Sopiro in me gli affanni
L'ingenita virtù;

Non l'annullàr: non vinsela
Il fato e la sventura;
Non con la vista impura
L'infausta verità.
Dalle mie vaghe immagini
So ben ch'ella discorda:
So che natura è sorda,
Che miserar non sa.

Che non del ben sollecita
Fu, ma dell'esser solo:
Purché ci serbi al duolo,
Or d'altro a lei non cal.
So che pietà fra gli uomini
Il misero non trova;
Che lui, fuggendo, a prova
Schernisce ogni mortal.

Che ignora il tristo secolo
Gl'ingegni e le virtudi;
Che manca ai degni studi
L'ignuda gloria ancor.
E voi, pupille tremule,
Voi, raggio sovrumano,
So che splendete invano,
Che in voi non brilla amor.

Nessuno ignoto ed intimo
Affetto in voi non brilla:
Non chiude una favilla
Quel bianco petto in sé.
Anzi d'altrui le tenere
Cure suol porre in gioco;
E d'un celeste foco
Disprezzo è la mercè.

Pur sento in me rivivere
Gl'inganni aperti e noti;
E, dè suoi proprii moti
Si maraviglia il sen.
Da te, mio cor, quest'ultimo
Spirto, e l'ardor natio,
Ogni conforto mio
Solo da te mi vien.

Mancano, il sento, all'anima
Alta, gentile e pura,
La sorte, la natura,
Il mondo e la beltà.
Ma se tu vivi, o misero,
Se non concedi al fato,
Non chiamerò spietato
Chi lo spirar mi dà.
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    Scritta da: Silvana Stremiz
    in Poesie (Poesie d'Autore)

    A un vincitore nel pallone

    Di gloria il viso e la gioconda voce,
    Garzon bennato, apprendi,
    E quanto al femminile ozio sovrasti
    La sudata virtude. Attendi attendi,
    Magnanimo campion (s'alla veloce
    Piena degli anni il tuo valor contrasti
    La spoglia di tuo nome), attendi e il core
    Movi ad alto desio. Te l'echeggiante
    Arena e il circo, e te fremendo appella
    Ai fatti illustri il popolar favore;
    Te rigoglioso dell'età novella
    Oggi la patria cara
    Gli antichi esempi a rinnovar prepara.
    Del barbarico sangue in Maratona
    Non colorò la destra
    Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo,
    Che stupido mirò l'ardua palestra,
    Né la palma beata e la corona
    D'emula brama il punse. E nell'Alfeo
    Forse le chiome polverose e i fianchi
    Delle cavalle vincitrici asterse
    Tal che le greche insegne e il greco acciaro
    Guidò dè Medi fuggitivi e stanchi
    Nelle pallide torme; onde sonaro
    Di sconsolato grido
    L'alto sen dell'Eufrate e il servo lido.
    Vano dirai quel che disserra e scote
    Della virtù nativa
    Le riposte faville? E che del fioco
    Spirto vital negli egri petti avviva
    Il caduco fervor? Le meste rote
    Da poi che Febo instiga, altro che gioco
    Son l'opre dè mortali? Ed è men vano
    Della menzogna il vero? A noi di lieti
    Inganni e di felici ombre soccorse
    Natura stessa: e là dove l'insano
    Costume ai forti errori esca non porse,
    Negli ozi oscuri e nudi
    Mutò la gente i gloriosi studi.
    Tempo forse verrà ch'alle ruine
    Delle italiche moli
    Insultino gli armenti, e che l'aratro
    Sentano i sette colli; e pochi Soli
    Forse fien volti, e le città latine
    Abiterà la cauta volpe, e l'atro
    Bosco mormorerà fra le alte mura;
    Se la funesta delle patrie cose
    Obblivion dalle perverse menti
    Non isgombrano i fati, e la matura
    Clade non torce dalle abbiette genti
    Il ciel fatto cortese
    Dal rimembrar delle passate imprese.
    Alla patria infelice, o buon garzone,
    Sopravviver ti doglia.
    Chiaro per lei stato saresti allora
    Che del serto fulgea, di ch'ella è spoglia,
    Nostra colpa e fatal. Passò stagione;
    Che nullo di tal madre oggi s'onora:
    Ma per te stesso al polo ergi la mente.
    Nostra vita a che val? Solo a spregiarla:
    Beata allor che nè perigli avvolta,
    Se stessa obblia, né delle putri e lente
    Ore il danno misura e il flutto ascolta;
    Beata allor che il piede
    Spinto al varco leteo, più grata riede.
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      in Poesie (Poesie d'Autore)

