Poesie personali


Scritta da: Stefano Medel
in Poesie (Poesie personali)

Nevicando

Niente,
ascolto
il nulla della
notte,
mentre nevica
piano;
voglio stare al
di fuori
di tutto,
fuori
dalla gente,
dalle opinioni,
dalle storie,
dalle menate;
voglio stare
nel mio mondo,
separato
dalla corsa folle
del mondo,
dal casino
perenne;
voglio
il mio tempo,
per me,
spenderlo come voglio,
fare
o non fare nulla,
se mi và;
non ho tempo per nessuno,
voglio
spendere
il mio tempo
per me,
e per te,
tesoro,
non andare,
pensami,
pensami,
mentre i
fiocchi,
planano adagio,
sul selciato,
bisogno di tepore,
casa.
Composta mercoledì 1 dicembre 2010
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    Scritta da: Rea
    in Poesie (Poesie personali)

    Dentro o fuori

    Stanotte prego a Dio
    di scegliere per noi
    visto che noi
    non siamo in grado
    di scegliere.

    Stanotte prego a Dio
    di tirare Lui le somme
    del nostro vissuto insieme.

    Stanotte prego a Dio
    di farsi intenerire dai ricordi che ha di noi
    e di commuoversi innanzi alle nostre promesse
    e ai nostri giuramenti.

    Stanotte prego a Dio
    di decidere e di fare in fretta
    perché fai male da morire...
    di decidere se tu sei destinato
    a stare dentro o fuori
    alla vita mia.
    Composta martedì 30 novembre 2010
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      Scritta da: Rea
      in Poesie (Poesie personali)

      C'ho provato!

      Ho provato ad ascoltarti
      ho provato a capirti
      ho provato ad assecondarti

      ho provato a chiarirmi

      ho provato a spiegarti
      ho provato a chiamarti
      ho provato a seguirti
      ho provato a sentirti

      ho provato ad illudermi

      ho provato a dimenticarti
      ho provato ad accontentarti

      ho provato ad annullarmi.

      Sai cosa ti dico?
      C'ho provato!
      Composta martedì 30 novembre 2010
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        Scritta da: Carlo Peparello
        in Poesie (Poesie personali)

        Contaminazioni

        È un germe che fa appassire
        Cerca l'annullamento ma devi partire
        Spogliarti di foglie morte
        Di falsi ideali e speranze contorte
        Evitare frasi fatte da bocche cucite
        Salutare fresche figure sbiadite
        Non ci si eclissa dalle illusioni
        Non si evitano ninfe e pigmalioni
        Si assorbono scorie e lamenti
        si vomitano ombre ai quattro venti
        Non barcollare davanti al vuoto
        attraversa l'oceano nero a nuoto
        È un pozzo sconfinato pieno di gente
        Vittime del passato e non hanno più niente
        Non appartenere ad insuccessi di altri
        Creati la fortuna e buttala pure nel cesso
        Finché sporcherai le tue di mani
        Potrai sempre sperare in un labirintico domani.
        Composta martedì 30 novembre 2010
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          Scritta da: ILARIO
          in Poesie (Poesie personali)

          Il silenzio

          Il silenzio racchiude
          L'estasi di un momento
          L'essenza del Creato.
          Fai tacere la Mente
          Limita il pensiero
          Evolvi dentro.
          Apri il tuo Cuore
          Fai che trabocchi di Luce.
          Guarda con gli occhi di un Bimbo L'orizzonte
          Spingi lo sguardo oltre il tuo cielo
          Dietro di esso si nasconde l'immensità
          Dove il principio e la fine si mescolano in un arcobaleno di colori.
          Composta sabato 27 novembre 2010
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            Scritta da: Salvatore Coppola
            in Poesie (Poesie personali)

            Ho perso

            Bevo l'amore in un calice d'oro
            l'essenza di un cuore trafitto dal tempo
            mi duole il ricordo di un truce pensiero
            l'incanto dissolto dal gelido vento.
            La notte faziosa, confonde la mente
            sconfigge la tregua nell'anima il pianto
            ho perso in amore, ne prendo coscienza,
            tra luci e bagliori del giorno nascente.
            Composta mercoledì 24 novembre 2010
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              Scritta da: Nello Maruca
              in Poesie (Poesie personali)

              Il patimento

              In quel quarantatré, dai suoi albori
              di quante tristi cose furon'orrori,
              quante anormali cose ebber processo
              tutto in memoria bene m'è impresso.
              Per quanto m'opri e sproni l'intelletto
              su carta, certo, non può esser detto
              quel ch'ho vissuto e con mio occhio visto
              in quel periodo nero, infame e tristo.

