Bevo a una casa distrutta, alla mia vita sciagurata, a solitudini vissute in due e bevo anche a te: all'inganno di labbra che tradirono, al morto gelo dei tuoi occhi, ad un mondo crudele e rozzo, ad un Dio che non ci ha salvato.
Non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo di strade
Ho tanta stanchezza sulle spalle
Lasciatemi così come una cosa posata in un angolo e dimenticata Qui non si sente altro che il caldo buono Sto con le quattro capriole di fumo del focolare.
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco lo dichiari e risplenda come un croco perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l'uomo che se ne va sicuro, agli altri ed a se stesso amico, e l'ombra sua non cura che la canicola stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
È difficile dire con parole di figlio ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio. Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore. Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere: è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia. Sei insostituibile. Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai data. E non voglio esser solo. Ho un'infinita fame d'amore, dell'amore di corpi senza anima. Perché l'anima è in te, sei tu, ma tu sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù: ho passato l'infanzia schiavo di questo senso alto, irrimediabile, di un impegno immenso. Era l'unico modo per sentire la vita, l'unica tinta, l'unica forma: ora è finita. Sopravviviamo: ed è la confusione di una vita rinata fuori dalla ragione. Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire. Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile….
Nulla è mai veramente perduto, o può essere perduto, nessuna nascita, forma, identità - nessun oggetto del mondo, né vita, né forza, né alcuna cosa visibile; l'apparenza non deve ingannare, né l'ambito mutato confonderti il cervello. Vasti sono il tempo e lo spazio - vasti i campi della Natura. Il corpo lento, invecchiato, freddo - le ceneri rimaste dai fuochi di un tempo, la luce degli occhi divenuta tenue, tornerà puntualmente a risplendere; il sole ora basso a occidente sorge costante per mattini e meriggi; alle zolle gelate sempre ritorna la legge invisibile della primavera, con l'erba e i fiori e i frutti estivi e il grano.
Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico ma nazione vivente, ma nazione europea: e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti, governanti impiegati di agrari, prefetti codini, avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi, funzionari liberali carogne come gli zii bigotti, una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino! Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti, tra case coloniali scrostate ormai come chiese. Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti, proprio perché fosti cosciente, sei incosciente. E solo perché sei cattolica, non puoi pensare che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male. Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.
Passata è la tempesta: Odo augelli far festa, e la gallina, Tornata in su la via, Che ripete il suo verso. Ecco il sereno Rompe là da ponente, alla montagna; Sgombrasi la campagna, E chiaro nella valle il fiume appare. Ogni cor si rallegra, in ogni lato Risorge il romorio Torna il lavoro usato. L'artigiano a mirar l'umido cielo, Con l'opra in man, cantando, Fassi in su l'uscio; a prova Vien fuor la femminetta a còr dell'acqua Della novella piova; E l'erbaiuol rinnova Di sentiero in sentiero Il grido giornaliero. Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride Per li poggi e le ville. Apre i balconi, Apre terrazzi e logge la famiglia: E, dalla via corrente, odi lontano Tintinnio di sonagli; il carro stride Del passeggier che il suo cammin ripiglia. Si rallegra ogni core. Sì dolce, sì gradita Quand'è, com'or, la vita? Quando con tanto amore L'uomo à suoi studi intende? O torna all'opre? O cosa nova imprende? Quando dè mali suoi men si ricorda? Piacer figlio d'affanno; Gioia vana, ch'è frutto Del passato timore, onde si scosse E paventò la morte Chi la vita abborria; Onde in lungo tormento, Fredde, tacite, smorte, Sudàr le genti e palpitàr, vedendo Mossi alle nostre offese Folgori, nembi e vento. O natura cortese, Son questi i doni tuoi, Questi i diletti sono Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena È diletto fra noi. Pene tu spargi a larga mano; il duolo Spontaneo sorge e di piacer, quel tanto Che per mostro e miracolo talvolta Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana Prole cara agli eterni! Assai felice Se respirar ti lice D'alcun dolor: beata Se te d'ogni dolor morte risana.
