Le migliori poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz

A N. V. N.

C'è nel contatto umano un limite fatale,
non lo varca né amore né passione,
pur se in muto spavento si fondono le labbra
e il cuore si dilacera d'amore.

Perfino l'amicizia vi è impotente,
e anni d'alta, fiammeggiante gioia,
quando libera è l'anima ed estranea
allo struggersi lento del piacere.

Chi cerca di raggiungerlo è folle,
se lo tocca soffre una sorda pena...
ora hai compreso perché il mio cuore
non batte sotto la tua mano.
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    Benvenuta, donna mia, benvenuta!

    Benvenuta, donna mia, benvenuta!

    Certo sei stanca
    come potrò lavarti i piedi
    non ho acqua di rose né catino d'argento

    certo avrai sete
    non ho una bevanda fresca da offrirti

    certo avrai fame
    e io non posso apparecchiare
    una tavola con lino candido

    la mia stanza è povera e prigioniera
    come il nostro paese.

    Benvenuta, donna mia, benvenuta!

    Hai posato il piede nella mia cella
    e il cemento è divenuto prato

    hai riso
    e rose hanno fiorito le sbarre

    hai pianto
    e perle son rotolate sulle mie palme

    ricca come il mio cuore
    cara come la libertà
    è adesso questa prigione.

    Benvenuta, donna mia, benvenuta!
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      A Elena (1835)

      Elena, la tua bellezza è per me
      come quei navigli nicei d'un tempo
      che, mollemente, sull'odorato mare
      riportavano il pellegrino stanco d'errare
      alla sua sponda natia.

      Da tempo avezzo a disperati mari,
      la tua chioma di giacinto, il tuo classico volto,
      la tua grazia di Naiade riportano me anche in patria,
      a quella gloria che fu la Grecia,
      a quella maestà che fu Roma.

      Là, nel rilucente vano della finestra,
      come statua eretta io ti vedo,
      con in mano la tua lampada d'agata!
      Ah, Psyche, qui venuta dalle regioni
      che son Terra Santa.
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        Scritta da: Silvana Stremiz
        Non sono né un artista né un poeta.
        Ho trascorso i miei giorni scrivendo e dipingendo,
        ma non sono in sintonia
        con i miei giorni e le mie notti.
        Sono una nube,
        una nube che si confonde con gli oggetti,
        ma ad essi mai si unisce.
        Sono una nube,
        e nella nube è la mia solitudine,
        la mia fame e la mia sete.
        La calamità è che la nube, la mia realtà,
        anela di udire qualcunaltro che dica:
        <<Non sei solo in questo mondo
        ma siamo due, insieme,
        e io so chi sei tu>>.
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          How do I love thee?

          How do I love thee? Let me count the ways.
          I love thee to the depth and breadth and height
          my soul can reach, when feeling out of sight
          for the ends of Being and Ideal Grace.
          I love thee fo the levei of everyday's
          most quiet need, by sun and candlelight.
          I love thee freely, as men strive for Right;
          I love thee purely, as they turn from Praise;
          I love thee with the passion put fo use
          in my old griefs, and with my childhood's faith;
          I love thee with a love I seemed fo lose
          with my lost saints, - I love thee with the breath,
          smiles, tears, of all my life! - and, if God, choose,
          I shall but love thee better affer death.
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            Il gioco degli dei

            Gli dei lanciano i dadi, ma non domandano se vogliamo partecipare al gioco.
            Non vogliono sapere se hai lasciato un uomo, una casa, un lavoro, una carriera, un sogno.
            Gli dei non badano al fatto che tu vuoi avere una vita in cui ogni cosa sia al proprio posto,
            in cui ogni desiderio si possa esaudire con il lavoro e la pertinacia.
            Gli dei non tengono conto dei nostri piani e delle nostre speranze.
            In qualche luogo dell'universo, loro lanciano i dadi e, casualmente, vieni scelto tu.
            Da quel momento in poi, vincere o perdere è solo questione di opportunità.
            Gli dei lanciano i dadi e liberano l'amore dalla sua gabbia.
            Questa forza può creare o distruggere, a seconda della direzione in cui soffiava il vento
            nel momento in cui si è liberata dalla prigione. L'amore può condurci all'inferno o in paradiso,
            comunque ci porta sempre in qualche luogo. É necessario accettarlo, perché esso
            è ciò che alimenta la nostra esistenza.
            Se non lo accettiamo, moriremo di fame pur vedendo i rami dell'albero della vita carichi di frutti:
            non avremo il coraggio di tendere la mano e di coglierli.
            É necessario ricercare l'amore la dove si trova, anche se ciò potrebbe significare ore,
            giorni, settimane di delusione e di tristezza. Perché nel momento in cui partiamo in cerca dell'amore,
            anche l'amore muove per venirci incontro. E ci salva. E nell'amore non esistono regole.
            Possiamo tentare di seguire dei manuali, di controllare il cuore, di avere una strategia di comportamento.
            Ma sono tutte cose insignificanti. Decide il cuore.
            E quando decide è ciò che conta.
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              Gioventù vergine

