La porta è socchiusa La porta è socchiusa, dolce respiro dei tigli... Sul tavolo, dimenticati, un frustino ed un guanto.
Giallo cerchio del lume... tendo l'orecchio ai fruscii. Perché sei andato via? Non comprendo...
Luminoso e lieto domani sarà il mattino. Questa vita è stupenda, sii dunque saggio cuore. Tu sei prostrato, batti più sordo, più a rilento... Sai, ho letto che le anime sono immortali.
Sei appena uscito di prigione e appena uscito ecco tua moglie incinta. La sera la prendi sottobraccio. Ve ne andate a passeggio per le strade del quartiere. Ha il ventre quasi fino al naso tua moglie. E il suo peso sacro lo porta con civetteria. Tu sei fiero e pieno di rispetto. Fa fresco, una freschezza come le mani di un bimbo infreddolito. I gatti del quartiere aspettano attorno alla macelleria. Al primo piano, la macellaia ricciuta, i grossi seni appoggiati sul davanzale, contempla il tramonto. In mezzo al cielo compare una stella, limpida e bella come un bicchier d'acqua. L'estate è durata a lungo quest'anno e se i gelsi sono ingialliti, i fichi sono ancora verdi. Refik, il tipografo, e la figlia più giovane di Jorghi, il lattaio, passeggiano su e giù, con le dita intrecciate. Karabè, il pizzicagnolo, ha già acceso le luci. Quest'armeno non ha dimenticato il massacro di suo padre tra le montagne curde. Ma a te, ti vuol bene. Anche tu non li puoi perdonare quelli che hanno messo questo marchio sulla fronte del popolo turco. I malati, i tisici del quartiere guardano da dietro i vetri. Il figlio di Nuriye, la lavandaia, disoccupato, ingobbito dalla tristezza, s'avvia verso la bettola. In casa di Rahmi si sente il radio-giornale. Hanno mandato 4500 ragazzi in un paese dell'Estremo Oriente per massacrare i loro fratelli, dal viso giallo lunare. Il tuo viso arrossisce di collera e di vergogna. Non sei obiettivo, no, al diavolo, ma triste di una tristezza tua propria, una tristezza con le mani e i piedi legati, come se fossi ancora in prigione, e giù in guardina sentissi i gendarmi battere i contadini . La notte è caduta. Il passeggio serale è terminato. Una jeep della polizia entra nella strada. Tua moglie sussurra: "andrà a casa? ".
Dov'era la luna? Ché il cielo notava in un'alba di perla, ed ergersi il mandorlo e il melo parevano a meglio vederla. Venivano soffi di lampi da un nero di nubi laggiù: veniva una voce dai campi: chiù... Le stelle lucevano rare tra mezzo alla nebbia di latte: sentivo il cullare del mare, sentivo un fru fru tra le fratte; sentivo nel cuore un sussulto, com'eco d'un grido che fu. Sonava lontano il singulto: chiù... Su tutte le lucide vette tremava un sospiro di vento; squassavano le cavallette finissimi sistri d'argento (tintinni a invisibili porte che forse non s'aprono più?... ); e c'era quel pianto di morte... chiù...