              Aleggiava miseria tutt'intorno
              e pane non era più in nessun forno;
              grano non era né farina o pasta
              e pochi i viveri distribuiti a testa.
              La tessera donava misero diritto
              ad accedere a poco, grame vitto;
              la fame in ogni dove era perenne,
              da sofferenza vecchio era trentenne.

              Prodotto non donava più la terra;
              era periodo tristo, era la guerra!
              Manco erba era agli argini di via
              ch'er'estirpata che nascesse pria.
              Di medicina, poi, non era traccia
              e il patimento si leggeva in faccia.
              V'era, soltanto, del poco chinino
              che scarso lo teneva il tabacchino.

              Nessuno al piede più avea calzare,
              nessuno panni aveva da indossare.
              Occhio scavato, zigomo sporgente,
              testa cadente, sguardo triste e assente.
              Scalza la donna, macilenta e stanca
              di cenci avea coperto spalla e anca;
              gobba teneva e non avea vent'anni,
              curve le spalle per i molti affanni.

              Ovunque era sporcizia, era lordura,
              di scarafaggi piena ogni fessura;
              di cimice e di mosche era marea,
              pulci e pidocchi ahimè! Ognuno avea.
              Necessità del corpo fisiologica
              soddisfava in vaso di ceramica
              la donna, il maschio, con corruccio
              di cesso ne faceva ogni cantuccio.

              Mesta sonava la campana a lutto
              per annunciare della guerra il frutto;
              quel tocco come freccia il cuor passava,
              piangea la donna, ahimè, chi non tornava.
              Per quella guerra dal passo stanco e lento
              altro Virgulto risultava spento
              e la speme che nutria la giovinetta
              era infilzata dalla baionetta.

              Di fame sofferente e di stanchezza
              gente che perso avea casa e ricchezza
              giungeva con scarsi panni addosso
              ch'al sol vederla umano era commosso.
              Siamo sfollati, venivano dicendo,
              veniamo da lontano, veniamo da Trento.
              Avevamo mestiere professione e arte
              delle vostre miserie deh! Fateci parte.

              Dacché la guerra su nostra Terra regna
              destino cattivo i nostri animi segna;
              dacché l'odio è calato come lampo
              manco nella preghiera avemmo scampo.
              E noi, che poveri eravamo non meno d'essi
              in un abbraccio a loro stemmo commossi,
              le nostre alle loro lacrime mischiammo
              e l'un con l'altro un solo corpo fummo.

              Di militi a cavallo e giacca a vento
              era un esteso, grand'accampamento.
              Militi stavano a guardia per cancello
              e avevano disloco in area Polpicello,
              Portavano divise lacere a stellette
              e a pranzo sgranavano gallette
              con poco vitto ch'era in scatolame,
              per appagare i morsi della fame.

              In questo quadro triste e desolante
              v'era qualcosa, però, di sublimante.
              Era quel canto che s'innalzava al cielo
              da dentro le baracche a verde telo.
              Gl'inni di Patria che i militi intonavano
              con orgoglio pel cielo veleggiavano
              e nell'udirli: Grandezza del Divino!
              Non era fame, nemmen tristo destino.
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                Scritta da: Nello Maruca
                in Poesie (Poesie personali)

                Fatina

                Per caso t'incontrai in quel paese
                ove mai pensato avrei m'innamorassi
                quando saltavo tra quei fossi e sassi
                e, lesto, preparai il mio maggese.

                Trascorso abbiamo già cinque cinquine,
                di cinquina la sesta già cammina
                e tu rimasta sei quella Fatina
                ch'io intravidi quel dì tra le tendine.

                In questi cinque già passati lustri
                migliore non potevi farmi dono:
                Gioielli son dal viso dolce e buono
                quei cinque che donato m'hai di Astri.

                In quest'anni di mutato hai solo gl'anni.
                Per il resto sei com'eri: Dolce e buona
                com'allora, dolce sei tuttora e buona
                e mutato manco t'hanno i grand'affanni.