      All'Italia

      O patria mia, vedo le mura e gli archi
      E le colonne e i simulacri e l'erme
      Torri degli avi nostri,
      Ma la la gloria non vedo,
      Non vedo il lauro e il ferro ond'eran carchi
      I nostri padri antichi. Or fatta inerme
      Nuda la fronte e nudo il petto mostri,
      Oimè quante ferite,
      Che lívidor, che sangue! Oh qual ti veggio,
      Formesissima donna!
      Io chiedo al cielo e al mondo: dite dite;
      Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
      Che di catene ha carche ambe le braccia,
      Sì che sparte le chiome e senza velo
      Siede in terra negletta e sconsolata,
      Nascondendo la faccia
      Tra le ginocchia, e piange.
      Piangi, che ben hai donde, Italia mia,
      Le genti a vincer nata
      E nella fausta sorte e nella ria.
      Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
      Mai non potrebbe il pianto
      Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;
      Che fosti donna, or sei povera ancella.
      Chi di te parla o scrive,
      Che, rimembrando il tuo passato vanto,
      Non dica: già fu grande, or non è quella?
      Perché, perché? Dov'è la forza antica?
      Dove l'armi e il valore e la costanza?
      Chi ti discinse il brando?
      Chi ti tradì? Qual arte o qual fatica
      0 qual tanta possanza,
      Valse a spogliarti il manto e l'auree bende?
      Come cadesti o quando
      Da tanta altezza in così basso loco?
      Nessun pugna per te? Non ti difende
      Nessun dè tuoi? L'armi, qua l'armi: ío solo
      Combatterà, procomberò sol io.
      Dammi, o ciel, che sia foco
      Agl'italici petti il sangue mio.
      Dove sono i tuoi figli?. Odo suon d'armi
      E di carri e di voci e di timballi
      In estranie contrade
      Pugnano i tuoi figliuoli.
      Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi,
      Un fluttuar di fanti e di cavalli,
      E fumo e polve, e luccicar di spade
      Come tra nebbia lampi.
      Nè ti conforti e i tremebondi lumi
      Piegar non soffri al dubitoso evento?
      A che pugna in quei campi
      L'itata gioventude? 0 numi, o numi
      Pugnan per altra terra itali acciari.
      Oh misero colui che in guerra è spento,
      Non per li patrii lidi e per la pia
      Consorte e i figli cari, Ma da nemici altrui
      Per altra gente, e non può dir morendo
      Alma terra natia,
      La vita che mi desti ecco ti rendo.
      Oh venturose e care e benedette
      L'antiche età, che a morte
      Per la patria correan le genti a squadre
      E voi sempre onorate e gloriose,
      0 tessaliche strette,
      Dove la Persia e il fato assai men forte
      Fu di poch'alme franche e generose!
      Lo credo che le piante e i sassi e l'onda
      E le montagne vostre al passeggere
      Con indistinta voce
      Narrin siccome tutta quella sponda
      Coprir le invitte schiere
      Dè corpi ch'alla Grecia eran devoti.
      Allor, vile e feroce,
      Serse per l'Ellesponto si fuggia,
      Fatto ludibrio agli ultimi nepoti;
      E sul colle d'Antela, ove morendo
      Si sottrasse da morte il santo stuolo,
      Simonide salia,
      Guardando l'etra e la marina e il suolo.
      E di lacrime sparso ambe le guance,
      E il petto ansante, e vacillante il piede,
      Toglicasi in man la lira:
      Beatissimi voi,
      Ch'offriste il petto alle nemiche lance
      Per amor di costei ch'al Sol vi diede;
      Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira
      Nell'armi e nè perigli
      Qual tanto amor le giovanette menti,
      Qual nell'acerbo fato amor vi trasse?
      Come si lieta, o figli,
      L'ora estrema vi parve, onde ridenti
      Correste al passo lacrimoso e, duro?
      Parea ch'a danza e non a morte andasse
      Ciascun dè vostri, o a splendido convito:
      Ma v'attendea lo scuro
      Tartaro, e l'ond'a morta;
      Nè le spose vi foro o i figli accanto
      Quando su l'aspro lito
      Senza baci moriste e senza pianto.
      Ma non senza dè Persi orrida pena
      Ed immortale angoscia.
      Come lion di tori entro una mandra
      Or salta a quello in tergo e sì gli scava
      Con le zanne la schiena,
      Or questo fianco addenta or quella coscia;
      Tal fra le Perse torme infuriava
      L'ira dè greci petti e la virtute.
      Vè cavalli supini e cavalieri;
      Vedi intralciare ai vinti
      La fuga i carri e le tende cadute,
      E correr frà primieri
      Pallido e scapigliato esso tiranno;
      vè come infusi e tintí
      Del barbarico sangue i greci eroi,
      Cagione ai Persi d'infinito affanno,
      A poco a poco vinti dalle piaghe,
      L'un sopra l'altro cade. Oh viva, oh viva:
      Beatissimi voi
      Mentre nel mondo si favelli o scriva.
      Prima divelte, in mar precipitando,
      Spente nell'imo strideran le stelle,
      Che la memoria e il vostro
      Amor trascorra o scemi.
      La vostra tomba è un'ara; e qua mostrando
      Verran le madri ai parvoli le belle
      Orme dei vostro sangue. Ecco io mi prostro,
      0 benedetti, al suolo,
      E bacio questi sassi e queste zolle,
      Che fien lodate e chiare eternamente
      Dall'uno all'altro polo.
      Deh foss'io pur con voi qui sotto, e molle
      Fosse del sangue mio quest'alma terra.
      Che se il fato è diverso, e non consente
      Ch'io per la Grecia i mororibondi lumi
      Chiuda prostrato in guerra,
      Così la vereconda
      Fama del vostro vate appo i futuri
      Possa, volendo i numi,
      Tanto durar quanto la, vostra duri.
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        Scritta da: Silvana Stremiz
        in Poesie (Poesie d'Autore)

