Le migliori poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz

Senza di te tornavo, come ebbro...

Senza di te tornavo, come ebbro,
non più capace d'esser solo, a sera
quando le stanche nuvole dileguano
nel buio incerto.
Mille volte son stato così solo
dacché son vivo, e mille uguali sere
m'hanno oscurato agli occhi l'erba, i monti
le campagne, le nuvole.
Solo nel giorno, e poi dentro il silenzio
della fatale sera. Ed ora, ebbro,
torno senza di te, e al mio fianco
c'è solo l'ombra.

E mi sarai lontano mille volte,
e poi, per sempre. Io non so frenare
quest'angoscia che monta dentro al seno;
essere solo.
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    A N. V. N.

    C'è nel contatto umano un limite fatale,
    non lo varca né amore né passione,
    pur se in muto spavento si fondono le labbra
    e il cuore si dilacera d'amore.

    Perfino l'amicizia vi è impotente,
    e anni d'alta, fiammeggiante gioia,
    quando libera è l'anima ed estranea
    allo struggersi lento del piacere.

    Chi cerca di raggiungerlo è folle,
    se lo tocca soffre una sorda pena...
    ora hai compreso perché il mio cuore
    non batte sotto la tua mano.
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      Benvenuta, donna mia, benvenuta!

      Benvenuta, donna mia, benvenuta!

      Certo sei stanca
      come potrò lavarti i piedi
      non ho acqua di rose né catino d'argento

      certo avrai sete
      non ho una bevanda fresca da offrirti

      certo avrai fame
      e io non posso apparecchiare
      una tavola con lino candido

      la mia stanza è povera e prigioniera
      come il nostro paese.

      Benvenuta, donna mia, benvenuta!

      Hai posato il piede nella mia cella
      e il cemento è divenuto prato

      hai riso
      e rose hanno fiorito le sbarre

      hai pianto
      e perle son rotolate sulle mie palme

      ricca come il mio cuore
      cara come la libertà
      è adesso questa prigione.

      Benvenuta, donna mia, benvenuta!
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        La fonte di Castelvecchio

        O voi che, mentre i culmini Apuani
        il sole cinge d'un vapor vermiglio,
        e fa di contro splendere i lontani
        vetri di Tiglio;
        venite a questa fonte nuova, sulle
        teste la brocca, netta come specchio,
        equilibrando tremula, fanciulle
        di Castelvecchio;
        e nella strada che già s'ombra, il busso
        picchia dè duri zoccoli, e la gonna
        stiocca passando, e suona eterno il flusso
        della Corsonna:
        fanciulle, io sono l'acqua della Borra,
        dove brusivo con un lieve rombo
        sotto i castagni; ora convien che corra
        chiusa nel piombo.
        A voi, prigione dalle verdi alture,
        pura di vena, vergine di fango,
        scendo; a voi sgorgo facile: ma, pure
        vergini, piango:
        non come piange nel salir grondando
        l'acqua tra l'aspro cigolìo del pozzo:
        io solo mando tra il gorgoglio blando
        qualche singhiozzo.
        Oh! la mia vita di solinga polla
        nel taciturno colle delle capre!
        Udir soltanto foglia che si crolla,
        cardo che s'apre,
        vespa che ronza, e queruli richiami
        del forasiepe! Il mio cantar sommesso
        era tra i poggi ornati di ciclami
        sempre lo stesso;
        sempre sì dolce! E nelle estive notti,
        più, se l'eterno mio lamento solo
        s'accompagnava ai gemiti interrotti
        dell'assiuolo,
        più dolce, più! Ma date a me, ragazze
        di Castelvecchio, date a me le nuove
        del mondo bello: che si fa? Le guazze
        cadono, o piove?
        E per le selve ancora si tracoglie,
        o fate appietto? Ed il metato fuma,
        o già picchiate? Aspettano le foglie
        molli la bruma,
        o le crinelle empite nè frondai
        in cui dall'Alpe è scesa qualche breve
        frasca di faggio? Od è già l'Alpe ormai
        bianca di neve?
        Più nulla io vedo, io che vedea non molto
        quando chiamavo, con il mio rumore
        fresco, il fanciullo che cogliea nel folto
        macole e more.
        Col nepotino a me venìa la bianca
        vecchia, la Matta; e tuttavia la vedo
        andare come vaccherella stanca
        va col suo redo.
        Nella deserta chiesa che rovina,
        vive la bianca Matta dei Beghelli
        più? Desta lei la sveglia mattutina
        più, dè fringuelli?
        Essa veniva al garrulo mio rivo
        sempre garrendo dentro sé, la vecchia:
        e io, garrendo ancora più, l'empivo
        sempre la secchia.
        Ah! che credevo d'essere sua cosa!
        Con lei parlavo, ella parlava meco,
        come una voce nella valle ombrosa
        parla con l'eco.
        Però singhiozzo ripensando a questa
        che lasciai nella chiesa solitaria,
        che avea due cose al mondo, e gliene resta
        l'una, ch'è l'aria.
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          A Elena (1835)

