Le migliori poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz

A lungo durerà il mio viaggio

A lungo durerà il mio viaggio
e lunga è la via da percorrere.

Uscii sul mio carro ai primi albori
del giorno, e proseguii il mio viaggio
attraverso i deserti del mondo
lasciai la mia traccia
su molte stelle e pianeti.

Sono le vie più remote
che portano più vicino a te stesso;
è con lo studio più arduo che si ottiene
la semplicità d'una melodia.

Il viandante deve bussare
a molte porte straniere
per arrivare alla sua,
e bisogna viaggiare
per tutti i mondi esteriori
per giungere infine al sacrario
più segreto all'interno del cuore.

I miei occhi vagarono lontano
prima che li chiudessi dicendo:
"Eccoti! "

Il grido e la domanda: "Dove? "
si sciolgono nelle lacrime
di mille fiumi e inondano il mondo
con la certezza: " lo sono! "
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    Ho sceso, dandoti il braccio, almeno milioni di scale

    Ho sceso, dandoti il braccio, almeno milioni di scale
    e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
    Anche così è stato breve il nostro viaggio.
    Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
    le coincidenze, le prenotazioni,
    le trappole, gli scorni di chi crede
    che la realtà sia quella che si vede.
    Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
    non già perché con quattr'occhi forse si vede di più.
    Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
    le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
    erano le tue.
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      Non chiederci la parola

      Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
      l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
      lo dichiari e risplenda come un croco
      perduto in mezzo a un polveroso prato.

      Ah l'uomo che se ne va sicuro,
      agli altri ed a se stesso amico,
      e l'ombra sua non cura che la canicola
      stampa sopra uno scalcinato muro!

      Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
      sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
      Codesto solo oggi possiamo dirti,
      ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        Supplica a mia madre

        È difficile dire con parole di figlio
        ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
        Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
        ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore.
        Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere:
        è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
        Sei insostituibile. Per questo è dannata
        alla solitudine la vita che mi hai data.
        E non voglio esser solo. Ho un'infinita fame
        d'amore, dell'amore di corpi senza anima.
        Perché l'anima è in te, sei tu, ma tu
        sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
        ho passato l'infanzia schiavo di questo senso
        alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
        Era l'unico modo per sentire la vita,
        l'unica tinta, l'unica forma: ora è finita.
        Sopravviviamo: ed è la confusione
        di una vita rinata fuori dalla ragione.
        Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
        Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile….
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Alla mia nazione

          Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico
          ma nazione vivente, ma nazione europea:
          e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
          governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
          avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
          funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
          una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
          Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
          pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
          tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
          Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
          proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
          E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
          che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male.
          Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            La quiete dopo la tempesta

            Passata è la tempesta:
            Odo augelli far festa, e la gallina,
            Tornata in su la via,
            Che ripete il suo verso. Ecco il sereno
            Rompe là da ponente, alla montagna;
            Sgombrasi la campagna,
            E chiaro nella valle il fiume appare.
            Ogni cor si rallegra, in ogni lato
            Risorge il romorio
            Torna il lavoro usato.
            L'artigiano a mirar l'umido cielo,
            Con l'opra in man, cantando,
            Fassi in su l'uscio; a prova
            Vien fuor la femminetta a còr dell'acqua
            Della novella piova;
            E l'erbaiuol rinnova
            Di sentiero in sentiero
            Il grido giornaliero.
            Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
            Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
            Apre terrazzi e logge la famiglia:
            E, dalla via corrente, odi lontano
            Tintinnio di sonagli; il carro stride
            Del passeggier che il suo cammin ripiglia.
            Si rallegra ogni core.
            Sì dolce, sì gradita
            Quand'è, com'or, la vita?
            Quando con tanto amore
            L'uomo à suoi studi intende?
            O torna all'opre? O cosa nova imprende?
            Quando dè mali suoi men si ricorda?
            Piacer figlio d'affanno;
            Gioia vana, ch'è frutto
            Del passato timore, onde si scosse
            E paventò la morte
            Chi la vita abborria;
            Onde in lungo tormento,
            Fredde, tacite, smorte,
            Sudàr le genti e palpitàr, vedendo
            Mossi alle nostre offese
            Folgori, nembi e vento.
            O natura cortese,
            Son questi i doni tuoi,
            Questi i diletti sono
            Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
            È diletto fra noi.
            Pene tu spargi a larga mano; il duolo
            Spontaneo sorge e di piacer, quel tanto
            Che per mostro e miracolo talvolta
            Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana
            Prole cara agli eterni! Assai felice
            Se respirar ti lice
            D'alcun dolor: beata
            Se te d'ogni dolor morte risana.
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              Elena (1848)