        Le ricordanze

        Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea
        Tornare ancor per uso a contemplarvi
        Sul paterno giardino scintillanti,
        E ragionar con voi dalle finestre
        Di questo albergo ove abitai fanciullo,
        E delle gioie mie vidi la fine.
        Quante immagini un tempo, e quante fole
        Creommi nel pensier l'aspetto vostro
        E delle luci a voi compagne! Allora
        Che, tacito, seduto in verde zolla,
        Delle sere io solea passar gran parte
        Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
        Della rana rimota alla campagna!
        E la lucciola errava appo le siepi
        E in su l'aiuole, susurrando al vento
        I viali odorati, ed i cipressi
        Là nella selva; e sotto al patrio tetto
        Sonavan voci alterne, e le tranquille
        Opre dè servi. E che pensieri immensi,
        Che dolci sogni mi spirò la vista
        Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
        Che di qua scopro, e che varcare un giorno
        Io mi pensava, arcani mondi, arcana
        Felicità fingendo al viver mio!
        Ignaro del mio fato, e quante volte
        Questa mia vita dolorosa e nuda
        Volentier con la morte avrei cangiato.
        Né mi diceva il cor che l'età verde
        Sarei dannato a consumare in questo
        Natio borgo selvaggio, intra una gente
        Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
        Argomento di riso e di trastullo,
        Son dottrina e saper; che m'odia e fugge,
        Per invidia non già, che non mi tiene
        Maggior di sé, ma perché tale estima
        Ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
        A persona giammai non ne fo segno.
        Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
        Senz'amor, senza vita; ed aspro a forza
        Tra lo stuol dè malevoli divengo:
        Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
        E sprezzator degli uomini mi rendo,
        Per la greggia ch'ho appresso: e intanto vola
        Il caro tempo giovanil; più caro
        Che la fama e l'allor, più che la pura
        Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
        Senza un diletto, inutilmente, in questo
        Soggiorno disumano, intra gli affanni,
        O dell'arida vita unico fiore.
        Viene il vento recando il suon dell'ora
        Dalla torre del borgo. Era conforto
        Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
        Quando fanciullo, nella buia stanza,
        Per assidui terrori io vigilava,
        Sospirando il mattin. Qui non è cosa
        Ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro
        Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
        Dolce per sé; ma con dolor sottentra
        Il pensier del presente, un van desio
        Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
        Quella loggia colà, volta agli estremi
        Raggi del dì; queste dipinte mura,
        Quei figurati armenti, e il Sol che nasce
        Su romita campagna, agli ozi miei
        Porser mille diletti allor che al fianco
        M'era, parlando, il mio possente errore
        Sempre, ov'io fossi. In queste sale antiche,
        Al chiaror delle nevi, intorno a queste
        Ampie finestre sibilando il vento,
        Rimbombaro i sollazzi e le festose
        Mie voci al tempo che l'acerbo, indegno
        Mistero delle cose a noi si mostra
        Pien di dolcezza; indelibata, intera
        Il garzoncel, come inesperto amante,
        La sua vita ingannevole vagheggia,
        E celeste beltà fingendo ammira.
        O speranze, speranze; ameni inganni
        Della mia prima età! Sempre, parlando,
        Ritorno a voi; che per andar di tempo,
        Per variar d'affetti e di pensieri,
        Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
        Son la gloria e l'onor; diletti e beni
        Mero desio; non ha la vita un frutto,
        Inutile miseria. E sebben vòti
        Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
        Il mio stato mortal, poco mi toglie
        La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
        A voi ripenso, o mie speranze antiche,
        Ed a quel caro immaginar mio primo;
        Indi riguardo il viver mio sì vile
        E sì dolente, e che la morte è quello
        Che di cotanta speme oggi m'avanza;
        Sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto
        Consolarmi non so del mio destino.
        E quando pur questa invocata morte
        Sarammi allato, e sarà giunto il fine
        Della sventura mia; quando la terra
        Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
        Fuggirà l'avvenir; di voi per certo
        Risovverrammi; e quell'imago ancora
        Sospirar mi farà, farammi acerbo
        L'esser vissuto indarno, e la dolcezza
        Del dì fatal tempererà d'affanno.
        E già nel primo giovanil tumulto
        Di contenti, d'angosce e di desio,
        Morte chiamai più volte, e lungamente
        Mi sedetti colà su la fontana
        Pensoso di cessar dentro quell'acque
        La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
        Malor, condotto della vita in forse,
        Piansi la bella giovanezza, e il fiore
        Dè miei poveri dì, che sì per tempo
        Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso
        Sul conscio letto, dolorosamente
        Alla fioca lucerna poetando,
        Lamentai cò silenzi e con la notte
        Il fuggitivo spirto, ed a me stesso
        In sul languir cantai funereo canto.
        Chi rimembrar vi può senza sospiri,
        O primo entrar di giovinezza, o giorni
        Vezzosi, inenarrabili, allor quando
        Al rapito mortal primieramente
        Sorridon le donzelle; a gara intorno
        Ogni cosa sorride; invidia tace,
        Non desta ancora ovver benigna; e quasi
        (Inusitata maraviglia! ) il mondo
        La destra soccorrevole gli porge,
        Scusa gli errori suoi, festeggia il novo
        Suo venir nella vita, ed inchinando
        Mostra che per signor l'accolga e chiami?
        Fugaci giorni! A somigliar d'un lampo
        Son dileguati. E qual mortale ignaro
        Di sventura esser può, se a lui già scorsa
        Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
        Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?
        O Nerina! E di te forse non odo
        Questi luoghi parlar? Caduta forse
        Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
        Che qui sola di te la ricordanza
        Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
        Questa Terra natal: quella finestra,
        Ond'eri usata favellarmi, ed onde
        Mesto riluce delle stelle il raggio,
        È deserta. Ove sei, che più non odo
        La tua voce sonar, siccome un giorno,
        Quando soleva ogni lontano accento
        Del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto
        Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
        Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
        Il passar per la terra oggi è sortito,
        E l'abitar questi odorati colli.
        Ma rapida passasti; e come un sogno
        Fu la tua vita. Iva danzando; in fronte
        La gioia ti splendea, splendea negli occhi
        Quel confidente immaginar, quel lume
        Di gioventù, quando spegneali il fato,
        E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
        L'antico amor. Se a feste anco talvolta,
        Se a radunanze io movo, infra me stesso
        Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
        Tu non ti acconci più, tu più non movi.
        Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
        Van gli amanti recando alle fanciulle,
        Dico: Nerina mia, per te non torna
        Primavera giammai, non torna amore.
        Ogni giorno sereno, ogni fiorita
        Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento,
        Dico: Nerina or più non gode; i campi,
        L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
        Sospiro mio: passasti: e fia compagna
        D'ogni mio vago immaginar, di tutti
        I miei teneri sensi, i tristi e cari
        Moti del cor, la rimembranza acerba.
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          Scritta da: Silvana Stremiz
          in Poesie (Poesie d'Autore)

