Le migliori poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz

Margaret Fuller Slack

Sarei stata grande come George Eliot
ma il destino non volle.
Guardate il ritratto che mi fece Penniwit,
col mento appoggiato alla mano e gli occhi fondi —
e grigi e indaganti lontano.
Ma c'era il vecchio, l'eterno problema:
celibato, matrimonio o impudicizia?
Venne il ricco esercente John Slack,
con la promessa che avrei potuto scrivere a mio agio,
e io lo sposai, misi al mondo otto figli,
e non ebbi più tempo per scrivere.
Per me, comunque, era tutto finito
quando l'ago mi trafisse la mano
mentre lavavo i panni del bambino,
e morii di tetano, un'ironica morte.
Anime ambiziose, ascoltate,
il sesso è la rovina della vita!
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    Dove la luce

    Come allodola ondosa
    Nel vento lieto sui giovani prati,
    Le braccia ti sanno leggera, vieni.
    Ci scorderemo di quaggiù,
    E del mare e del cielo,
    E del mio sangue rapido alla guerra,
    Di passi d'ombre memori
    Entro rossori di mattine nuove.
    Dove non muove foglia più la luce,
    Sogni e crucci passati ad altre rive,
    Dov'è posata sera,
    Vieni ti porterò
    Alle colline d'oro.
    L'ora costante, liberi d'età,
    Nel suo perduto nimbo
    Sarà nostro lenzuolo.
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      La notte

      Una cotonata a quadretti blu copre il tavolo
      e sopra, senza menzogne, sorridenti, arditi
      stanno i nostri libri.
      Sono un prigioniero, madre mia,
      che ritorna al paese
      da una fortezza nemica.
      È l'una di notte
      la lampada è ancora accesa.
      Al mio fianco è coricata mia moglie
      mia moglie
      incinta di cinque mesi.
      Quando la mia carne tocca la sua
      quando le poso la mano sul ventre
      il bimbo si muove un poco.
      Sul ramo la foglia
      nell'acqua il pesce
      nella matrice il piccolo dell'uomo. Mio piccolo.
      La camiciola di lana rosa
      per il mio bambino
      l'ha sferruzata sua madre
      è grande come la mia mano
      con le maniche appena così.
      Mio piccolo.
      Se sarà femmina
      voglio che sia sua madre dalla testa ai piedi,
      s'è maschio, che sia della mia statura.
      S'è femmina, che abbia gli occhi verde dorato
      s'è maschio, azzurri.
      Mio piccolo.
      Non voglio che a vent'anni t'ammazzino
      se sei maschio, al fronte
      se sei femmina, dentro qualche rifugio, di notte.
      Mio piccolo.
      Femmina o maschio
      a qualsiasi età
      non voglio che tu conosca il carcere
      per essere stato dalla parte del giusto
      del bello, della pace.
      Ma so bene
      figlia mia
      o figlio mio
      che se il sole tarderà molto a sorgere
      dalle acque
      dovrai combattere e anche...
      Insomma oggi, da noi, è un ben duro mestiere
      essere padre.

      È l'una di notte.
      La lampada non l'abbiamo ancora spenta.
      Tra mezz'ora forse, forse verso il mattino
      la mia casa conoscerà
      ancora un'altra irruzione della polizia
      e mi porteranno via, prenderò con me qualche libro.
      I questurini della politica
      mi prenderanno in mezzo
      e io mi volterò indietro a guardare:
      mia moglie sarà sulla soglia
      davanti alla porta
      il vento del mattino
      gonfierà la sua gonna
      e nel suo ventre pesante
      il bambino si muoverà un poco.
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        Mio - per diritto della bianca elezione!

        Mio - per diritto della bianca elezione!
        Mio - per sigillo regale!
        Mio - per segno della bianca prigione
        che sbarre non possono celare!
        Mio - qui - nella visione e nel divieto!
        Mio - per l'abrograzione della tomba
        Sottoscritta-confermata -
        delirante contratto!
        Mio - mantre gli anni fuggono!
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Il giudice Somers

          Come accade, ditemi,
          che io, il più erudito degli avvocati,
          che conoscevo Blackstone e Coke
          quasi a memoria, che feci il più gran discorso
          che il tribunale avesse mai udito, e scrissi
          un esposto che meritò l'elogio del pretore Breese —
          come accade, ditemi,
          che io giaccio qui, dimenticato, ignoto,
          mentre Chase Henry, l'ubriacone della città,
          ha un cippo di marmo, sormontato da un'urna,
          su cui la Natura in un capriccio d'ironia
          ha seminato un cespo in fiore?
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            Miei occhi e il cuore son venuti a patti (Sonetto 47)