              Di quando in quando
              Tutto m'ansima il corpo
              E la vita mi appare negli occhi,
              Tra essi vibrando e la bocca
              Giù selvatica discende per le membra
              Lasciando gli occhi miei svuotati tumultuanti
              E il petto mio quieto colma d'un fremito e un calore;
              E giù per le snelle ondulazioni sottostanti
              Che onde diventan pesanti, di passione gonfie
              E il ventre mio placido e sonnolento
              All'istante ribelle si desta bramoso,
              Eccitato sforzandosi e attento,
              Mentre le tenere braccia abbandonate
              Con forza selvaggia s'incrociano
              A stringere - quel che non hanno stretto mai.
              E tutto io vibro, tremo e ancora tremo
              Finché la strana potenza che il corpo mi scuoteva
              Non svanisce
              E nobile non risorge l'ininterrotto fluire della vita
              Nella durezza implacabile dei miei occhi,
              Non risorge dalla bellezza solitaria del corpo mio
              Esausto e insoddisfatto.
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                Scritta da: Silvana Stremiz

                Il carnevale di Gerti

                Se la ruota si impiglia nel groviglio
                delle stesse filanti ed il cavallo
                s'impenna tra la calca, se ti nevica
                fra i capelli e le mani un lungo brivido
                d'iridi trascorrenti o alzano i bambini
                le flebili ocarine che salutano
                il tuo viaggio e i lievi echi si sfaldano
                giù dal ponte sul fiume
                se si sfolla la strada e ti conduce
                in un mondo soffiato entro una tremula
                bolla d'aria e di luce dove il sole
                saluta la tua grazia-hai ritrovato
                forse la strada che tentò un istante
                il piombo fuso a mezzanotte quando
                finì l'anno tranquillo senza spari.

                Ed ora vuoi sostare dove un filtro
                fa spogli i suoni
                e ne deriva i sorridenti ed acri
                fumi che ti compongono il domani;
                ora chiedi il paese dove gli onagri
                mordano quadri di zucchero dalle tue mani
                e i tozzi alberi spuntino germogli
                miracolosi al becco dei pavoni.

                (Oh, il tuo carnevale sarà più triste
                stanotte anche del mio, chiusa fra i doni
                tu per gli assenti: carri dalle tinte
                di rosolio, fantocci ed archibugi,
                palle di gomma, arnesi da cucina
                lillipuziani: l'urna li segnava
                a ognuno dei lontani amici l'ora
                che il gennaio si schiuse e nel silenzio
                si compì il sortilegio. È carnevale
                o il dicembre s'indugia ancora? Penso
                che se muovi la lancetta al piccolo
                orologio che rechi al polso, tutto
                arretrerà dentro un disfatto prisma
                babelico di forme e di colori... )

                E il natale verrà e il giorno dell'anno
                che sfolla le caserme e ti riporta
                gli amici spersi e questo carnevale
                pur esso tornerà che ora ci sfugge
                tra i muri che si fendono già. Chiedi
                tu di fermare il tempo sul paese
                che attorno si dilata? Le grandi ali
                screziate ti sfiorano, le logge
                sospingono all'aperto esili bambole
                bionde, vive, le pale dei mulini
                rotano fisse sulle pozze garrule.
                Chiedi di trattenere le campane
                d'argento sopra il borgo e il suono rauco
                delle colombe? Chiedi tu i mattini
                trepidi delle tue prode lontane?