Ti vidi una volta, una sola volta –anni fa: non voglio dir quanti – non molti, tuttavia. Era notte, di Luglio; e dalla grande luna piena che, come la tua anima, ricercava, elevandosi, un suo erto sentiero per l'arco del cielo, piovve un serico argenteo velo di luce, con sé recando requie, grave afa e sopore, sui sollevati visi d'almeno mille rose che s'affollavano in un incantato giardino, che nessun vento – se non in punta di piedi – osava agitare. E cadde su quei visi di rose levati al cielo, che in cambio restituirono, per l'amorosa luce, le loro anime stesse odorose, in estatica morte. Cadde su quei visi di rose levati al cielo, che sorridendo morirono, in quel chiuso giardino, da te incantati, da quella poesia che tu eri. In bianca veste, sopra una sponda di viole, ti vidi reclina, mentre che quella luce lunare cadeva sui visi sollevati delle rose, e sul tuo, sul tuo viso –ahimé, dolente! Non fu il Destino che, in quella notte di Luglio, non fu forse il Destino ( e Dolore è l'altro suo nome) che m'arrestò, davanti a quel giardino, a respirar l'incenso di quelle rose addormentate? Non un passo nel silenzio: dormiva l'odiato mondo, tranne io e te. M'arrestai, guardai e ogni cosa in un attimo disparve (Oh, ricorda ch'era un magico giardino! ) Si spense il perlaceo lume della luna: non più vidi sponde muscose, tortuosi sentieri, i lieti fiori e gli alberi gementi; e moriva quel profumo stesso delle rose tra le braccia dell'aria innamorata. Tutto svaniva fuor che tu sola – una parte anzi di te: fuor che quella divina luce nei tuoi occhi- fuor che la tua anima nei tuoi occhi alzati al cielo. Quelli io vedevo e non altro – l'intero mondo per me. Quelli io vedevo e non altro – e così per molte ore- quelli solo io vedevo – finché la luna non tramontò. Quali selvagge storie del cuore erano inscritte in quelle celestiali sfere di cristallo! Quale fosco dolore! E sublime speranza! Quale tacito e pacato mare d'orgoglio! Quale audace ambizione! E che profonda- insondabile capacità d'amore! Ma disparve infine Diana alla mia vista, velata in un giaciglio di scure nuvole a ponente; e tu – uno spettro – tra i sepolcrali alberi ti dileguasti. Solo i tuoi occhi rimasero. Essi non vollero andar via – mai più disparvero. Quella notte illuminando il mio solingo cammino, non più mi lasciarono (come invece, ahimé, le speranze! ). Ovunque mi seguono, mi guidano negli anni. Sono i miei ministri – ma io il loro schiavo. Loro compito è d'illuminarmi, d'infiammarmi, e mio dovere è d'esser salvato da quella luce, in quel loro elettrico fuoco purificato, in quel loro elisio fuoco santificato. Mi colmano l'anima di beltà, di speranza – su nel cielo – le stelle a cui mi prostro nelle tristi, mute veglie delle mie notti; e nel meridiano splendore el giorno ancora io le vedo – due fulgenti e dolci Veneri, che il sole non può oscurare.
Nel fior di giovinezza, ebbi in sorte d'abitar del vasto mondo un luogo che non poteva ch'essermi caro e diletto - tanto m'era dolce d'un ermo lago la selvaggia bellezza, cinto di nere rocce, con alti pini torreggianti intorno.
Ma poi che Notte, come su tutto, aveva lì disteso il suo manto, e il mistico vento e melodioso passava sussurrando - oh, allora, con un sussulto io mi destavo al terrore di quel solitario lago.
Pure, non mi dava spavento quel terrore, ma anzi un tiepido diletto - un diletto che nè miniere di gemme nè lusinghe o donativi mai potrebbero indurmi a definir qual era - e neanche Amore - fosse anche l'Amor tuo.
Morte abitava in quelle acque attossicate, e una tomba nel profondo gorgo era disposta per chi sapesse ricavarne un sollievo al suo immaginare: il solingo spirito sapesse fare un Eden di quell'oscuro lago.
Tu che t'insinuasti come una lama Nel mio cuore gemente; tu che forte Come un branco di demoni venisti A fare folle e ornata, del mio spirito Umiliato il tuo letto e il regno-infame A cui, come il forzato alla catena, Sono legato: come alla bottiglia L'ubriacone; come alla carogna I vermi; come al gioco l'ostinato Giocatore - che sia maledetta. Ho chiesto alla fulminea spada, allora, Di conquistare la mia libertà; Ed il veleno perfido ho pregato Di soccorrer me vile. Ahimè, la spada Ed il veleno, pieni di disprezzo, M'han detto: "Non sei degno che alla tua Schiavitù maledetta ti si tolga, Imbecille! - una volta liberato Dal suo dominio, per i nostri sforzi, tu faresti rivivere il cadaver del tuo vampiro, con i baci tuoi!"