Le migliori poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz

Due amici

Una storia racconta di due amici
che camminavano nel deserto. In un momento
del viaggio i due cominciarono a discutere,
ed un amico diede uno schiaffo all'altro...
questi addolorato, ma senza dire nulla,
scrisse nella sabbia:

il mio migliore amico oggi mi ha dato uno schiaffo.

continuarono a camminare, finché trovarono un'oasi,
dove decisero di fare un bagno.
L'amico che era stato schiaffeggiato rischiò di affogare,
ma il suo amico lo salvò. Dopo che si fu ripreso,
scrisse su una pietra:

il mio migliore amico oggi mi ha salvato la vita.

L'amico che aveva dato lo schiaffo
e aveva salvato il suo migliore amico domandò:

"quando ti ho ferito hai scritto nella sabbia,
e adesso lo fai su una pietra. perché? "

l'altro amico rispose:

"quando qualcuno ci ferisce dobbiamo scriverlo nella sabbia,
dove i venti del perdono possano cancellarlo.
ma quando qualcuno fa qualcosa di buono per noi,
dobbiamo inciderlo nella pietra,
dove nessun vento possa cancellarlo."

Impara a scrivere le tue ferite nella sabbia e ad incidere nella pietra le tue gioie.
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    Scritta da: Silvana Stremiz
    Ascoltami, o Dio!
    M'avevano detto che Tu non esistevi
    ed io, come un idiota, ci avevo creduto.
    Ma l'altra sera, dal fondo della buca di una bomba,
    ho veduto il Tuo cielo.
    All'improvviso mi sono reso conto
    che m'avevano detto una menzogna.
    Se mi fossi preso la briga di guardare bene
    le cose che hai fatto Tu,
    avrei capito subito che quei tali
    si rifiutavano di chiamare gatto un gatto.
    Strano che sia stato necessario
    ch'io venissi in questo inferno
    per avere il tempo di vedere il Tuo volto!
    Io ti amo terribilmente...
    ecco quello che voglio che Tu sappia.
    Ci sarà tra poco una battaglia spaventosa.
    Chissà?
    Può darsi che io arrivi da te questa sera stessa.
    Non siamo stati buoni compagni fino ad ora
    e io mi domando, mio Dio,
    se Tu mi aspetterai sulla porta.
    Guarda: ecco come piango!
    Proprio io, mettermi a frignare!
    Ah, se ti avessi conosciuto prima...
    Andiamo! Bisogna che io parta.
    Che cosa buffa:
    dopo che ti ho incontrato non ho più paura di morire.
    Arrivederci!

    (Questa preghiera è stata trovata nello zaino di un soldato morto nel 1944 durante la battaglia di Montecassino)
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      La morte

      È fredda oscura
      arriva senza essere invitata.
      Ti avvolge nel suo gelo
      portandoti nell'oscurità.

      Puoi non volerla ma non rifiutarla.
      A prescindere dalla tua volontà.
      Si prenderà quello che il tempo,
      di te ha lasciato.

      È difficile trovare consolazione in lei,
      se non nelle rare volte che ti strappa al dolore della vita.
      Non arriva mai nel momento giusto,
      forse perché non c'è mai un momento giusto per morire.
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        Davanti a San Guido