          La sera del dì di festa

          Dolce e chiara è la notte e senza vento,
          E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
          Posa la luna, e di lontan rivela
          Serena ogni montagna. O donna mia,
          Già tace ogni sentiero, e pei balconi
          Rara traluce la notturna lampa:
          Tu dormi, che t'accolse agevol sonno
          Nelle tue chete stanze; e non ti morde
          Cura nessuna; e già non sai né pensi
          Quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.
          Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
          Appare in vista, a salutar m'affaccio,
          E l'antica natura onnipossente,
          Che mi fece all'affanno. A te la speme
          Nego, mi disse, anche la speme; e d'altro
          Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
          Questo dì fu solenne: or dà trastulli
          Prendi riposo; e forse ti rimembra
          In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
          Piacquero a te: non io, non già ch'io speri,
          Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
          Quanto a viver mi resti, e qui per terra
          Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
          In così verde etate! Ahi, per la via
          Odo non lunge il solitario canto
          Dell'artigian, che riede a tarda notte,
          Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
          E fieramente mi si stringe il core,
          A pensar come tutto al mondo passa,
          E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
          Il dì festivo, ed al festivo il giorno
          Volgar succede, e se ne porta il tempo
          Ogni umano accidente. Or dov'è il suono
          Di què popoli antichi? Or dov'è il grido
          Dè nostri avi famosi, e il grande impero
          Di quella Roma, e l'armi, e il fragorio
          Che n'andò per la terra e l'oceano?
          Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
          Il mondo, e più di lor non si ragiona.
          Nella mia prima età, quando s'aspetta
          Bramosamente il dì festivo, or poscia
          Ch'egli era spento, io doloroso, in veglia,
          Premea le piume; ed alla tarda notte
          Un canto che s'udia per li sentieri
          Lontanando morire a poco a poco,
          Già similmente mi stringeva il core.
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            Scritta da: Silvana Stremiz
            in Poesie (Poesie d'Autore)

            L'ultimo canto di Saffo

            Placida notte, e verecondo raggio
            Della cadente luna; e tu che spunti
            Fra la tacita selva in su la rupe,
            Nunzio del giorno; oh dilettose e care
            Mentre ignote mi fur l'erinni e il fato,
            Sembianze agli occhi miei; già non arride
            Spettacol molle ai disperati affetti.
            Noi l'insueto allor gaudio ravviva
            Quando per l'etra liquido si volve
            E per li campi trepidanti il flutto
            Polveroso dè Noti, e quando il carro,
            Grave carro di Giove a noi sul capo,
            Tonando, il tenebroso aere divide.
            Noi per le balze e le profonde valli
            Natar giova trà nembi, e noi la vasta
            Fuga dè greggi sbigottiti, o d'alto
            Fiume alla dubbia sponda
            Il suono e la vittrice ira dell'onda.
            Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
            Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
            Infinita beltà parte nessuna
            Alla misera Saffo i numi e l'empia
            Sorte non fenno. À tuoi superbi regni
            Vile, o natura, e grave ospite addetta,
            E dispregiata amante, alle vezzose
            Tue forme il core e le pupille invano
            Supplichevole intendo. A me non ride
            L'aprico margo, e dall'eterea porta
            Il mattutino albor; me non il canto
            Dè colorati augelli, e non dè faggi
            Il murmure saluta: e dove all'ombra
            Degl'inchinati salici dispiega
            Candido rivo il puro seno, al mio
            Lubrico piè le flessuose linfe
            Disdegnando sottragge,
            E preme in fuga l'odorate spiagge.
            Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
            Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
            Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
            In che peccai bambina, allor che ignara
            Di misfatto è la vita, onde poi scemo
            Di giovanezza, e disfiorato, al fuso
            Dell'indomita Parca si volvesse
            Il ferrigno mio stame? Incaute voci
            Spande il tuo labbro: i destinati eventi
            Move arcano consiglio. Arcano è tutto,
            Fuor che il nostro dolor. Negletta prole
            Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
            Dè celesti si posa. Oh cure, oh speme
            Dè più verd'anni! Alle sembianze il Padre,
            Alle amene sembianze eterno regno
            Diè nelle genti; e per virili imprese,
            Per dotta lira o canto,
            Virtù non luce in disadorno ammanto.
            Morremo. Il velo indegno a terra sparto
            Rifuggirà l'ignudo animo a Dite,
            E il crudo fallo emenderà del cieco
            Dispensator dè casi. E tu cui lungo
            Amore indarno, e lunga fede, e vano
            D'implacato desio furor mi strinse,
            Vivi felice, se felice in terra
            Visse nato mortal. Me non asperse
            Del soave licor del doglio avaro
            Giove, poi che perir gl'inganni e il sogno
            Della mia fanciullezza. Ogni più lieto
            Giorno di nostra età primo s'invola.
            Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l'ombra
            Della gelida morte. Ecco di tante
            Sperate palme e dilettosi errori,
            Il Tartaro m'avanza; e il prode ingegno
            Han la tenaria Diva,
            E l'atra notte, e la silente riva.
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              Scritta da: Silvana Stremiz
              in Poesie (Poesie d'Autore)