            I miei occhi e il cuore son venuti a patti
            ed or ciascuno all'altro il suo ben riversa:
            se i miei occhi son desiosi di uno sguardo,
            o il cuore innamorato si distrugge di sospiri,
            gli occhi allor festeggian l'effigie del mio amore
            e al fantastico banchetto invitano il mio cuore;
            un'altra volta gli occhi son ospiti del cuore
            che a lor partecipa il suo pensier d'amore.
            Così, per la tua immagine o per il mio amore,
            anche se lontano sei sempre in me presente;
            perché non puoi andare oltre i miei pensieri
            e sempre io son con loro ed essi son con te;
            o se essi dormono, in me la tua visione
            desta il cuore mio a delizia sua e degli occhi.
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              Il mio sogno familiare

              Spesso mi viene in sogno bizzarra e penetrante
              Una donna mai vista, che amo e che mi ama,
              Che con lo stesso nome si chiama e non si chiama
              Diversa e uguale m'ama e sempre è confortante

              È per me confortante, e il mio cuore parlante
              Per lei soltanto, ahimé! Non è più cosa grama
              Per lei soltanto, in fronte del sudore la trama
              Lei soltanto rinfresca, con le lacrime piante.
              È' bruna, bionda o rossa? Non mi è dato sapere.
              Il suo nome? Ricordo che è dolce e dà piacere.
              Come nomi diletti che la vita ha esiliato.

              All'occhio delle statue è simile il suo sguardo,
              Ed ha la voce calma, lontana, grave, il fiato
              Delle voci più care spente senza riguardo.
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                Scritta da: Silvana Stremiz

                Frammento: Anime gemelle

                Sono come uno spirito
                che nell'intimo del suo cuore ha dimorato,
                e le sue sensazioni ha percepito, e i suoi pensieri
                ha avuto, e conosciuto il più profondo impulso
                del suo animo: quel flusso silenzioso che al sangue solo
                è noto, quando tutte le emozioni
                in moltitudine descrivono la quiete di mari estivi.
                Io ho liberato le melodie preziose
                del suo profondo cuore: i battenti
                ho spalancato, e in esse mi sono rimescolato.
                Proprio come un'aquila nella pioggia del tuono,
                quando veste di lampi le ali.
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                  Scritta da: Silvana Stremiz

