Le migliori poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz

Non chiederci la parola

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    Supplica a mia madre

    È difficile dire con parole di figlio
    ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
    Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
    ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore.
    Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere:
    è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
    Sei insostituibile. Per questo è dannata
    alla solitudine la vita che mi hai data.
    E non voglio esser solo. Ho un'infinita fame
    d'amore, dell'amore di corpi senza anima.
    Perché l'anima è in te, sei tu, ma tu
    sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
    ho passato l'infanzia schiavo di questo senso
    alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
    Era l'unico modo per sentire la vita,
    l'unica tinta, l'unica forma: ora è finita.
    Sopravviviamo: ed è la confusione
    di una vita rinata fuori dalla ragione.
    Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
    Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile….
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      Nelle mie braccia tutta nuda

      Nelle mie braccia tutta nuda
      la città la sera e tu
      il tuo chiarore l'odore dei tuoi capelli
      si riflettono sul mio viso.

      Di chi è questo cuore che batte
      più forte delle voci e dell'ansito?
      È tuo è della città è della notte
      o forse è il mio cuore che batte forte?

      Dove finisce la notte
      dove comincia la città?
      Dove finisce la città dove cominci tu?
      Dove comincio e finisco io stesso?
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        Il Cavallino

        O bel clivo fiorito Cavallino
        ch'io varcai cò leggiadri eguali a schiera
        al mio bel tempo; chi sa dir se l'era
        d'olmo la tua parlante ombra o di pino?
        Era busso ricciuto o biancospino,
        da cui dorata trasparia la sera?
        C'è un campanile tra una selva nera,
        che canta, bianco, l'inno mattutino?
        Non so: ché quando a te s'appressa il vano
        desìo, per entro il cielo fuggitivo
        te vedo incerta vision fluire.
        So ch'or sembri il paese allor lontano
        lontano, che dal tuo fiorito clivo
        io rimirai nel limpido avvenire.
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          12 Settembre 1966

          Sei comparsa al portone
          in un vestito rosso
          per dirmi che sei fuoco
          che consuma e riaccende.

          Una spina mi ha punto
          delle tue rose rosse
          perché succhiassi al dito,
          come già tuo, il mio sangue.

          Percorremmo la strada
          che lacera il rigoglio
          della selvaggia altura,
          ma già da molto tempo
          sapevo che soffrendo con temeraria fede,
          l'età per vincere non conta.

          Era di lunedì,
          per stringerci le mani
          e parlare felici
          non si trovò rifugio
          che in un giardino triste
          della città convulsa.
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            Passato

            I ricordi, queste ombre troppo lunghe
            del nostro breve corpo,
            questo strascico di morte
            che noi lasciamo vivendo
            i lugubri e durevoli ricordi,
            eccoli già apparire:
            melanconici e muti
            fantasmi agitati da un vento funebre.
            E tu non sei più che un ricordo.
            Sei trapassata nella mia memoria.
            Ora sì, posso dire che
            che m'appartieni
            e qualche cosa fra di noi è accaduto
            irrevocabilmente.
            Tutto finì, così rapito!
            Precipitoso e lieve
            il tempo ci raggiunse.
            Di fuggevoli istanti ordì una storia
            ben chiusa e triste.
            Dovevamo saperlo che l'amore
            brucia la vita e fa volare il tempo.
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              Ballata delle madri

              Mi domando che madri avete avuto.
              Se ora vi vedessero al lavoro
              in un mondo a loro sconosciuto,
              presi in un giro mai compiuto
              d'esperienze così diverse dalle loro,
              che sguardo avrebbero negli occhi?
              Se fossero lì, mentre voi scrivete
              il vostro pezzo, conformisti e barocchi,
              o lo passate a redattori rotti
              a ogni compromesso, capirebbero chi siete?

              Madri vili, con nel viso il timore
              antico, quello che come un male
              deforma i lineamenti in un biancore
              che li annebbia, li allontana dal cuore,
              li chiude nel vecchio rifiuto morale.
              Madri vili, poverine, preoccupate
              che i figli conoscano la viltà
              per chiedere un posto, per essere pratici,
              per non offendere anime privilegiate,
              per difendersi da ogni pietà.

              Madri mediocri, che hanno imparato
              con umiltà di bambine, di noi,
              un unico, nudo significato,
              con anime in cui il mondo è dannato
              a non dare né dolore né gioia.
              Madri mediocri, che non hanno avuto
              per voi mai una parola d'amore,
              se non d'un amore sordidamente muto
              di bestia, e in esso v'hanno cresciuto,
              impotenti ai reali richiami del cuore.