                In trent'anni andati via divenuta
                sei maestra di bontate e di dolcezza,
                nell'alma tua c'è sempre giovinezza
                e resti la Fatina che giammai muta.

                Tanta tristezza mi riempie il cuore
                il ricordo dei dì passati invano
                quando tu, dolce com'ora, piano piano
                mi donavi te stessa a tutte l'ore.

                Sol mi consola l'accresciuto affetto
                e par che le colpe un poco sminuisce
                perché, per te, l'affetto non svanisce
                ma rafforzar lo sento nel mio petto.

                Or mio è il tuo male se malata sei,
                se piangi tu, nel cuore lacrim'anch'io,
                se stanca sei, ahimè, stanco son io,
                contento son pur'io se tu contenta sei.

                Tanto m'hai dato e tanto poco ho dato!
                Ah! Se potessi indietro ritornare
                amor d'amore tornerei ad amare
                e sempre più vicino ti starei,
                come al padrone il cagnolin fidato.
                Composta mercoledì 30 novembre 1988
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                  Scritta da: Nello Maruca
                  in Poesie (Poesie personali)

                  L'Angelo

                  In quel prato verdeggiante dall'odore
                  di bianco giglio, all'ombra di due tigli
                  son gioiosi quattro teneri germogli
                  che bellezza e candore tengono
                  più dei miglior fiori. Non son rose, nemmanco
                  gigli, sono gioie, amorevoli son figli.
                  Ma in un dì assai funesto tutto tosto
                  divien mesto per volere della dea
                  matta che al focolare dei giusti buoni
                  pene dona, dolori e guasti.
                  Là, nel mezzo di una siepe di quel lieto
                  orto virente si spalanca all'improvviso
                  una gola nera e fonda che una Gioia
                  ingoia e scaglia nelle viscere profonde.
                  Lestamente si richiude e la Gioia
                  nella melma con vigore affonda
                  e schiaccia e la stritola e affoga.
                  Lento, sotterra, scorre fiume silente
                  e l'inerte Spoglia in se, in un abbraccio,
                  accoglie. Senza sbalzi, quietamente,
                  la trasporta dolcemente e la dondola
                  e trastulla come mamma bimbo in culla.
                  Soavemente la quiet'onda l'accarezza
                  e con amore fuor da terra, indi, la pone
                  sulla spiaggia in faccia al sole
                  che al contatto del calore divien Stella
                  e in Cielo si trova. Dalla veste lunga
                  e bianca un Arcangelo l'affianca
                  e per la lustra Via al cospetto la conduce
                  di Colui ch'è pace e luce. Un sol bacio,
                  un sorriso ed è Angelo in Paradiso.
                  Dalla Reggia dei Beati spande luce
                  agli assetati e invita con ardore
                  a ber l'acqua del Signore. A quei Tigli
                  tanto cari stanchi e privi di vigoria
                  li incoraggia e sorregge carezzando
                  i cuor dolenti col sorriso dell'angelico
                  suo viso, lo splendore dei begl'occhi,
                  la dolcezza e il candore dell'immenso
                  gentil cuore ch'elargisce gioia e amore.

                  O, tu mamma triste e pia sii più forte,
                  sii qual Maria. Pensa solo che sto in pace
                  e che assieme alle altre Stelle sono
                  luce al firmamento. Se tu guardi il Cielo
                  a sera una Stella più lucente
                  si riflette nei tuoi stanch'occhi. Quella Stella,
                  mamma, son io che per te prego il buon Dio.

                  A te, padre mio adorato, sofferente
                  e addolorato, non star triste: Vivo
                  in Casa dei Beati ch'è accosta
                  ai Santificati. Tutto è pace,
                  tutto è quiete, tutto splende, tutto tace.

                  Tu che in terra fosti pria la lucerna
                  di mia via perché hai perso il luccichio?
                  Non sai tu, o sposa mia, che sto in Cielo
                  per le vie? Non sai tu che il Loco Sacro
                  ho raggiunto del Gran Padre? Il tuo uomo
                  più non sono, son di più, molto di più:
                  Sono l'Angelo custode che ti guido,
                  ti consolo e son teco in ogni dove.
                  Composta giovedì 30 novembre 2006
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