O Capitano! Mio Capitano! Il nostro viaggio tremendo è terminato, la nave ha superato ogni ostacolo, l'ambìto premio è conquistato, vicino è il porto, odo le campane, tutto il popolo esulta, occhi seguono l'invitto scafo, la nave arcigna e intrepida; ma o cuore! Cuore! Cuore! O gocce rosse di sangue, là sul ponte dove giace il Capitano, caduto, gelido, morto.
O Capitano! Mio Capitano! Risorgi, odi le campane; risorgo - per te è issata la bandiera - per te squillano le trombe, per te fiori e ghirlande ornate di nastri - per te le coste affollate, te invoca la massa ondeggiante, a te volgono i volti ansiosi; ecco Capitano! O amato padre! Questo braccio sotto il tuo capo! È solo un sogno che sul ponte sei caduto, gelido, morto.
Non risponde il mio Capitano, le sue labbra sono pallide e immobili, non sente il padre il mio braccio, non ha più energia né volontà, la nave è all'ancora sana e salva, il suo viaggio concluso, finito, la nave vittoriosa è tornata dal viaggio tremendo, la meta è raggiunta; esultate coste, suonate campane! Mentre io con funebre passo Percorro il ponte dove giace il mio Capitano, caduto, gelido, morto.
È scritta questa rima per colei i cui occhi lucenti ed espressivi come i gemelli di Leda, troveranno il suo stesso dolce nome annidato sulla pagina, celato ad ogni lettore. Osservate i versi attentamente! Vi è in essi un tesoro divino - un talismano - un amuleto - che si deve portare sul cuore. Osservate poi il metro - le parole - le sillabe! Nulla si tralasci, o sarà vana la fatica! E non v'è, nondimeno, nessun nodo gordiano che senza una spada non potreste disciogliere, se solo n'afferraste il soggetto. Tracciate sul foglio, scrutate da occhi in cui l'anima balena, s'ascondono, perdute, tre parole eloquenti, spesso dette e spesso udite da un poeta a un poeta - e d'un poeta è anche il nome. Le sue lettere, benché ingannino, ovviamente, come il Cavalier Pinto - Mendez Ferdinando - sono, invece, sinonimo del Vero. - Ora basta! Pur facendo del vostro meglio, non sciogliereste l'indovinello.
Veder cadere le foglie mi lacera dentro soprattutto le foglie dei viali soprattutto se sono ippocastani soprattutto se passano dei bimbi soprattutto se il cielo è sereno soprattutto se ho avuto, quel giorno, una buona notizia soprattutto se il cuore, quel giorno, non mi fa male soprattutto se credo, quel giorno, che quella che amo mi ami soprattutto se quel giorno mi sento d'accordo con gli uomini e con me stesso veder cadere le foglie mi lacera dentro soprattutto le foglie dei viali dei viali d'ippocastani.
Viviamo in tempi infami dove il matrimonio delle anime deve suggellare l'unione dei cuori; in quest'ora di orribili tempeste non è troppo aver coraggio in due per vivere sotto tali vincitori.
Di fronte a quanto si osa dovremo innalzarci, sopra ogni cosa, coppia rapita nell'estasi austera del giusto, e proclamare con un gesto augusto il nostro amore fiero, come una sfida.
Ma che bisogno c'è di dirtelo. Tu la bontà, tu il sorriso, non sei tu anche il consiglio, il buon consiglio leale e fiero, bambina ridente dal pensiero grave a cui tutto il mio cuore dice: Grazie!
L'uomo dice alla donna t'amo e come: come se stringessi tra le palme il mio cuore, simile a scheggia di vetro che m'insanguina i diti quando lo spezzo follemente.
L'uomo dice alla donna t'amo e come: con la profondità dei chilometri con l'immensità dei chilometri cento per cento mille per cento cento volte l'infinitamente cento.
La donna dice all'uomo ho guardato
con le mie labbra con la mia testa col mio cuore con amore con terrore, curvandomi sulle tue labbra sul tuo cuore sulla tua testa. E quello che dico adesso l'ho imparato da te come un mormorio nelle tenebre e oggi so che la terra come una madre dal viso di sole allatta la sua creatura più bella. Ma che fare? I miei capelli sono impigliati ai diti di ciò che muore non posso strapparne la testa devi partire guardando gli occhi del nuovo nato devi abbandonarmi.