              Ti vidi una volta, una sola volta –anni fa:
              non voglio dir quanti – non molti, tuttavia.
              Era notte, di Luglio; e dalla grande luna piena
              che, come la tua anima, ricercava, elevandosi,
              un suo erto sentiero per l'arco del cielo,
              piovve un serico argenteo velo di luce,
              con sé recando requie, grave afa e sopore,
              sui sollevati visi d'almeno mille rose
              che s'affollavano in un incantato giardino,
              che nessun vento – se non in punta di piedi – osava agitare.
              E cadde su quei visi di rose levati al cielo,
              che in cambio restituirono, per l'amorosa luce,
              le loro anime stesse odorose, in estatica morte.
              Cadde su quei visi di rose levati al cielo,
              che sorridendo morirono, in quel chiuso giardino,
              da te incantati, da quella poesia che tu eri.
              In bianca veste, sopra una sponda di viole,
              ti vidi reclina, mentre che quella luce lunare
              cadeva sui visi sollevati delle rose,
              e sul tuo, sul tuo viso –ahimé, dolente!
              Non fu il Destino che, in quella notte di Luglio,
              non fu forse il Destino ( e Dolore è l'altro suo nome)
              che m'arrestò, davanti a quel giardino,
              a respirar l'incenso di quelle rose addormentate?
              Non un passo nel silenzio: dormiva l'odiato mondo,
              tranne io e te. M'arrestai, guardai
              e ogni cosa in un attimo disparve
              (Oh, ricorda ch'era un magico giardino! )
              Si spense il perlaceo lume della luna:
              non più vidi sponde muscose, tortuosi sentieri,
              i lieti fiori e gli alberi gementi;
              e moriva quel profumo stesso delle rose
              tra le braccia dell'aria innamorata.
              Tutto svaniva fuor che tu sola – una parte anzi di te:
              fuor che quella divina luce nei tuoi occhi-
              fuor che la tua anima nei tuoi occhi alzati al cielo.
              Quelli io vedevo e non altro – l'intero mondo per me.
              Quelli io vedevo e non altro – e così per molte ore-
              quelli solo io vedevo – finché la luna non tramontò.
              Quali selvagge storie del cuore erano inscritte
              in quelle celestiali sfere di cristallo!
              Quale fosco dolore! E sublime speranza!
              Quale tacito e pacato mare d'orgoglio!
              Quale audace ambizione! E che profonda-
              insondabile capacità d'amore!
              Ma disparve infine Diana alla mia vista,
              velata in un giaciglio di scure nuvole a ponente;
              e tu – uno spettro – tra i sepolcrali alberi
              ti dileguasti. Solo i tuoi occhi rimasero.
              Essi non vollero andar via – mai più disparvero.
              Quella notte illuminando il mio solingo cammino,
              non più mi lasciarono (come invece, ahimé,
              le speranze! ). Ovunque mi seguono, mi guidano
              negli anni. Sono i miei ministri – ma io il loro schiavo.
              Loro compito è d'illuminarmi, d'infiammarmi,
              e mio dovere è d'esser salvato da quella luce,
              in quel loro elettrico fuoco purificato,
              in quel loro elisio fuoco santificato.
              Mi colmano l'anima di beltà, di speranza –
              su nel cielo – le stelle a cui mi prostro
              nelle tristi, mute veglie delle mie notti;
              e nel meridiano splendore el giorno
              ancora io le vedo – due fulgenti e dolci
              Veneri, che il sole non può oscurare.
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                Scritta da: Silvana Stremiz

                Il lago

                Nel fior di giovinezza, ebbi in sorte
                d'abitar del vasto mondo un luogo
                che non poteva ch'essermi caro e diletto -
                tanto m'era dolce d'un ermo lago
                la selvaggia bellezza, cinto di nere rocce,
                con alti pini torreggianti intorno.

                Ma poi che Notte, come su tutto,
                aveva lì disteso il suo manto,
                e il mistico vento e melodioso
                passava sussurrando - oh, allora,
                con un sussulto io mi destavo
                al terrore di quel solitario lago.

                Pure, non mi dava spavento quel terrore,
                ma anzi un tiepido diletto -
                un diletto che nè miniere di gemme
                nè lusinghe o donativi mai potrebbero
                indurmi a definir qual era -
                e neanche Amore - fosse anche l'Amor tuo.

                Morte abitava in quelle acque attossicate,
                e una tomba nel profondo gorgo
                era disposta per chi sapesse ricavarne
                un sollievo al suo immaginare:
                il solingo spirito sapesse fare
                un Eden di quell'oscuro lago.
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