              Madri servili, abituate da secoli
              a chinare senza amore la testa,
              a trasmettere al loro feto
              l'antico, vergognoso segreto
              d'accontentarsi dei resti della festa.
              Madri servili, che vi hanno insegnato
              come il servo può essere felice
              odiando chi è, come lui, legato,
              come può essere, tradendo, beato,
              e sicuro, facendo ciò che non dice.

              Madri feroci, intente a difendere
              quel poco che, borghesi, possiedono,
              la normalità e lo stipendio,
              quasi con rabbia di chi si vendichi
              o sia stretto da un assurdo assedio.
              Madri feroci, che vi hanno detto:
              Sopravvivete! Pensate a voi!
              Non provate mai pietà o rispetto
              per nessuno, covate nel petto
              la vostra integrità di avvoltoi!

              Ecco, vili, mediocri, servi,
              feroci, le vostre povere madri!
              Che non hanno vergogna a sapervi
              – nel vostro odio – addirittura superbi,
              se non è questa che una valle di lacrime.
              È così che vi appartiene questo mondo:
              fatti fratelli nelle opposte passioni,
              o le patrie nemiche, dal rifiuto profondo
              a essere diversi: a rispondere
              del selvaggio dolore di esser uomini.
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                Scritta da: Silvana Stremiz

                Il Risorgimento

                Credei ch'al tutto fossero
                In me, sul fior degli anni,
                Mancati i dolci affanni
                Della mia prima età:
                I dolci affanni, i teneri
                Moti del cor profondo,
                Qualunque cosa al mondo
                Grato il sentir ci fa.

                Quante querele e lacrime
                Sparsi nel novo stato,
                Quando al mio cor gelato
                Prima il dolor mancò!
                Mancàr gli usati palpiti,
                L'amor mi venne meno,
                E irrigidito il seno
                Di sospirar cessò!

                Piansi spogliata, esanime
                Fatta per me la vita
                La terra inaridita,
                Chiusa in eterno gel;
                Deserto il dì; la tacita
                Notte più sola e bruna;
                Spenta per me la luna,
                Spente le stelle in ciel.

                Pur di quel pianto origine
                Era l'antico affetto:
                Nell'intimo del petto
                Ancor viveva il cor.
                Chiedea l'usate immagini
                La stanca fantasia;
                E la tristezza mia
                Era dolore ancor.

                Fra poco in me quell'ultimo
                Dolore anco fu spento,
                E di più far lamento
                Valor non mi restò.
                Giacqui: insensato, attonito,
                Non dimandai conforto:
                Quasi perduto e morto,
                Il cor s'abbandonò.

                Qual fui! Quanto dissimile
                Da quel che tanto ardore,
                Che sì beato errore
                Nutrii nell'alma un dì!
                La rondinella vigile,
                Alle finestre intorno
                Cantando al novo giorno,
                Il cor non mi ferì:

                Non all'autunno pallido
                In solitaria villa,
                La vespertina squilla,
                Il fuggitivo Sol.
                Invan brillare il vespero
                Vidi per muto calle,
                Invan sonò la valle
                Del flebile usignol.

                E voi, pupille tenere,
                Sguardi furtivi, erranti,
                Voi dè gentili amanti
                Primo, immortale amor,
                Ed alla mano offertami
                Candida ignuda mano,
                Foste voi pure invano
                Al duro mio sopor.

                D'ogni dolcezza vedovo,
                Tristo; ma non turbato,
                Ma placido il mio stato,
                Il volto era seren.
                Desiderato il termine
                Avrei del viver mio;
                Ma spento era il desio
                Nello spossato sen.

                Qual dell'età decrepita
                L'avanzo ignudo e vile,
                Io conducea l'aprile
                Degli anni miei così:
                Così quegl'ineffabili
                Giorni, o mio cor, traevi,
                Che sì fugaci e brevi
                Il cielo a noi sortì.

                Chi dalla grave, immemore
                Quiete or mi ridesta?
                Che virtù nova è questa,
                Questa che sento in me?
                Moti soavi, immagini,
                Palpiti, error beato,
                Per sempre a voi negato
                Questo mio cor non è?

                Siete pur voi quell'unica
                Luce dè giorni miei?
                Gli affetti ch'io perdei
                Nella novella età?
                Se al ciel, s'ai verdi margini,
                Ovunque il guardo mira,
                Tutto un dolor mi spira,
                Tutto un piacer mi dà.