La donna ha taciuto si sono baciati un libro è caduto sul pavimento una finestra si è chiusa.
Alla fine il segreto viene fuori, come deve succedere ogni volta, è matura la deliziosa storia da raccontare all'amico del cuore; davanti al tè fumante e nella piazza la lingua ottiene quello che voleva; le acque chete corrono profonde mio caro, non c'è fumo senza fuoco.
Dietro il morto in fondo al serbatoio, dietro il fantasma sul prato da golf, dietro la dama che ama il ballo e dietro il signore che beve come un matto, sotto l'aspetto affaticato, l'attacco di emicrania e il sospiro c'è sempre un'altra storia, c'è più di quello che si mostra all'occhio.
Per la voce argentina che d'un tratto canta lassù dal muro del convento, per l'odore che viene dai sanbuchi, per le stampe di caccia nell'ingresso, per le gare di croquet in estate, la tosse, il bacio, la stretta di mano, c'è sempre un segreto malizioso, un motivo privato in tutto questo.
Ei fu. Siccome immobile, dato il mortal sospiro, stette la spoglia immemore orba di tanto spiro, così percossa, attonita la terra al nunzio sta, muta pensando all'ultima ora dell'uom fatale; né sa quando una simile orma di piè mortale la sua cruenta polvere a calpestar verrà. Lui folgorante in solio vide il mio genio e tacque; quando, con vece assidua, cadde, risorse e giacque, di mille voci al sònito mista la sua non ha: vergin di servo encomio e di codardo oltraggio, sorge or commosso al sùbito sparir di tanto raggio; e scioglie all'urna un cantico che forse non morrà. Dall'Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno, di quel securo il fulmine tenea dietro al baleno; scoppiò da Scilla al Tanai, dall'uno all'altro mar. Fu vera gloria? Ai posteri l'ardua sentenza: nui chiniam la fronte al Massimo Fattor, che volle in lui del creator suo spirito più vasta orma stampar. La procellosa e trepida gioia d'un gran disegno, l'ansia d'un cor che indocile serve, pensando al regno; e il giunge, e tiene un premio ch'era follia sperar; tutto ei provò: la gloria maggior dopo il periglio, la fuga e la vittoria, la reggia e il tristo esiglio; due volte nella polvere, due volte sull'altar. Ei si nomò: due secoli, l'un contro l'altro armato, sommessi a lui si volsero, come aspettando il fato; ei fè silenzio, ed arbitro s'assise in mezzo a lor. E sparve, e i dì nell'ozio chiuse in sì breve sponda, segno d'immensa invidia e di pietà profonda, d'inestinguibil odio e d'indomato amor. Come sul capo al naufrago l'onda s'avvolve e pesa, l'onda su cui del misero, alta pur dianzi e tesa, scorrea la vista a scernere prode remote invan; tal su quell'alma il cumulo delle memorie scese. Oh quante volte ai posteri narrar se stesso imprese, e sull'eterne pagine cadde la stanca man! Oh quante volte, al tacito morir d'un giorno inerte, chinati i rai fulminei, le braccia al sen conserte, stette, e dei dì che furono l'assalse il sovvenir! E ripensò le mobili tende, e i percossi valli, e il lampo dè manipoli, e l'onda dei cavalli, e il concitato imperio e il celere ubbidir. Ahi! Forse a tanto strazio cadde lo spirto anelo, e disperò; ma valida venne una man dal cielo, e in più spirabil aere pietosa il trasportò; e l'avviò, pei floridi sentier della speranza, ai campi eterni, al premio che i desideri avanza, dov'è silenzio e tenebre la gloria che passò. Bella Immortal! Benefica Fede ai trionfi avvezza! Scrivi ancor questo, allegrati; ché più superba altezza al disonor del Gòlgota giammai non si chinò. Tu dalle stanche ceneri sperdi ogni ria parola: il Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola, sulla deserta coltrice accanto a lui posò.
