Le migliori poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz

Sera Festiva

O mamma, o mammina, hai stirato
la nuova camicia di lino?
Non c'era laggiù tra il bucato,
sul bossolo o sul biancospino.
Su gli occhi tu tieni le mani...
Perché? Non lo sai che domani...?
din don dan, din don dan.
Si parlano i bianchi villaggi
cantando in un lume di rosa:
dell'ombra dè monti selvaggi
si sente una romba festosa.
Tu tieni a gli orecchi le mani...
tu piangi; ed è festa domani...
din don dan, din don dan.
Tu pensi... Oh! Ricordo: la pieve...
quanti anni ora sono? Una sera...
il bimbo era freddo, di neve;
il bimbo era bianco, di cera:
allora sonò la campana
(perché non pareva lontana? )
din don dan, din don dan.
Sonavano a festa, come ora,
per l'angiolo; il nuovo angioletto
nel cielo volava a quell'ora;
ma tu lo volevi al tuo petto,
con noi, nella piccola zana:
gridavi; e lassù la campana...
din don dan, din don dan.
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    L'anguilla

    L'anguilla, la sirena
    dei mari freddi che lascia il Baltico
    per giungere ai nostri mari,
    ai nostri estuari, ai fiumi
    che risale in profondo, sotto la piena avversa,
    di ramo in ramo e poi
    di capello in capello, assottigliati,
    sempre piú addentro, sempre piú nel cuore
    del macigno, filtrando
    tra gorielli di melma finché un giorno
    una luce scoccata dai castagni
    ne accende il guizzo in pozze d'acquamorta,
    nei fossi che declinano
    dai balzi d'Appennino alla Romagna;
    l'anguilla, torcia, frusta,
    freccia d'Amore in terra
    che solo i nostri botri o i disseccati
    ruscelli pirenaici riconducono
    a paradisi di fecondazione;
    l'anima verde che cerca
    vita là dove solo
    morde l'arsura e la desolazione,
    la scintilla che dice
    tutto comincia quando tutto pare
    incarbonirsi, bronco seppellito:
    l'iride breve, gemella
    di quella che incastonano i tuoi cigli
    e fai brillare intatta in mezzo ai figli
    dell'uomo, immersi nel tuo fango, puoi tu
    non crederla sorella?
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      Il sabato del villaggio

      La donzelletta vien dalla campagna,
      In sul calar del sole,
      Col suo fascio dell'erba; e reca in mano
      Un mazzolin di rose e di viole,
      Onde, siccome suole,
      Ornare ella si appresta
      Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
      Siede con le vicine
      Su la scala a filar la vecchierella,
      Incontro là dove si perde il giorno;
      E novellando vien del suo buon tempo,
      Quando ai dì della festa ella si ornava,
      Ed ancor sana e snella
      Solea danzar la sera intra di quei
      Ch'ebbe compagni dell'età più bella.
      Già tutta l'aria imbruna,
      Torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre
      Giù dà colli e dà tetti,
      Al biancheggiar della recente luna.
      Or la squilla dà segno
      Della festa che viene;
      Ed a quel suon diresti
      Che il cor si riconforta.
      I fanciulli gridando
      Su la piazzuola in frotta,
      E qua e là saltando,
      Fanno un lieto romore:
      E intanto riede alla sua parca mensa,
      Fischiando, il zappatore,
      E seco pensa al dì del suo riposo.
      Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
      E tutto l'altro tace,
      Odi il martel picchiare, odi la sega
      Del legnaiuol, che veglia
      Nella chiusa bottega alla lucerna,
      E s'affretta, e s'adopra
      Di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.
      Questo di sette è il più gradito giorno,
      Pien di speme e di gioia:
      Diman tristezza e noia
      Recheran l'ore, ed al travaglio usato
      Ciascuno in suo pensier farà ritorno.
      Garzoncello scherzoso,
      Cotesta età fiorita
      È come un giorno d'allegrezza pieno,
      Giorno chiaro, sereno,
      Che precorre alla festa di tua vita.
      Godi, fanciullo mio; stato soave,
      Stagion lieta è cotesta.
      Altro dirti non vò; ma la tua festa
      Ch'anco tardi a venir non ti sia grave.
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        La Credenza

        È un ampio armadio scolpito; l'antica scura
        quercia ha preso una buon'aria di vecchia gente;
        l'armadio è aperto, e scioglie dentro l'ombratura
        come onda di vin vecchio, un profumo attraente.

        È un miscuglio di vecchie anticaglie, stipato
        di panni odorosi e gialli, di straccetti
        di donne e fanciulli, di appassiti merletti,
        di scialli di nonna col grifo pitturato;

        - Qui trovi ciocche di capelli bianche e bionde,
        i ritratti, i medaglioni, la frutta e i fiori
        secchi il cui profumo insieme si confonde.