                Meco ritorna a vivere
                La piaggia, il bosco, il monte;
                Parla al mio core il fonte,
                Meco favella il mar.
                Chi mi ridona il piangere
                Dopo cotanto obblio?
                E come al guardo mio
                Cangiato il mondo appar?

                Forse la speme, o povero
                Mio cor, ti volse un riso?
                Ahi della speme il viso
                Io non vedrò mai più.
                Proprii mi diede i palpiti,
                Natura, e i dolci inganni.
                Sopiro in me gli affanni
                L'ingenita virtù;

                Non l'annullàr: non vinsela
                Il fato e la sventura;
                Non con la vista impura
                L'infausta verità.
                Dalle mie vaghe immagini
                So ben ch'ella discorda:
                So che natura è sorda,
                Che miserar non sa.

                Che non del ben sollecita
                Fu, ma dell'esser solo:
                Purché ci serbi al duolo,
                Or d'altro a lei non cal.
                So che pietà fra gli uomini
                Il misero non trova;
                Che lui, fuggendo, a prova
                Schernisce ogni mortal.

                Che ignora il tristo secolo
                Gl'ingegni e le virtudi;
                Che manca ai degni studi
                L'ignuda gloria ancor.
                E voi, pupille tremule,
                Voi, raggio sovrumano,
                So che splendete invano,
                Che in voi non brilla amor.

                Nessuno ignoto ed intimo
                Affetto in voi non brilla:
                Non chiude una favilla
                Quel bianco petto in sé.
                Anzi d'altrui le tenere
                Cure suol porre in gioco;
                E d'un celeste foco
                Disprezzo è la mercè.

                Pur sento in me rivivere
                Gl'inganni aperti e noti;
                E, dè suoi proprii moti
                Si maraviglia il sen.
                Da te, mio cor, quest'ultimo
                Spirto, e l'ardor natio,
                Ogni conforto mio
                Solo da te mi vien.

                Mancano, il sento, all'anima
                Alta, gentile e pura,
                La sorte, la natura,
                Il mondo e la beltà.
                Ma se tu vivi, o misero,
                Se non concedi al fato,
                Non chiamerò spietato
                Chi lo spirar mi dà.
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                  Scritta da: Silvana Stremiz

                  Edge

                  The woman is perfected.
                  Her dead
                  Body wears the smile of accomplishment,
                  The illusion of a Greek necessity
                  Flows in the scrolls of her toga,
                  Her bare
                  Feet seem to be saying:
                  We have come so far, it is over.
                  Each dead child coiled, a white serpent,
                  One at each little
                  Pitcher of milk, now empty.
                  She has folded
                  Them back into her body as petals
                  Of a rose close when the garden
                  Stiffens and odors bleed
                  From the sweet, deep throats of the night flower.
                  The moon has nothing to be sad about,
                  Staring from her hood of bone.
                  She is used to this sort of thing.
                  Her blacks crackle and drag.
                  Orlo
                  -Sylvia Plath

                  La donna è a perfezione.
                  Il suo morto

                  Corpo ha il sorriso del compimento,
                  un'illusione di greca necessità

                  scorre lungo i drappeggi della sua toga,
                  i suoi nudi

                  piedi sembran dire:
                  abbiamo tanto camminato, è finita.

                  Si sono rannicchiati i morti infanti ciascuno
                  come un bianco serpente a una delle due piccole

                  tazze del latte, ora vuote.
                  Lei li ha riavvolti

                  Dentro il suo corpo come petali
                  di una rosa richiusa quando il giardino

                  s'intorpidisce e sanguinano odori
                  dalle dolci, profonde gole del fiore della notte.

                  Niente di cui rattristarsi ha la luna
                  che guarda dal suo cappuccio d'osso.

                  A certe cose è ormai abituata.
                  Crepitano, si tendono le sue macchie nere.
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                    Scritta da: Silvana Stremiz
                    Les enfants qui s'aiment s'embrassent debout
                    Contre les portes de la nuit
                    Et les passants qui passent les désignent du doigt
                    Mais les enfants qui s'aiment
                    Ne sont là pour personne
                    Et c'est seulement leur ombre
                    Qui tremble dans la nuit
                    Excitant la rage des passants
                    Leur rage leur mépris leurs rires et leur envie
                    Les enfants qui s'aiment ne sont là pour personne
                    Ils sont ailleurs bien plus loin que la nuit
                    Bien plus haut que le jour
                    Dans l'éblouissante clarté de leur premier amour.
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