        I cipressi che a Bólgheri alti e schietti
        Van da San Guido in duplice filar,
        Quasi in corsa giganti giovinetti
        Mi balzarono incontro e mi guardar.
        Mi riconobbero, e - Ben torni omai -
        Bisbigliaron vèr'me co 'l capo chino -
        Perché non scendi? Perché non ristai ?
        Fresca è la sera e a te noto il cammino.
        Oh sièditi a le nostre ombre odorate
        Ove soffia dal mare il maestrale:
        Ira non ti serbiam de le sassate
        Tue d'una volta: oh non facean già male!
        Nidi portiamo ancor di rusignoli:
        Deh perché fuggi rapido cosí ?
        Le passere la sera intreccian voli
        A noi d'intorno ancora. Oh resta qui! -
        - Bei cipressetti, cipressetti miei,
        Fedeli amici d'un tempo migliore,
        Oh di che cuor con voi mi resterei -
        Guardando lor rispondeva - oh di che cuore !
        Ma, cipressetti miei, lasciatem'ire:
        Or non è piú quel tempo e quell'età.
        Se voi sapeste!... via, non fo per dire,
        Ma oggi sono una celebrità.
        E so legger di greco e di latino,
        E scrivo e scrivo, e ho molte altre virtú:
        Non son piú, cipressetti, un birichino,
        E sassi in specie non ne tiro piú.
        E massime a le piante. - Un mormorio
        Pè dubitanti vertici ondeggiò
        E il dí cadente con un ghigno pio
        Tra i verdi cupi roseo brillò.
        Intesi allora che i cipressi e il sole
        Una gentil pietade avean di me,
        E presto il mormorio si fè parole:
        - Ben lo sappiamo: un pover uom tu sè.
        Ben lo sappiamo, e il vento ce lo disse
        Che rapisce de gli uomini i sospir,
        Come dentro al tuo petto eterne risse
        Ardon che tu né sai né puoi lenir.
        A le querce ed a noi qui puoi contare
        L'umana tua tristezza e il vostro duol.
        Vedi come pacato e azzurro è il mare,
        Come ridente a lui discende il sol!
        E come questo occaso è pien di voli,
        Com'è allegro dè passeri il garrire!
        A notte canteranno i rusignoli:
        Rimanti, e i rei fantasmi oh non seguire;
        I rei fantasmi che dà fondi neri
        De i cuor vostri battuti dal pensier
        Guizzan come da i vostri cimiteri
        Putride fiamme innanzi al passegger.
        Rimanti; e noi, dimani, a mezzo il giorno,
        Che de le grandi querce a l'ombra stan
        Ammusando i cavalli e intorno intorno
        Tutto è silenzio ne l'ardente pian,
        Ti canteremo noi cipressi i cori
        Che vanno eterni fra la terra e il cielo:
        Da quegli olmi le ninfe usciran fuori
        Te ventilando co 'l lor bianco velo;
        E Pan l'eterno che su l'erme alture
        A quell'ora e ne i pian solingo va
        Il dissidio, o mortal, de le tue cure
        Ne la diva armonia sommergerà. -
        Ed io - Lontano, oltre Apennin, m'aspetta
        La Tittí - rispondea; - lasciatem'ire.
        È la Tittí come una passeretta,
        Ma non ha penne per il suo vestire.
        E mangia altro che bacche di cipresso;
        Né io sono per anche un manzoniano
        Che tiri quattro paghe per il lesso.
        Addio, cipressi! Addio, dolce mio piano! -
        - Che vuoi che diciam dunque al cimitero
        Dove la nonna tua sepolta sta? -
        E fuggíano, e pareano un corteo nero
        Che brontolando in fretta in fretta va.
        Di cima al poggio allor, dal cimitero,
        Giú dè cipressi per la verde via,
        Alta, solenne, vestita di nero
        Parvemi riveder nonna Lucia:
        La signora Lucia, da la cui bocca,
        Tra l'ondeggiar de i candidi capelli,
        La favella toscana, ch'è sí sciocca
        Nel manzonismo de gli stenterelli,
        Canora discendea, co 'l mesto accento
        De la Versilia che nel cuor mi sta,
        Come da un sirventese del trecento,
        Piena di forza e di soavità.
        O nonna, o nonna! Deh com'era bella
        Quand'ero bimbo! Ditemela ancor,
        Ditela a quest'uom savio la novella
        Di lei che cerca il suo perduto amor!
        – Sette paia di scarpe ho consumate
        Di tutto ferro per te ritrovare:
        Sette verghe di ferro ho logorate
        Per appoggiarmi nel fatale andare:
        Sette fiasche di lacrime ho colmate,
        Sette lunghi anni, di lacrime amare:
        Tu dormi a le mie grida disperate,
        E il gallo canta, e non ti vuoi svegliare.
        - Deh come bella, o nonna, e come vera
        È la novella ancor! Proprio cosí.
        E quello che cercai mattina e sera
        Tanti e tanti anni in vano, è forse qui,
        Sotto questi cipressi, ove non spero,
        Ove non penso di posarmi piú:
        Forse, nonna, è nel vostro cimitero
        Tra quegli altri cipressi ermo là su.
        Ansimando fuggía la vaporiera
        Mentr'io cosí piangeva entro il mio cuore;
        E di polledri una leggiadra schiera
        Annitrendo correa lieta al rumore.
        Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo
        Rosso e turchino, non si scomodò:
        Tutto quel chiasso ei non degnò d'un guardo
        E a brucar serio e lento seguitò.
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Attendo Domani...

          Attendo domani
          volto pagina, conservo
          di te, di noi, ogni sfumatura,
          sorrisi e lacrime.

          L'ipotetico o reale di ogni respiro
          mi compone
          e respiro ancora noi,
          anche senza di te.

          Anche col freddo che arriva
          sento ancora "noi".
          Quello che poteva,
          quello che è stato
          tutto ancora abbraccio
          con forza e intensità.

          A te rinuncio, ti lascio volare
          ma non rinuncio al "noi"
          che vive dentro di me,
          che nutre oggi e dà vita al domani.

          Dentro di me l'immenso,
          quello che non puoi vedere c'è.
          Nutri i miei sogni, sazi la mia anima.
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            Nuovi colori e spazi bianchi

            Ricomincio da qui... ce la posso fare
            Riparto da me
            non si tratta d'orgoglio
            solamente di dignità
            riprendo il mio essere DONNA
            Seppellisco
            l'amarezza dell'umiliazione
            dell'attesa eterna del niente
            che ha consumato le mie notti
            in inutili stupide preghiere.