              Canto notturno di un pastore errante dell'Asia

              Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai,
              Silenziosa luna?
              Sorgi la sera, e vai,
              Contemplando i deserti; indi ti posi.
              Ancor non sei tu paga
              Di riandare i sempiterni calli?
              Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
              Di mirar queste valli?
              Somiglia alla tua vita
              La vita del pastore.
              Sorge in sul primo albore;
              Move la greggia oltre pel campo, e vede
              Greggi, fontane ed erbe;
              Poi stanco si riposa in su la sera:
              Altro mai non ispera.
              Dimmi, o luna: a che vale
              Al pastor la sua vita,
              La vostra vita a voi? Dimmi: ove tende
              Questo vagar mio breve,
              Il tuo corso immortale?
              Vecchierel bianco, infermo,
              Mezzo vestito e scalzo,
              Con gravissimo fascio in su le spalle,
              Per montagna e per valle,
              Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
              Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
              L'ora, e quando poi gela,
              Corre via, corre, anela,
              Varca torrenti e stagni,
              Cade, risorge, e più e più s'affretta,
              Senza posa o ristoro,
              Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
              Colà dove la via
              E dove il tanto affaticar fu volto:
              Abisso orrido, immenso,
              Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
              Vergine luna, tale
              È la vita mortale.
              Nasce l'uomo a fatica,
              Ed è rischio di morte il nascimento.
              Prova pena e tormento
              Per prima cosa; e in sul principio stesso
              La madre e il genitore
              Il prende a consolar dell'esser nato.
              Poi che crescendo viene,
              L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
              Con atti e con parole
              Studiasi fargli core,
              E consolarlo dell'umano stato:
              Altro ufficio più grato
              Non si fa da parenti alla lor prole.
              Ma perché dare al sole,
              Perché reggere in vita
              Chi poi di quella consolar convenga?
              Se la vita è sventura
              Perché da noi si dura?
              Intatta luna, tale
              È lo stato mortale.
              Ma tu mortal non sei,
              E forse del mio dir poco ti cale.
              Pur tu, solinga, eterna peregrina,
              Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
              Questo viver terreno,
              Il patir nostro, il sospirar, che sia;
              Che sia questo morir, questo supremo
              Scolorar del sembiante,
              E perir dalla terra, e venir meno
              Ad ogni usata, amante compagnia.
              E tu certo comprendi
              Il perché delle cose, e vedi il frutto
              Del mattin, della sera,
              Del tacito, infinito andar del tempo.
              Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
              Rida la primavera,
              A chi giovi l'ardore, e che procacci
              Il verno cò suoi ghiacci.
              Mille cose sai tu, mille discopri,
              Che son celate al semplice pastore.
              Spesso quand'io ti miro
              Star così muta in sul deserto piano,
              Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
              Ovver con la mia greggia
              Seguirmi viaggiando a mano a mano;
              E quando miro in cielo arder le stelle;
              Dico fra me pensando:
              A che tante facelle?
              Che fa l'aria infinita, e quel profondo
              Infinito seren? Che vuol dir questa
              Solitudine immensa? Ed io che sono?
              Così meco ragiono: e della stanza
              Smisurata e superba,
              E dell'innumerabile famiglia;
              Poi di tanto adoprar, di tanti moti
              D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
              Girando senza posa,
              Per tornar sempre là donde son mosse;
              Uso alcuno, alcun frutto
              Indovinar non so. Ma tu per certo,
              Giovinetta immortal, conosci il tutto.
              Questo io conosco e sento,
              Che degli eterni giri,
              Che dell'esser mio frale,
              Qualche bene o contento
              Avrà fors'altri; a me la vita è male.
              O greggia mia che posi, oh te beata,
              Che la miseria tua, credo, non sai!
              Quanta invidia ti porto!
              Non sol perché d'affanno
              Quasi libera vai;
              Ch'ogni stento, ogni danno,
              Ogni estremo timor subito scordi;
              Ma più perché giammai tedio non provi.
              Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
              Tu sè queta e contenta;
              E gran parte dell'anno
              Senza noia consumi in quello stato.
              Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
              E un fastidio m'ingombra
              La mente, ed uno spron quasi mi punge
              Sì che, sedendo, più che mai son lunge
              Da trovar pace o loco.
              E pur nulla non bramo,
              E non ho fino a qui cagion di pianto.
              Quel che tu goda o quanto,
              Non so già dir; ma fortunata sei.
              Ed io godo ancor poco,
              O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
              Se tu parlar sapessi, io chiederei:
              Dimmi: perché giacendo
              A bell'agio, ozioso,
              S'appaga ogni animale;
              Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?
              Forse s'avess'io l'ale
              Da volar su le nubi,
              E noverar le stelle ad una ad una,
              O come il tuono errar di giogo in giogo,
              Più felice sarei, dolce mia greggia,
              Più felice sarei, candida luna.
              O forse erra dal vero,
              Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
              Forse in qual forma, in quale
              Stato che sia, dentro covile o cuna,
              È funesto a chi nasce il dì natale.
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                Scritta da: Silvana Stremiz
                in Poesie (Poesie d'Autore)