Qual masso che dal vertice Di lunga erta montana, Abbandonato all'impeto Di rumorosa frana, Per lo scheggiato calle Precipitando a valle, Batte sul fondo e sta; Là dove cadde, immobile Giace in sua lenta mole; Né, per mutar di secoli, Fia che riveda il sole Della sua cima antica, Se una virtude amica In alto nol trarrà: Tal si giaceva il misero Figliol del fallo primo, Dal dì che un'ineffabile Ira promessa all'imo D'ogni malor gravollo, Donde il superbo collo Più non potea levar. Qual mai tra i nati all'odio Quale era mai persona Che al Santo inaccessibile Potesse dir: perdona? Far novo patto eterno? Al vincitore inferno La preda sua strappar? Ecco ci è nato un Pargolo, Ci fu largito un Figlio: Le avverse forze tremano Al mover del suo ciglio: All'uom la mano Ei porge, Che si ravviva, e sorge Oltre l'antico onor. Dalle magioni eteree Sgorga una fonte, e scende E nel borron dè triboli Vivida si distende: Stillano mele i tronchi; Dove copriano i bronchi, Ivi germoglia il fior. O Figlio, o Tu cui genera L'Eterno, eterno seco; Qual ti può dir dè secoli: Tu cominciasti meco? Tu sei: del vasto empiro Non ti comprende il giro: La tua parola il fè. E Tu degnasti assumere Questa creata argilla? Qual merto suo, qual grazia A tanto onor sortilla? Se in suo consiglio ascoso Vince il perdon, pietoso Immensamente Egli è. Oggi Egli è nato: ad Efrata, Vaticinato ostello, Ascese un'alma Vergine, La gloria d'Israello, Grave di tal portato: Da cui promise è nato, Donde era atteso uscì. La mira Madre in poveri. Panni il Figliol compose, E nell'umil presepio Soavemente il pose; E l'adorò: beata! Innanzi al Dio prostrata Che il puro sen le aprì. L'Angel del cielo, agli uomini Nunzio di tanta sorte, Non dè potenti volgesi Alle vegliate porte; Ma tra i pastor devoti, Al duro mondo ignoti, Subito in luce appar. E intorno a lui per l'ampia Notte calati a stuolo, Mille celesti strinsero Il fiammeggiante volo; E accesi in dolce zelo, Come si canta in cielo, A Dio gloria cantar. L'allegro inno seguirono, Tornando al firmamento: Tra le varcate nuvole Allontanossi, e lento Il suon sacrato ascese, Fin che più nulla intese La compagnia fedel. Senza indugiar, cercarono L'albergo poveretto Què fortunati, e videro, Siccome a lor fu detto, Videro in panni avvolto, In un presepe accolto, Vagire il Re del Ciel. Dormi, o Fanciul; non piangere; Dormi, o Fanciul celeste: Sovra il tuo capo stridere Non osin le tempeste, Use sull'empia terra, Come cavalli in guerra, Correr davanti a Te. Dormi, o Celeste: i popoli Chi nato sia non sanno; Ma il dì verrà che nobile Retaggio tuo saranno; Che in quell'umil riposo, Che nella polve ascoso, Conosceranno il Re.
"Mater dolcissima, ora scendono le nebbie, il Naviglio urta confusamente sulle dighe, gli alberi si gonfiano d'acqua, bruciano di neve; non sono triste nel Nord: non sono in pace con me, ma non aspetto perdono da nessuno, molti mi devono lacrime da uomo a uomo. So che non stai bene, che vivi come tutte le madri dei poeti, povera e giusta nella misura d'amore per i figli lontani. Oggi sono io che ti scrivo. " - Finalmente, dirai, due parole di quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto e alcuni versi in tasca. Povero, così pronto di cuore lo uccideranno un giorno in qualche luogo. - "Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo di treni lenti che portavano mandorle e arance, alla foce dell'Imera, il fiume pieno di gazze, di sale, d'eucalyptus. Ma ora ti ringrazio, questo voglio, dell'ironia che hai messo sul mio labbro, mite come la tua. Quel sorriso m'ha salvato da pianti e da dolori. E non importa se ora ho qualche lacrima per te, per tutti quelli che come te aspettano, e non sanno che cosa. Ah, gentile morte, non toccare l'orologio in cucina che batte sopra il muro tutta la mia infanzia è passata sullo smalto del suo quadrante, su quei fiori dipinti: non toccare le mani, il cuore dei vecchi. Ma forse qualcuno risponde? O morte di pietà, morte di pudore. Addio, cara, addio, mia dolcissima mater."