            Un consumarsi lento e logorante
            del cuore e dell'anima.
            Mettere via il rumore del silenzio del vuoto
            del dolore di quello che vorresti e che non è
            È doveroso quando uccide.

            Riparto da qui...
            con in una mano il passato
            per non dimenticare ed errare ancora
            nell'altra la speranza, il coraggio
            di chi sa che esiste un domani
            e con la forza di chi ancora crede.

            Riparto con tutti i miei errori
            con un bagaglio pieno di tutto
            e l'anima piena di nulla
            con speranze deluse
            con nuovi colori e spazi bianchi
            da riempire con il coraggio che c'è in me.
            Composta venerdì 2 dicembre 2011
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              Sono Gagarin, il figlio della terra

              Io sono Gagarin.
              Per primo ho volato,
              e voi volaste dopo di me.
              Sono stato donato
              per sempre al cielo, dalla terra,
              come il figlio dell'umanità.
              In quell 'aprile
              i volti delle stelle, che gelavano senza carezze,
              coperte di muschio e di ruggine,
              si riscaldarono
              per le lentiggini rossigne di Smolensk
              salite al cielo.
              Ma le lentiggini sono tramontate.
              Quanto mi è terribile
              non restare che un bronzo, che un'ombra,
              non poter carezzare né l'erba, né un bambino,
              né far scricchiolare il cancelletto d'un giardino.
              Da sotto la nera cicatrice del timbro postale
              vi sorrido io
              con il sorriso ch'è volato via.
              Ma osservate bene cartoline e francobolli
              e capirete subito:
              per l'eternità
              io sono in volo.
              Mi applaudivano le mani dell'intera umanità.
              La gloria tentava di sedurmi,
              ma no, non c'è riuscita.

              Sulla tetra mi sono schiantato,
              quella che per primo ho visto tanto piccola,
              e la terra non me l'ha perdonata.
              Ma io perdono la terra,
              sono figlio suo, in spirito e carne,
              e per i secoli prometto
              di continuare il mio volo
              al di sopra al di sopra dei bombardamenti,
              delle tele-radiomenzogne,
              che la stringono con le loro volute,
              al di sopra delle donnaccole che baldanzosamente
              ballano lo streep-tease
              per i soldati nel Viet Nam,
              al di sopra della tonsura
              del frate
              che vorrebbe volare, ma è imbarazzato dalla sottana,
              al di sopra della censura
              che nella sua tonacaccia, inghiottì in Spagna le ali dei poeti...

              C'è chi
              è in volo
              nel simun vorticoso di stelle.
              C'è chi
              si dibatte
              nella palude da se stesso voluta.
              Uomini, o uomini
              ingenui spacconi,
              pensate: non vi fa paura
              alzarvi dal Capo che porta il nome dell'uomo che avete ucciso?
              Vergognatevi di questo baccano da mercato!
              Voi siete gelosi,
              rapaci,
              vendicativi.
              Come potete cadere tanto in basso se volate tanto in alto?!

              Io sono Gagarin, figlio della Terra,
              figlio dell'umanità:
              sono russo, greco e bulgaro,
              australiano e finlandese.

              Vi incarno tutti
              col mio slancio verso i cieli.
              Il mio nome è casuale,
              ma io non sono stato per caso.

              Mentre la terra s'insozzava
              di vanità e di peccato,
              il mio nome cambiava,
              ma l'anima no.

              Mi chiamavano Icaro.
              Giacqui nella polvere, nella cenere.
              Mi aveva spinto verso il sole
              il buio della terra.

              La cera si sciolse, spargendosi qua e là.
              Caddi senza salvezza,
              ma un pizzico di sole
              rimase stretto nella mia mano.

              Mi chiamarono servo.
              La rabbia mi pesava sulla schiena
              mentre, ritmando il tempo con le mani e coi piedi,
              danzavano sul mio corpo.

              Io caddi sotto le bastonate,
              ma, maledicendo la servitù,
              mi costruii delle ali coi bastoni
              dei miei torturatori!
              Ad Odessa fui Utockin.
              Fece uno scarto il duca,
              quando al di sopra dei suoi pantaloncini a piffero
              si levò un cavallo volante.

              Sotto il nome di Nesterov
              girando sopra la terra,
              feci innamorare la luna
              col mio giro della morte.

              La morte fischiava sulle ali.
              È una virtù disprezzarla
              e con Gastello imberbe
              mi gettai in volo sul nemico.

              E le ali temerarie
              ardendo come un rogo, hanno protetto,
              voi che foste allora ragazzi,
              Aldrin, Collins, Armstrong.

              E, sicuro della speranza
              che gli uomini sono un'unica famiglia,
              dell'equipaggio di Apollo
              invisibile io ero.

              Mangiammo dai tubetti,
              avremmo brindato in viaggio
              come sull'Elba,
              ci abbracciammo sulla Galassia.

              Il lavoro procedeva senza scherzi.
              Era in gioco la vita
              e con lo stivale di Armstrong
              io scesi sulla Luna.
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