                La vita solitaria

                La mattutina pioggia, allor che l'ale
                Battendo esulta nella chiusa stanza
                La gallinella, ed al balcon s'affaccia
                L'abitator dè campi, e il Sol che nasce
                I suoi tremuli rai fra le cadenti
                Stille saetta, alla capanna mia
                Dolcemente picchiando, mi risveglia;
                E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo
                Degli augelli susurro, e l'aura fresca,
                E le ridenti piagge benedico:
                Poiché voi, cittadine infauste mura,
                Vidi e conobbi assai, là dove segue
                Odio al dolor compagno; e doloroso
                Io vivo, e tal morrò, deh tosto! Alcuna
                Benché scarsa pietà pur mi dimostra
                Natura in questi lochi, un giorno oh quanto
                Verso me più cortese! E tu pur volgi
                Dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando
                Le sciagure e gli affanni, alla reina
                Felicità servi, o natura. In cielo,
                In terra amico agl'infelici alcuno
                E rifugio non resta altro che il ferro.
                Talor m'assido in solitaria parte,
                Sovra un rialto, al margine d'un lago
                Di taciturne piante incoronato.
                Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
                La sua tranquilla imago il Sol dipinge,
                Ed erba o foglia non si crolla al vento,
                E non onda incresparsi, e non cicala
                Strider, né batter penna augello in ramo,
                Né farfalla ronzar, né voce o moto
                Da presso né da lunge odi né vedi.
                Tien quelle rive altissima quiete;
                Ond'io quasi me stesso e il mondo obblio
                Sedendo immoto; e già mi par che sciolte
                Giaccian le membra mie, né spirto o senso
                Più le commova, e lor quiete antica
                Cò silenzi del loco si confonda.
                Amore, amore, assai lungi volasti
                Dal petto mio, che fu sì caldo un giorno,
                Anzi rovente. Con sua fredda mano
                Lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è volto
                Nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo
                Che mi scendesti in seno. Era quel dolce
                E irrevocabil tempo, allor che s'apre
                Al guardo giovanil questa infelice
                Scena del mondo, e gli sorride in vista
                Di paradiso. Al garzoncello il core
                Di vergine speranza e di desio
                Balza nel petto; e già s'accinge all'opra
                Di questa vita come a danza o gioco
                Il misero mortal. Ma non sì tosto,
                Amor, di te m'accorsi, e il viver mio
                Fortuna avea già rotto, ed a questi occhi
                Non altro convenia che il pianger sempre.
                Pur se talvolta per le piagge apriche,
                Su la tacita aurora o quando al sole
                Brillano i tetti e i poggi e le campagne,
                Scontro di vaga donzelletta il viso;
                O qualor nella placida quiete
                D'estiva notte, il vagabondo passo
                Di rincontro alle ville soffermando,
                L'erma terra contemplo, e di fanciulla
                Che all'opre di sua man la notte aggiunge
                Odo sonar nelle romite stanze
                L'arguto canto; a palpitar si move
                Questo mio cor di sasso: ahi, ma ritorna
                Tosto al ferreo sopor; ch'è fatto estrano
                Ogni moto soave al petto mio.
                O cara luna, al cui tranquillo raggio
                Danzan le lepri nelle selve; e duolsi
                Alla mattina il cacciator, che trova
                L'orme intricate e false, e dai covili
                Error vario lo svia; salve, o benigna
                Delle notti reina. Infesto scende
                Il raggio tuo fra macchie e balze o dentro
                A deserti edifici, in su l'acciaro
                Del pallido ladron ch'a teso orecchio
                Il fragor delle rote e dè cavalli
                Da lungi osserva o il calpestio dè piedi
                Su la tacita via; poscia improvviso
                Col suon dell'armi e con la rauca voce
                E col funereo ceffo il core agghiaccia
                Al passegger, cui semivivo e nudo
                Lascia in breve trà sassi. Infesto occorre
                Per le contrade cittadine il bianco
                Tuo lume al drudo vil, che degli alberghi
                Va radendo le mura e la secreta
                Ombra seguendo, e resta, e si spaura
                Delle ardenti lucerne e degli aperti
                Balconi. Infesto alle malvage menti,
                A me sempre benigno il tuo cospetto
                Sarà per queste piagge, ove non altro
                Che lieti colli e spaziosi campi
                M'apri alla vista. Ed ancor io soleva,
                Bench'innocente io fossi, il tuo vezzoso
                Raggio accusar negli abitati lochi,
                Quand'ei m'offriva al guardo umano, e quando
                Scopriva umani aspetti al guardo mio.
                Or sempre loderollo, o ch'io ti miri
                Veleggiar tra le nubi, o che serena
                Dominatrice dell'etereo campo,
                Questa flebil riguardi umana sede.
                Me spesso rivedrai solingo e muto
                Errar pè boschi e per le verdi rive,
                O seder sovra l'erbe, assai contento
                Se core e lena a sospirar m'avanza.
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                  Scritta da: Silvana Stremiz
                  in Poesie (Poesie d'Autore)