Ricordi quand'eri saggina, coi penduli grani che il vento scoteva, come una manina di bimbo il sonaglio d'argento? Cadeva la brina; la pioggia cadeva: passavano uccelli gemendo: tu gracile e roggia tinnivi coi cento ramelli. Ed oggi non più come ieri tu senti la pioggia e la brina, ma sgrigioli come quand'eri saggina. Restavi negletta nei solchi quand'ogni pannocchia fu colta: te, colsero, quando i bifolchi v'ararono ancora una volta. Un vecchio ti prese, recise, legò; ti privò della bella semenza tua rossa; e ti mise nell'angolo, ad essere ancella. E in casa tu resti, in un canto, negletta qui come laggiù; ma niuno è di casa pur quanto sei tu. Se t'odia colui che la trama distende negli alti solai, l'arguta gallina pur t'ama, cui porti la preda che fai. E t'ama anche senza, ché ai costi ti sbalza, ed i grani t'invola, residui del tempo che fosti saggina, nei campi già sola. Ma più, gracilando t'aspetta con ciò che in tua vasta rapina le strascichi dalla già netta cucina. Tu lasci che t'odiino, lasci che t'amino: muta, il tuo giorno, nell'angolo, resti, coi fasci di stecchi che attendono il forno. Nell'angolo il giorno tu resti, pensosa del canto del gallo; se al bimbo tu già non ti presti, che viene, e ti vuole cavallo. Riporti, con lui che ti frena, le paglie ch'hai tolte, e ben più; e gioia or n'ha esso; ma pena poi tu. Sei l'umile ancella; ma reggi la casa: tu sgridi a buon'ora, mentre impaziente passeggi, gl'ignavi che dormono ancora. E quanto tu muovi dal canto, la rondine è ancora nel nido; e quando comincia il suo canto, già ode per casa il tuo strido. E l'alba il suo cielo rischiara, ma prima lo spruzza e imperlina, così come tu la tua cara casina. Sei l'umile ancella, ma regni su l'umile casa pulita. Minacci, rimproveri; insegni ch'è bella, se pura, la vita. Insegni, con l'acre tua cura rodendo la pietra e la creta, che sempre, per essere pura, si logora l'anima lieta. Insegni, tu sacra ad un rogo non tardo, non bello, che più di ciò che tu mondi, ti logori tu!
Vien da lungi la Sera, camminando per la pineta tacita, di neve. Poi, contro tutte le finestre preme le sue gelide guance; e, zitta, origlia. Si fa silenzio, allora, in ogni casa. Siedono i vecchi, meditando. I bimbi non si attentano ancora ai loro giuochi. Cade di mano alle fantesche il fuso.
La Sera ascolta, trepida, pei vetri; tutti - all'interno - ascoltano la Sera.
Lontano da uccelli, da greggi, da paesane, io bevevo, rannicchiato in una brughiera, cinta da una selva di noccioli leggera, in verdi e tiepide foschie meridiane.
Che potevo bere in quella giovane Oïsa, muti olmi, cielo coperto, erba senza fiori. Che spillavo alla mia fiasca di colocasia? Un liquore d'oro, insulso, che dà sudori.
Cattiva insegna d'osteria sarei stato. Poi il temporale mutò il cielo, fino a sera. Furon laghi, pertiche, stazioni, una nera regione, e nella notte blu fu un colonnato.
L'acqua dei boschi moriva alla verginale sabbia, e il vento, dal cielo, ghiacciava acquitrini... Io, pescatore d'oro e di gusci marini, dire che non pensai di bere, come tale!
Mutando a vicenda la sorte, essi un giorno dimorano presso Zeus, il padre diletto; un altro, nelle cavità della terra, nei recessi di Terapne, compiendo un uguale destino. Questa vita scelse Polluce, più che essere in tutto un dio e abitare nel cielo, poi che era morto Castore in guerra. L'aveva trafitto Ida irato per i buoi, con la punta della lancia di bronzo. Dal Taigeto, spiando, Linceo lo scorse acquattato nel cavo di un tronco di quercia: ché di tutti i mortali egli aveva più acuto lo sguardo. Con corsa veloce subito lo raggiunsero, e ordirono in breve il grande misfatto. Ma dalle mani di Zeus una pena terribile patirono gli Afaretidi. Inseguendo, giunse presto il figlio di Leda; ed essi si opposero a lui presso la tomba del padre. Divelta di qui una pietra levigata, ornamento di Ade, la scagliarono contro il petto a Polluce; ma non lo schiacciarono né lo respinsero. Balzò egli con la lancia veloce, e immerse il bronzo nel fianco a Linceo. Contro Ida scagliò Zeus il suo fulmine, portatore di fuoco, fumoso: insieme essi arsero, in solitudine. Difficile è per i mortali lottare coi più forti. Sùbito il figlio di Tindaro tornò indietro presso il forte fratello: non morto ancora, ma per l'affanno scosso da rantoli convulsi lo trovò. Versando lacrime calde, tra i gemiti, gridò: "Padre Cronide, quale rimedio sarà ai miei dolori? Ordina anche a me, insieme a lui, la morte, o Signore. Per l'uomo privato dei suoi cari perduta è la gloria: nell'affanno, sono pochi i mortali che, fedeli, partecipano alle pene". Così disse. Zeus davanti gli venne e pronunciò queste parole: "Tu sei mio figlio; poi, congiuntosi alla madre tua l'eroe suo sposo stillo il seme mortale. Ma orsù, questa scelta io ti concedo: se evitata la morte e la vecchiezza aborrita, tu vuoi abitare con me nell'Olimpo, con Atena e con Ares dalla lancia nera, è possibile a te questa sorte. Ma se per il fratello combatti, e ogni cosa pensi dividere con lui in parte uguale, metà del tempo vivrai sotto la terra, e metà nelle dimore d'oro del cielo". Così parlò. E Polluce non pose alla mente un duplice pensiero: sciolse l'occhio e poi la voce di Castore dalla cintura di bronzo.