                  Le ricordanze

                  Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea
                  Tornare ancor per uso a contemplarvi
                  Sul paterno giardino scintillanti,
                  E ragionar con voi dalle finestre
                  Di questo albergo ove abitai fanciullo,
                  E delle gioie mie vidi la fine.
                  Quante immagini un tempo, e quante fole
                  Creommi nel pensier l'aspetto vostro
                  E delle luci a voi compagne! Allora
                  Che, tacito, seduto in verde zolla,
                  Delle sere io solea passar gran parte
                  Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
                  Della rana rimota alla campagna!
                  E la lucciola errava appo le siepi
                  E in su l'aiuole, susurrando al vento
                  I viali odorati, ed i cipressi
                  Là nella selva; e sotto al patrio tetto
                  Sonavan voci alterne, e le tranquille
                  Opre dè servi. E che pensieri immensi,
                  Che dolci sogni mi spirò la vista
                  Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
                  Che di qua scopro, e che varcare un giorno
                  Io mi pensava, arcani mondi, arcana
                  Felicità fingendo al viver mio!
                  Ignaro del mio fato, e quante volte
                  Questa mia vita dolorosa e nuda
                  Volentier con la morte avrei cangiato.
                  Né mi diceva il cor che l'età verde
                  Sarei dannato a consumare in questo
                  Natio borgo selvaggio, intra una gente
                  Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
                  Argomento di riso e di trastullo,
                  Son dottrina e saper; che m'odia e fugge,
                  Per invidia non già, che non mi tiene
                  Maggior di sé, ma perché tale estima
                  Ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
                  A persona giammai non ne fo segno.
                  Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
                  Senz'amor, senza vita; ed aspro a forza
                  Tra lo stuol dè malevoli divengo:
                  Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
                  E sprezzator degli uomini mi rendo,
                  Per la greggia ch'ho appresso: e intanto vola
                  Il caro tempo giovanil; più caro
                  Che la fama e l'allor, più che la pura
                  Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
                  Senza un diletto, inutilmente, in questo
                  Soggiorno disumano, intra gli affanni,
                  O dell'arida vita unico fiore.
                  Viene il vento recando il suon dell'ora
                  Dalla torre del borgo. Era conforto
                  Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
                  Quando fanciullo, nella buia stanza,
                  Per assidui terrori io vigilava,
                  Sospirando il mattin. Qui non è cosa
                  Ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro
                  Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
                  Dolce per sé; ma con dolor sottentra
                  Il pensier del presente, un van desio
                  Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
                  Quella loggia colà, volta agli estremi
                  Raggi del dì; queste dipinte mura,
                  Quei figurati armenti, e il Sol che nasce
                  Su romita campagna, agli ozi miei
                  Porser mille diletti allor che al fianco
                  M'era, parlando, il mio possente errore
                  Sempre, ov'io fossi. In queste sale antiche,
                  Al chiaror delle nevi, intorno a queste
                  Ampie finestre sibilando il vento,
                  Rimbombaro i sollazzi e le festose
                  Mie voci al tempo che l'acerbo, indegno
                  Mistero delle cose a noi si mostra
                  Pien di dolcezza; indelibata, intera
                  Il garzoncel, come inesperto amante,
                  La sua vita ingannevole vagheggia,
                  E celeste beltà fingendo ammira.
                  O speranze, speranze; ameni inganni
                  Della mia prima età! Sempre, parlando,
                  Ritorno a voi; che per andar di tempo,
                  Per variar d'affetti e di pensieri,
                  Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
                  Son la gloria e l'onor; diletti e beni
                  Mero desio; non ha la vita un frutto,
                  Inutile miseria. E sebben vòti
                  Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
                  Il mio stato mortal, poco mi toglie
                  La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
                  A voi ripenso, o mie speranze antiche,
                  Ed a quel caro immaginar mio primo;
                  Indi riguardo il viver mio sì vile
                  E sì dolente, e che la morte è quello
                  Che di cotanta speme oggi m'avanza;
                  Sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto
                  Consolarmi non so del mio destino.
                  E quando pur questa invocata morte
                  Sarammi allato, e sarà giunto il fine
                  Della sventura mia; quando la terra
                  Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
                  Fuggirà l'avvenir; di voi per certo
                  Risovverrammi; e quell'imago ancora
                  Sospirar mi farà, farammi acerbo
                  L'esser vissuto indarno, e la dolcezza
                  Del dì fatal tempererà d'affanno.
                  E già nel primo giovanil tumulto
                  Di contenti, d'angosce e di desio,
                  Morte chiamai più volte, e lungamente
                  Mi sedetti colà su la fontana
                  Pensoso di cessar dentro quell'acque
                  La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
                  Malor, condotto della vita in forse,
                  Piansi la bella giovanezza, e il fiore
                  Dè miei poveri dì, che sì per tempo
                  Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso
                  Sul conscio letto, dolorosamente
                  Alla fioca lucerna poetando,
                  Lamentai cò silenzi e con la notte
                  Il fuggitivo spirto, ed a me stesso
                  In sul languir cantai funereo canto.
                  Chi rimembrar vi può senza sospiri,
                  O primo entrar di giovinezza, o giorni
                  Vezzosi, inenarrabili, allor quando
                  Al rapito mortal primieramente
                  Sorridon le donzelle; a gara intorno
                  Ogni cosa sorride; invidia tace,
                  Non desta ancora ovver benigna; e quasi
                  (Inusitata maraviglia! ) il mondo
                  La destra soccorrevole gli porge,
                  Scusa gli errori suoi, festeggia il novo
                  Suo venir nella vita, ed inchinando
                  Mostra che per signor l'accolga e chiami?
                  Fugaci giorni! A somigliar d'un lampo
                  Son dileguati. E qual mortale ignaro
                  Di sventura esser può, se a lui già scorsa
                  Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
                  Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?
                  O Nerina! E di te forse non odo
                  Questi luoghi parlar? Caduta forse
                  Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
                  Che qui sola di te la ricordanza
                  Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
                  Questa Terra natal: quella finestra,
                  Ond'eri usata favellarmi, ed onde
                  Mesto riluce delle stelle il raggio,
                  È deserta. Ove sei, che più non odo
                  La tua voce sonar, siccome un giorno,
                  Quando soleva ogni lontano accento
                  Del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto
                  Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
                  Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
                  Il passar per la terra oggi è sortito,
                  E l'abitar questi odorati colli.
                  Ma rapida passasti; e come un sogno
                  Fu la tua vita. Iva danzando; in fronte
                  La gioia ti splendea, splendea negli occhi
                  Quel confidente immaginar, quel lume
                  Di gioventù, quando spegneali il fato,
                  E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
                  L'antico amor. Se a feste anco talvolta,
                  Se a radunanze io movo, infra me stesso
                  Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
                  Tu non ti acconci più, tu più non movi.
                  Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
                  Van gli amanti recando alle fanciulle,
                  Dico: Nerina mia, per te non torna
                  Primavera giammai, non torna amore.
                  Ogni giorno sereno, ogni fiorita
                  Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento,
                  Dico: Nerina or più non gode; i campi,
                  L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
                  Sospiro mio: passasti: e fia compagna
                  D'ogni mio vago immaginar, di tutti
                  I miei teneri sensi, i tristi e cari
                  Moti del cor, la rimembranza acerba.
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