Le migliori poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz

La petite promenade du poète

Me ne vado per le strade
strette oscure e misteriose
vedo dietro le vetrate
affacciarsi Gemme e Rose.
Dalle scale misteriose
c'è chi scende brancolando
dietro i vetri rilucenti
stan le ciane commentando.
...
...
La stradina è solitaria
non c'è un cane; qualche stella
nella notte sopra i tetti:
e la notte mi par bella.
E cammino poveretto
nella notte fantasiosa
pur mi sento nella bocca
la saliva disgustosa. Via dal tanfo
via dal tanfo e per le strade
e cammina e via cammina,
già le case son più rade.
Trovo l'erba: mi ci stendo
a conciarmi come un cane:
Da lontano un ubriaco
canta amore alle persiane.
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    Dopo l'acquazzone (Myricae)

    Passò strosciando e sibilando il nero
    nembo: or la chiesa squilla; il tetto, rosso,
    luccica; un fresco odor dal cimitero
    viene, di bosso.
    Presso la chiesa; mentre la sua voce
    tintinna, canta, a onde lunghe romba;
    ruzza uno stuolo, ed alla grande croce
    tornano a bomba.
    Un vel di pioggia vela l'orizzonte;
    ma il cimitero, sotto il ciel sereno,
    placido olezza: va da monte a monte
    l'arcobaleno.
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      L'ultimo canto di Saffo

      Placida notte, e verecondo raggio
      Della cadente luna; e tu che spunti
      Fra la tacita selva in su la rupe,
      Nunzio del giorno; oh dilettose e care
      Mentre ignote mi fur l'erinni e il fato,
      Sembianze agli occhi miei; già non arride
      Spettacol molle ai disperati affetti.
      Noi l'insueto allor gaudio ravviva
      Quando per l'etra liquido si volve
      E per li campi trepidanti il flutto
      Polveroso dè Noti, e quando il carro,
      Grave carro di Giove a noi sul capo,
      Tonando, il tenebroso aere divide.
      Noi per le balze e le profonde valli
      Natar giova trà nembi, e noi la vasta
      Fuga dè greggi sbigottiti, o d'alto
      Fiume alla dubbia sponda
      Il suono e la vittrice ira dell'onda.
      Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
      Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
      Infinita beltà parte nessuna
      Alla misera Saffo i numi e l'empia
      Sorte non fenno. À tuoi superbi regni
      Vile, o natura, e grave ospite addetta,
      E dispregiata amante, alle vezzose
      Tue forme il core e le pupille invano
      Supplichevole intendo. A me non ride
      L'aprico margo, e dall'eterea porta
      Il mattutino albor; me non il canto
      Dè colorati augelli, e non dè faggi
      Il murmure saluta: e dove all'ombra
      Degl'inchinati salici dispiega
      Candido rivo il puro seno, al mio
      Lubrico piè le flessuose linfe
      Disdegnando sottragge,
      E preme in fuga l'odorate spiagge.
      Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
      Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
      Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
      In che peccai bambina, allor che ignara
      Di misfatto è la vita, onde poi scemo
      Di giovanezza, e disfiorato, al fuso
      Dell'indomita Parca si volvesse
      Il ferrigno mio stame? Incaute voci
      Spande il tuo labbro: i destinati eventi
      Move arcano consiglio. Arcano è tutto,
      Fuor che il nostro dolor. Negletta prole
      Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
      Dè celesti si posa. Oh cure, oh speme
      Dè più verd'anni! Alle sembianze il Padre,
      Alle amene sembianze eterno regno
      Diè nelle genti; e per virili imprese,
      Per dotta lira o canto,
      Virtù non luce in disadorno ammanto.
      Morremo. Il velo indegno a terra sparto
      Rifuggirà l'ignudo animo a Dite,
      E il crudo fallo emenderà del cieco
      Dispensator dè casi. E tu cui lungo
      Amore indarno, e lunga fede, e vano
      D'implacato desio furor mi strinse,
      Vivi felice, se felice in terra
      Visse nato mortal. Me non asperse
      Del soave licor del doglio avaro
      Giove, poi che perir gl'inganni e il sogno
      Della mia fanciullezza. Ogni più lieto
      Giorno di nostra età primo s'invola.
      Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l'ombra
      Della gelida morte. Ecco di tante
      Sperate palme e dilettosi errori,
      Il Tartaro m'avanza; e il prode ingegno
      Han la tenaria Diva,
      E l'atra notte, e la silente riva.
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        La sera del dì di festa

        Dolce e chiara è la notte e senza vento,
        E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
        Posa la luna, e di lontan rivela
        Serena ogni montagna. O donna mia,
        Già tace ogni sentiero, e pei balconi
        Rara traluce la notturna lampa:
        Tu dormi, che t'accolse agevol sonno
        Nelle tue chete stanze; e non ti morde
        Cura nessuna; e già non sai né pensi
        Quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.
        Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
        Appare in vista, a salutar m'affaccio,
        E l'antica natura onnipossente,
        Che mi fece all'affanno. A te la speme
        Nego, mi disse, anche la speme; e d'altro
        Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
        Questo dì fu solenne: or dà trastulli
        Prendi riposo; e forse ti rimembra
        In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
        Piacquero a te: non io, non già ch'io speri,
        Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
        Quanto a viver mi resti, e qui per terra
        Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
        In così verde etate! Ahi, per la via
        Odo non lunge il solitario canto
        Dell'artigian, che riede a tarda notte,
        Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
        E fieramente mi si stringe il core,
        A pensar come tutto al mondo passa,
        E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
        Il dì festivo, ed al festivo il giorno
        Volgar succede, e se ne porta il tempo
        Ogni umano accidente. Or dov'è il suono
        Di què popoli antichi? Or dov'è il grido
        Dè nostri avi famosi, e il grande impero
        Di quella Roma, e l'armi, e il fragorio
        Che n'andò per la terra e l'oceano?
        Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
        Il mondo, e più di lor non si ragiona.
        Nella mia prima età, quando s'aspetta
        Bramosamente il dì festivo, or poscia
        Ch'egli era spento, io doloroso, in veglia,
        Premea le piume; ed alla tarda notte
        Un canto che s'udia per li sentieri
        Lontanando morire a poco a poco,
        Già similmente mi stringeva il core.
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Le stagioni umane

          Quattro stagioni fanno intero l'anno,
          quattro stagioni ha l'animo dell'uomo.
          Egli ha la sua robusta Primavera
          quando coglie l'ingenua fantasia
          ad aprire di mano ogni bellezza;
          ha la sua Estate quando ruminare
          il boccone di miel primaverile
          del giovine pensiero ama perduto
          di voluttà, e così fantasticando,
          quanto gli è dato approssimarsi al cielo;
          e calmi ormeggi in rada ha nel suo Autunno
          quando ripiega strettamente le ali
          pago di star così a contemplare
          oziando le nebbie, di lasciare
          le cose belle inavvertite lungi
          passare come sulla siglia un rivo.
          Anche ha il suo Inverno di sfiguramento
          pallido, sennò forza gli sarebbe
          rinunciare alla sua mortal natura.
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