          Elena, la tua bellezza è per me
          come quei navigli nicei d'un tempo
          che, mollemente, sull'odorato mare
          riportavano il pellegrino stanco d'errare
          alla sua sponda natia.

          Da tempo avezzo a disperati mari,
          la tua chioma di giacinto, il tuo classico volto,
          la tua grazia di Naiade riportano me anche in patria,
          a quella gloria che fu la Grecia,
          a quella maestà che fu Roma.

          Là, nel rilucente vano della finestra,
          come statua eretta io ti vedo,
          con in mano la tua lampada d'agata!
          Ah, Psyche, qui venuta dalle regioni
          che son Terra Santa.
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            Scritta da: Silvana Stremiz
            Non sono né un artista né un poeta.
            Ho trascorso i miei giorni scrivendo e dipingendo,
            ma non sono in sintonia
            con i miei giorni e le mie notti.
            Sono una nube,
            una nube che si confonde con gli oggetti,
            ma ad essi mai si unisce.
            Sono una nube,
            e nella nube è la mia solitudine,
            la mia fame e la mia sete.
            La calamità è che la nube, la mia realtà,
            anela di udire qualcunaltro che dica:
            <<Non sei solo in questo mondo
            ma siamo due, insieme,
            e io so chi sei tu>>.
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              How do I love thee?

              How do I love thee? Let me count the ways.
              I love thee to the depth and breadth and height
              my soul can reach, when feeling out of sight
              for the ends of Being and Ideal Grace.
              I love thee fo the levei of everyday's
              most quiet need, by sun and candlelight.
              I love thee freely, as men strive for Right;
              I love thee purely, as they turn from Praise;
              I love thee with the passion put fo use
              in my old griefs, and with my childhood's faith;
              I love thee with a love I seemed fo lose
              with my lost saints, - I love thee with the breath,
              smiles, tears, of all my life! - and, if God, choose,
              I shall but love thee better affer death.
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                Scritta da: Silvana Stremiz

                A una in Paradiso

                Eri per me quel tutto, amore,
                per cui si struggeva la mia anima -
                una verde isola nel mare, amore,
                una fonte limpida, un'ara
                di magici frutti e fiori adornata:
                e tutti erano miei quei fiori.

                Ah, sogno splendido e breve!
                Stellata speranza, appena apparsa
                e subito sopraffatta!
                Una voce del Futuro mi grida
                "Avanti, avanti! " - ma è sul Passato
                (oscuro gugite! ) che la mia anima aleggia
                tacita, immobile, sgomenta!
                Perché mai più, oh, mai più per me
                risplenderà quella luce di Vita!
                Mai più - mai più - mai più -
                (è quel che il mare ripete
                alle sabbie del lido) - mai più
                rifiorirà un albero percosso dal fulmine,
                nè potrà più elevarsi un'aquila ferita.

                Vivo, trasognato, giorni estatici,
                e tutte le mie notturne visioni
                mi riportano ai tuoi grigi occhi di luce,
                a là dove tu stessa ti porti e risplendi,
                oh, in quali eteree danze,
                lungo rivi che scorrono perenni.
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