                  La ginestra

                  Qui su l'arida schiena
                  Del formidabil monte
                  Sterminator Vesevo,
                  La qual null'altro allegra arbor né fiore,
                  Tuoi cespi solitari intorno spargi,
                  Odorata ginestra,
                  Contenta dei deserti. Anco ti vidi
                  Dè tuoi steli abbellir l'erme contrade
                  Che cingon la cittade
                  La qual fu donna dè mortali un tempo,
                  E del perduto impero
                  Par che col grave e taciturno aspetto
                  Faccian fede e ricordo al passeggero.
                  Or ti riveggo in questo suol, di tristi
                  Lochi e dal mondo abbandonati amante,
                  E d'afflitte fortune ognor compagna.
                  Questi campi cosparsi
                  Di ceneri infeconde, e ricoperti
                  Dell'impietrata lava,
                  Che sotto i passi al peregrin risona;
                  Dove s'annida e si contorce al sole
                  La serpe, e dove al noto
                  Cavernoso covil torna il coniglio;
                  Fur liete ville e colti,
                  E biondeggiàr di spiche, e risonaro
                  Di muggito d'armenti;
                  Fur giardini e palagi,
                  Agli ozi dè potenti
                  Gradito ospizio; e fur città famose
                  Che coi torrenti suoi l'altero monte
                  Dall'ignea bocca fulminando oppresse
                  Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
                  Una ruina involve,
                  Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
                  I danni altrui commiserando, al cielo
                  Di dolcissimo odor mandi un profumo,
                  Che il deserto consola. A queste piagge
                  Venga colui che d'esaltar con lode
                  Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
                  È il gener nostro in cura
                  All'amante natura. E la possanza
                  Qui con giusta misura
                  Anco estimar potrà dell'uman seme,
                  Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
                  Con lieve moto in un momento annulla
                  In parte, e può con moti
                  Poco men lievi ancor subitamente
                  Annichilare in tutto.
                  Dipinte in queste rive
                  Son dell'umana gente
                  Le magnifiche sorti e progressive .
                  Qui mira e qui ti specchia,
                  Secol superbo e sciocco,
                  Che il calle insino allora
                  Dal risorto pensier segnato innanti
                  Abbandonasti, e volti addietro i passi,
                  Del ritornar ti vanti,
                  E procedere il chiami.
                  Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
                  Di cui lor sorte rea padre ti fece,
                  Vanno adulando, ancora
                  Ch'a ludibrio talora
                  T'abbian fra sé. Non io
                  Con tal vergogna scenderò sotterra;
                  Ma il disprezzo piuttosto che si serra
                  Di te nel petto mio,
                  Mostrato avrò quanto si possa aperto:
                  Ben ch'io sappia che obblio
                  Preme chi troppo all'età propria increbbe.
                  Di questo mal, che teco
                  Mi fia comune, assai finor mi rido.
                  Libertà vai sognando, e servo a un tempo
                  Vuoi di novo il pensiero,
                  Sol per cui risorgemmo
                  Della barbarie in parte, e per cui solo
                  Si cresce in civiltà, che sola in meglio
                  Guida i pubblici fati.
                  Così ti spiacque il vero
                  Dell'aspra sorte e del depresso loco
                  Che natura ci diè. Per questo il tergo
                  Vigliaccamente rivolgesti al lume
                  Che il fè palese: e, fuggitivo, appelli
                  Vil chi lui segue, e solo
                  Magnanimo colui
                  Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
                  Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
                  Uom di povero stato e membra inferme
                  Che sia dell'alma generoso ed alto,
                  Non chiama sé né stima
                  Ricco d'or né gagliardo,
                  E di splendida vita o di valente
                  Persona infra la gente
                  Non fa risibil mostra;
                  Ma sé di forza e di tesor mendico
                  Lascia parer senza vergogna, e noma
                  Parlando, apertamente, e di sue cose
                  Fa stima al vero uguale.
                  Magnanimo animale
                  Non credo io già, ma stolto,
                  Quel che nato a perir, nutrito in pene,
                  Dice, a goder son fatto,
                  E di fetido orgoglio
                  Empie le carte, eccelsi fati e nove
                  Felicità, quali il ciel tutto ignora,
                  Non pur quest'orbe, promettendo in terra
                  A popoli che un'onda
                  Di mar commosso, un fiato
                  D'aura maligna, un sotterraneo crollo
                  Distrugge sì, che avanza
                  A gran pena di lor la rimembranza.
                  Nobil natura è quella
                  Che a sollevar s'ardisce
                  Gli occhi mortali incontra
                  Al comun fato, e che con franca lingua,
                  Nulla al ver detraendo,
                  Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
                  E il basso stato e frale;
                  Quella che grande e forte
                  Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
                  Fraterne, ancor più gravi
                  D'ogni altro danno, accresce
                  Alle miserie sue, l'uomo incolpando
                  Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
                  Che veramente è rea, che dè mortali
                  Madre è di parto e di voler matrigna.
                  Costei chiama inimica; e incontro a questa
                  Congiunta esser pensando,
                  Siccome è il vero, ed ordinata in pria
                  L'umana compagnia,
                  Tutti fra sé confederati estima
                  Gli uomini, e tutti abbraccia
                  Con vero amor, porgendo
                  Valida e pronta ed aspettando aita
                  Negli alterni perigli e nelle angosce
                  Della guerra comune. Ed alle offese
                  Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
                  Al vicino ed inciampo,
                  Stolto crede così qual fora in campo
                  Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
                  Incalzar degli assalti,
                  Gl'inimici obbliando, acerbe gare
                  Imprender con gli amici,
                  E sparger fuga e fulminar col brando
                  Infra i propri guerrieri.
                  Così fatti pensieri
                  Quando fien, come fur, palesi al volgo,
                  E quell'orror che primo
                  Contra l'empia natura
                  Strinse i mortali in social catena,
                  Fia ricondotto in parte
                  Da verace saper, l'onesto e il retto
                  Conversar cittadino,
                  E giustizia e pietade, altra radice
                  Avranno allor che non superbe fole,
                  Ove fondata probità del volgo
                  Così star suole in piede
                  Quale star può quel ch'ha in error la sede.
                  Sovente in queste rive,
                  Che, desolate, a bruno
                  Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
                  Seggo la notte; e su la mesta landa
                  In purissimo azzurro
                  Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
                  Cui di lontan fa specchio
                  Il mare, e tutto di scintille in giro
                  Per lo vòto seren brillare il mondo.
                  E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
                  Ch'a lor sembrano un punto,
                  E sono immense, in guisa
                  Che un punto a petto a lor son terra e mare
                  Veracemente; a cui
                  L'uomo non pur, ma questo
                  Globo ove l'uomo è nulla,
                  Sconosciuto è del tutto; e quando miro
                  Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
                  Nodi quasi di stelle,
                  Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
                  E non la terra sol, ma tutte in uno,
                  Del numero infinite e della mole,
                  Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
                  O sono ignote, o così paion come
                  Essi alla terra, un punto
                  Di luce nebulosa; al pensier mio
                  Che sembri allora, o prole
                  Dell'uomo? E rimembrando
                  Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
                  Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
                  Che te signora e fine
                  Credi tu data al Tutto, e quante volte
                  Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
                  Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
                  Per tua cagion, dell'universe cose
                  Scender gli autori, e conversar sovente
                  Cò tuoi piacevolmente, e che i derisi
                  Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
                  Fin la presente età, che in conoscenza
                  Ed in civil costume
                  Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
                  Mortal prole infelice, o qual pensiero
                  Verso te finalmente il cor m'assale?
                  Non so se il riso o la pietà prevale.
                  Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
                  Cui là nel tardo autunno
                  Maturità senz'altra forza atterra,
                  D'un popol di formiche i dolci alberghi,
                  Cavati in molle gleba
                  Con gran lavoro, e l'opre
                  E le ricchezze che adunate a prova
                  Con lungo affaticar l'assidua gente
                  Avea provvidamente al tempo estivo,
                  Schiaccia, diserta e copre
                  In un punto; così d'alto piombando,
                  Dall'utero tonante
                  Scagliata al ciel profondo,
                  Di ceneri e di pomici e di sassi
                  Notte e ruina, infusa
                  Di bollenti ruscelli
                  O pel montano fianco
                  Furiosa tra l'erba
                  Di liquefatti massi
                  E di metalli e d'infocata arena
                  Scendendo immensa piena,
                  Le cittadi che il mar là su l'estremo
                  Lido aspergea, confuse
                  E infranse e ricoperse
                  In pochi istanti: onde su quelle or pasce
                  La capra, e città nove
                  Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
                  Son le sepolte, e le prostrate mura
                  L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
                  Non ha natura al seme
                  Dell'uom più stima o cura
                  Che alla formica: e se più rara in quello
                  Che nell'altra è la strage,
                  Non avvien ciò d'altronde
                  Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
                  Ben mille ed ottocento
                  Anni varcàr poi che spariro, oppressi
                  Dall'ignea forza, i popolati seggi,
                  E il villanello intento
                  Ai vigneti, che a stento in questi campi
                  Nutre la morta zolla e incenerita,
                  Ancor leva lo sguardo
                  Sospettoso alla vetta
                  Fatal, che nulla mai fatta più mite
                  Ancor siede tremenda, ancor minaccia
                  A lui strage ed ai figli ed agli averi
                  Lor poverelli. E spesso
                  Il meschino in sul tetto
                  Dell'ostel villereccio, alla vagante
                  Aura giacendo tutta notte insonne,
                  E balzando più volte, esplora il corso
                  Del temuto bollor, che si riversa
                  Dall'inesausto grembo
                  Su l'arenoso dorso, a cui riluce
                  Di Capri la marina
                  E di Napoli il porto e Mergellina.
                  E se appressar lo vede, o se nel cupo
                  Del domestico pozzo ode mai l'acqua
                  Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
                  Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
                  Di lor cose rapir posson, fuggendo,
                  Vede lontan l'usato
                  Suo nido, e il picciol campo,
                  Che gli fu dalla fame unico schermo,
                  Preda al flutto rovente,
                  Che crepitando giunge, e inesorato
                  Durabilmente sovra quei si spiega.
                  Torna al celeste raggio
                  Dopo l'antica obblivion l'estinta
                  Pompei, come sepolto
                  Scheletro, cui di terra
                  Avarizia o pietà rende all'aperto;
                  E dal deserto foro
                  Diritto infra le file
                  Dei mozzi colonnati il peregrino
                  Lunge contempla il bipartito giogo
                  E la cresta fumante,
                  Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
                  E nell'orror della secreta notte
                  Per li vacui teatri,
                  Per li templi deformi e per le rotte
                  Case, ove i parti il pipistrello asconde,
                  Come sinistra face
                  Che per vòti palagi atra s'aggiri,
                  Corre il baglior della funerea lava,
                  Che di lontan per l'ombre
                  Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
                  Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
                  Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
                  Dopo gli avi i nepoti,
                  Sta natura ognor verde, anzi procede
                  Per sì lungo cammino
                  Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
                  Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
                  E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
                  E tu, lenta ginestra,
                  Che di selve odorate
                  Queste campagne dispogliate adorni,
                  Anche tu presto alla crudel possanza
                  Soccomberai del sotterraneo foco,
                  Che ritornando al loco
                  Già noto, stenderà l'avaro lembo
                  Su tue molli foreste. E piegherai
                  Sotto il fascio mortal non renitente
                  Il tuo capo innocente:
                  Ma non piegato insino allora indarno
                  Codardamente supplicando innanzi
                  Al futuro oppressor; ma non eretto
                  Con forsennato orgoglio inver le stelle,
                  Né sul deserto, dove
                  E la sede e i natali
                  Non per voler ma per fortuna avesti;
                  Ma più saggia, ma tanto
                  Meno inferma dell'uom, quanto le frali
                  Tue stirpi non credesti
                  O dal fato o da te fatte immortali.
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                    Scritta da: Silvana Stremiz
                    in Poesie (Poesie d'Autore)