        - Ne sai di storie, o mia credenza d'ore morte!
        Vorresti dirci i tuoi racconti, e fai rumori
        se lente s'aprono le grandi nere porte.
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Canto primo

          Quando l'Eterno passeggiò col guardo
          Tutto il creato, diffondendo intorno
          Riso di pace, e fiammeggiar si vide
          Nè cieli il Sole, e rotear le stelle
          Dietro la dolce-radïante Luna
          Tra il fresco vel di solitaria notte,
          E germogliò natura, e al grigio capo
          Degli altissimi monti alberi eccelsi
          Fèro corona, e orrisonando udissi
          L'ampio padre Oceàn fremer da lungi;
          Sin da quel giorno d'aquilon su i vanni
          Scese Giustizia, e i fulmini guizzando
          Al fianco le strideano, i dispersi
          Crini eran cinti d'abbaglianti lampi.
          In alto assisa vide ergersi il fumo
          D'innocuo sangue, che fraterna mano
          Invida sparse, e dagli vacui abissi
          A tracannarlo, e tingersi le guance
          Morte ansante lanciossi: immerse allora
          La Dea nel sangue il brando, e a far vendetta
          Piombò su l'orbe, che tacque e crollò.
          Ma fra le colpe di natura infame
          Brutta d'orrore la tremenda Dea
          Si fè nel viso, e 'l lagrimato manto
          E le aggruppate chiome ad ogni scossa
          Grondavan sangue, e fra gemiti ed ululi
          S'udia l'inferno e la potenza eterna
          Bestemmiando invocati. - A un tratto sparve
          Contaminata la Giustizia fera,
          E al sozzo pondo dell'umane colpe
          Le suo immense bilance cigolaro;
          Balzò l'una alle sfere, e l'altra cadde
          Inabissata nel tartareo centro.

          L'Onnipossente dal più eccelso giro
          Della sua gloria, d'onde tutto move,
          Udì le strida del percosso mondo,
          E al ciel lanciarsi la ministra eterna
          Vide: accennò la fronte, e le soavi
          Arpe angeliche tacquero; e la faccia
          Prostraro i cherubini, e '1 firmamento
          Squassato s'incurvò. - Verrà quel giorno,
          Verrà quel giorno, disse Dio, che all'aere
          Ondeggeranno quasi lievi paglie
          L'audaci moli; le turrite cime,
          D'un astro allo strisciar, cenere e fumo
          Saranno a un tratto; tentennar vedrassi
          Orrisonante la sferrata terra,
          Che stritolata piomberà nel lembo
          D'antiqua notte, fra le cui tenèbre
          E Luna e Sol staran confusi e muti;
          Negro e sanguigno bollirà furente
          Lo spumante Oceàn, rigurgitando
          Dall'imo ventre polve e fracid'ossa,
          Che al rintronar di rantolosa tuba
          Rivestiran lor salma, e quai giganti
          Vedransi passeggiar su le ruine
          Dè globi inabissati! E morte e nulla
          Tutto sarà: precederammi il foco,
          Fia mio soglio Giustizia, e fianmi ancelle,
          Armate il braccio ed infiammato il volto,
          Ira e Paura! Ma Pietà sul mondo
          Scenda sino a quel giorno, e di tremenda
          Giustizia fermi l'instancabil brando.
          Disse; e Pietà, dei Serafin tra mille
          Voci di gaudio, dell'Eterno al trono
          Le ginocchia piegò; stese la palma
          Il Re dei re su la chinata testa,
          E l'unse del suo amor. Udissi allora
          Spontaneamente volteggiar pè cieli
          Inno sacro a Pietà: m'udite attenti
          E terra e mar, e canterò; m'udite,
          Chè questo è un inno che dal ciel discende.
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            Ti guardo e il sole cresce

            Ti guardo e il sole cresce
            Presto ricoprirà la nostra giornata
            Svegliati cuore e colori in mente
            Per dissipare le pene della notte

            Ti guardo tutto è spoglio
            Fuori le barche hanno poca acqua
            Bisogna dire tutto con poche parole
            Il mare è freddo senza amore

            È l'inizio del mondo
            Le onde culleranno il cielo
            E tu vieni cullata dalle tue lenzuola
            Tiri il sonno verso di te
            Svegliati che io segua le tue tracce
            Ho un corpo per attenderti per seguirti
            Dalle porte dell'alba alle porte dell'ombra
            Un corpo per passare la mia vita ad amarti

            Un corpo per sognare al di fuori del tuo son.
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              Scritta da: Silvana Stremiz
              Nel cerchio di un pensiero
              a volte mi riposo sognando
              e lí sta il tuo peccato
              perché mi entri nel corpo
              e il corpo si appassiona
              gridando di un'estasi che non è sua
              altri giovani amanti diciamo
              che sono presenti
              nei tuoi baci nelle mie disattenzioni
              infatti su di me hanno camminato
              le ombre dei morti
              di coloro che sono inceneriti
              in un letto
              e non hanno mai avuto niente.
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