Loreto impagliato e il busto d'Alfieri, di Napoleone, i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto!)
il caminetto un po' tetro, le scatole senza confetti, i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro,
un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve, gli oggetti con mònito, salve, ricordo, le noci di cocco,
Venezia ritratta a musaici, gli acquerelli un po' scialbi, le stampe, i cofani, gli albi dipinti d'anemoni arcaici,
le tele di Massimo d'Azeglio, le miniature, i dagherottipi: figure sognanti in perplessità,
il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone e immilla nel quarto le buone cose di pessimo gusto,
il cùcu dell'ore che canta, le sedie parate a damasco chermisi... rinasco, rinasco del mille ottocento cinquanta!
I fratellini alla sala quest'oggi non possono accedere che cauti (hanno tolte le fodere ai mobili: è giorno di gala)
ma quelli v'irrompono in frotta. È giunta è giunta in vacanza la grande sorella Speranza con la compagna Carlotta.
Ha diciassette anni la Nonna! Carlotta quasi lo stesso: da poco hanno avuto il permesso d'aggiungere un cerchio alla gonna;
il cerchio ampissimo increspa la gonna a rose turchine: più snella da la crinoline emerge la vita di vespa.
Entrambe hanno uno scialle ad arancie, a fiori, a uccelli, a ghirlande: divisi i capelli in due bande scendenti a mezzo le guance.
Son giunte da Mantova senza stanchezza al Lago Maggiore sebbene quattordici ore viaggiassero in diligenza.
Han fatto l'esame più egregio di tutta la classe. Che affanno passato terribile! Hanno lasciato per sempre il collegio.
O Belgirate tranquilla! La sala dà sul giardino: fra i tronchi diritti scintilla lo specchio del Lago turchino.
Silenzio, bambini! Le amiche - bambini, fate pian piano! - le amiche provano al piano un fascio di musiche antiche:
motivi un poco artefatti nel secentismo fronzuto di Arcangelo del Leuto e di Alessandro Scarlatti;
innamorati dispersi, gementi il "core" e "l'augello", languori del Giordanello in dolci bruttissimi versi:
... caro mio ben credimi almen, senza di te languisce il cor! Il tuo fedel sospira ognor cessa crudel tanto rigor! Carlotta canta, Speranza suona. Dolce e fiorita si schiude alla breve romanza di mille promesse la vita.
O musica, lieve sussurro! E già nell'animo ascoso d'ognuna sorride lo sposo promesso: il Principe Azzurro,
lo sposo dei sogni sognati... O margherite in collegio sfogliate per sortilegio sui teneri versi del Prati!
Giungeva lo Zio, signore virtuoso di molto riguardo, ligio al Passato al Lombardo-Veneto e all'Imperatore.
Giungeva la Zia, ben degna consorte, molto dabbene, ligia al Passato sebbene amante del Re di Sardegna.