                    Alla primavera

                    Perché i celesti danni
                    Ristori il sole, e perché l'aure inferme
                    Zefiro avvivi, onde fugata e sparta
                    Delle nubi la grave ombra s'avvalla;
                    Credano il petto inerme
                    Gli augelli al vento, e la diurna luce
                    Novo d'amor desio, nova speranza
                    Nè penetrati boschi e fra le sciolte
                    Pruine induca alle commosse belve;
                    Forse alle stanche e nel dolor sepolte
                    Umane menti riede
                    La bella età, cui la sciagura e l'atra
                    Face del ver consunse
                    Innanzi tempo? Ottenebrati e spenti
                    Di febo i raggi al misero non sono
                    In sempiterno? Ed anco,
                    Primavera odorata, inspiri e tenti
                    Questo gelido cor, questo ch'amara
                    Nel fior degli anni suoi vecchiezza impara?
                    Vivi tu, vivi, o santa
                    Natura? Vivi e il dissueto orecchio
                    Della materna voce il suono accoglie?
                    Già di candide ninfe i rivi albergo,
                    Placido albergo e specchio
                    Furo i liquidi fonti. Arcane danze
                    D'immortal piede i ruinosi gioghi
                    Scossero e l'ardue selve (oggi romito
                    Nido dè venti): e il pastorel ch'all'ombre
                    Meridiane incerte ed al fiorito
                    Margo adducea dè fiumi
                    Le sitibonde agnelle, arguto carme
                    Sonar d'agresti Pani
                    Udì lungo le ripe; e tremar l'onda
                    Vide, e stupì, che non palese al guardo
                    La faretrata Diva
                    Scendea nè caldi flutti, e dall'immonda
                    Polve tergea della sanguigna caccia
                    Il niveo lato e le verginee braccia.
                    Vissero i fiori e l'erbe,
                    Vissero i boschi un dì. Conscie le molli
                    Aure, le nubi e la titania lampa
                    Fur dell'umana gente, allor che ignuda
                    Te per le piagge e i colli,
                    Ciprigna luce, alla deserta notte
                    Con gli occhi intenti il viator seguendo,
                    Te compagna alla via, te dè mortali
                    Pensosa immaginò. Che se gl'impuri
                    Cittadini consorzi e le fatali
                    Ire fuggendo e l'onte,
                    Gl'ispidi tronchi al petto altri nell'ime
                    Selve remoto accolse,
                    Viva fiamma agitar l'esangui vene,
                    Spirar le foglie, e palpitar segreta
                    Nel doloroso amplesso.
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