                Come tutto si fa strano e difficile
                come tutto è impossibile, tu dici.
                La tua vita è quaggiù dove rimbombano
                le ruote dei carriaggi senza posa
                e nulla torna se non forse
                in questi disguidi del possibile.
                Ritorna là fra i morti balocchi
                ove è negato pur morire; e col tempo che ti batte
                al polso e all'esistenza ti ridona,
                tra le mura pesanti che non s'aprono
                al gorgo degli umani affaticato,
                torna alla via dove con te intristisco
                quella che mi additò un piombo raggelato
                alle mie, alle tue sere:
                torna alle primavere che non fioriscono.
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                  Scritta da: Silvana Stremiz

                  Canzone

                  Pesci nei placidi laghi
                  sfoggiano scie di colori,
                  cigni nell'aria invernale
                  hanno un candore perfetto
                  e incede il grande leone
                  per il suo bosco innocente;
                  leone, pesci e cigno
                  in scena e già sono andati
                  sull'onda irruente del Tempo.

                  Noi, finché i giorni d'ombra son maturi,
                  noi dobbiamo piangere e cantare
                  del dovere il sopruso consapevole,
                  il Diavolo nell'orgoglio,
                  la bontà portata attentamente
                  per espiazione o per nostra fortuna;
                  noi i nostri amori li dobbiamo perdere,
                  volgendo uno sguardo invidioso
                  a ogni animale e uccello che si muove.

                  Sospiri per folliecompiute e dette
                  attorcono i nostri angusti giorni,
                  ma devo benedire e celebrare
                  che tu, mio cigno, avendo
                  tutti i doni che Natura
                  impulsiva ha dato al cigno,
                  la maestà e l'orgoglio,
                  vi aggiungessi ieri notte
                  il tuo amore volontario.
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                    Scritta da: Silvana Stremiz

                    Passero solitario

                    D'in su la vetta della torre antica,
                    Passero solitario, alla campagna
                    Cantando vai finché non more il giorno;
                    Ed erra l'armonia per questa valle.
                    Primavera dintorno
                    Brilla nell'aria, e per li campi esulta,
                    Sì ch'a mirarla intenerisce il core.
                    Odi greggi belar, muggire armenti;
                    Gli altri augelli contenti, a gara insieme
                    Per lo libero ciel fan mille giri,
                    Pur festeggiando il lor tempo migliore:
                    Tu pensoso in disparte il tutto miri;
                    Non compagni, non voli,
                    Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi;
                    Canti, e così trapassi
                    Dell'anno e di tua vita il più bel fiore.
                    Oimè, quanto somiglia
                    Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
                    Della novella età dolce famiglia,
                    E te german di giovinezza, amore,
                    Sospiro acerbo dè provetti giorni,
                    Non curo, io non so come; anzi da loro
                    Quasi fuggo lontano;
                    Quasi romito, e strano
                    Al mio loco natio,
                    Passo del viver mio la primavera.
                    Questo giorno ch'omai cede alla sera,
                    Festeggiar si costuma al nostro borgo.
                    Odi per lo sereno un suon di squilla,
                    Odi spesso un tonar di ferree canne,
                    Che rimbomba lontan di villa in villa.
                    Tutta vestita a festa
                    La gioventù del loco
                    Lascia le case, e per le vie si spande;
                    E mira ed è mirata, e in cor s'allegra.
                    Io solitario in questa
                    Rimota parte alla campagna uscendo,
                    Ogni diletto e gioco
                    Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
                    Steso nell'aria aprica
                    Mi fere il Sol che tra lontani monti,
                    Dopo il giorno sereno,
                    Cadendo si dilegua, e par che dica
                    Che la beata gioventù vien meno.
                    Tu, solingo augellin, venuto a sera
                    Del viver che daranno a te le stelle,
                    Certo del tuo costume
                    Non ti dorrai; che di natura è frutto
                    Ogni vostra vaghezza.
                    A me, se di vecchiezza
                    La detestata soglia
                    Evitar non impetro,
                    Quando muti questi occhi all'altrui core,
                    E lor fia vòto il mondo, e il dì futuro
                    Del dì presente più noioso e tetro,
                    Che parrà di tal voglia?
                    Che di quest'anni miei? Che di me stesso?
                    Ahi pentirommi, e spesso,
                    Ma sconsolato, volgerommi indietro.
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