"Baciate la mano alli Zii! " - dicevano il Babbo e la Mamma, e alzavano il volto di fiamma ai piccolini restii.
"E questa è l'amica in vacanza: madamigella Carlotta Capenna: l'alunna più dotta, l'amica più cara a Speranza. "
"Ma bene... ma bene... ma bene... " - diceva gesuitico e tardo lo Zio di molto riguardo - "Ma bene... ma bene... ma bene...
Capenna? Conobbi un Arturo Capenna... Capenna... Capenna... Sicuro! Alla Corte di Vienna! Sicuro... sicuro... sicuro... "
"Gradiscono un po' di marsala? " "Signora Sorella: magari. " E sulle poltrone di gala sedevano in bei conversari.
"... ma la Brambilla non seppe... - È pingue già per lErnani; la Scala non ha più soprani... - Che vena quel Verdi... Giuseppe!...
"... nel marzo avremo un lavoro - alla Fenice, m'han detto - nuovissimo: il Rigoletto; si parla d'un capolavoro. -
"... azzurri si portano o grigi? - E questi orecchini! Che bei rubini! E questi cammei?... La gran novità di Parigi...
"... Radetzki? Ma che! L'armistizio... la pace, la pace che regna... Quel giovine Re di Sardegna è uomo di molto giudizio! -
"È certo uno spirito insonne... -... è forte e vigile e scaltro. "È bello? - Non bello: tutt'altro... - Gli piacciono molto le donne...
"Speranza! " (chinavansi piano, in tono un po' sibillino) "Carlotta! Scendete in giardino: andate a giuocare al volano! "
Allora le amiche serene lasciavano con un perfetto inchino di molto rispetto gli Zii molto dabbene.
Oimè! Ché giocando, un volano, troppo respinto all'assalto, non più ridiscese dall'alto dei rami d'un ippocastano!
S'inchinano sui balaustri le amiche e guardano il Lago, sognando l'amore presago nei loro bei sogni trilustri.
"... se tu vedessi che bei denti! - Quant'anni? - Vent'otto. - Poeta? Frequenta il salotto della Contessa Maffei! "
Non vuole morire, non langue il giorno. S'accende più ancora di porpora: come un'aurora stigmatizzata si sangue;
si spenge infine, ma lento. I monti s'abbrunano in coro: il Sole si sveste dell'oro, la Luna si veste d'argento.
Romantica Luna fra un nimbo leggero, che baci le chiome dei pioppi arcata siccome un sopracciglio di bimbo,
il sogno di tutto un passato nella tua curva s'accampa: non sorta sei da una stampa del Novelliere Illustrato?
Vedesti le case deserte di Parisina la bella non forse? Non forse sei quella amata dal giovane Werther?
"... Mah!... Sogni di là da venire. - Il Lago s'è fatto più denso di stelle -... che pensi?... - Non penso... - Ti piacerebbe morire?
"Sì! - Pare che il cielo riveli più stelle nell'acqua e più lustri. Inchìnati sui balaustri: sognano così fra due cieli...
"Son come sospesa: mi libro nell'alto!... - Conosce Mazzini... - E l'ami? - Che versi divini!... Fu lui a donarmi quel libro,
ricordi? Che narra siccome amando senza fortuna un tale si uccida per una: per una che aveva il mio nome. "
Carlotta! Nome non fine, ma dolce! Che come l'essenze risusciti le diligenze, lo scialle, le crinoline...
O amica di Nonna conosco le aiuole per ove leggesti i casi di Jacopo mesti nel tenero libro del Foscolo.
Ti fisso nell'albo con tanta tristezza, ov'è di tuo pugno la data: vent'otto di Giugno del mille ottocento cinquanta.
Stai come rapita in un cantico; lo sguardo al cielo profondo, e l'indice al labbro, secondo l'atteggiamento romantico.
Quel giorno - malinconia! - vestivi un abito rosa per farti - novissima cosa! - ritrarre in fotografia...
Ma te non rivedo nel fiore, o amica di Nonna! Ove sei o sola che - forse - potrei amare, amare d'amore?